Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44506 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44506 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato in Romania il 14/12/1973 COGNOME NOME nato a Torre Annunziata il 08/11/1951
avverso la sentenza del 30/11/2023 della Corte d’appello di Firenze Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi;
lette le conclusioni scritte del difensore del ricorrente COGNOME Avv. NOME COGNOME che, in replica alla requisitoria del PG, ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata e quella di primo grado.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 30 novembre 2023, la Corte d’appello di Firenze , in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Firenze del 29 ottobre 2021, assolveva i coimputati NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di omessa presentazione della dichiarazione
fiscale relativamente all’IRES per importo superiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge in relazione al periodo di imposta 2012, diversamente confermando la condanna dei due attuali ricorrenti, nelle rispettive qualità, il COGNOME in veste di rappresentante legale e, il NOME COGNOME di amministratore di fatto, della società RAGIONE_SOCIALE per il medesimo reato limitatamente all’evasione dell’IVA per il medesimo periodo di imposta, reato per il quale agli stessi era stata irrogata la pena di 1 anno di reclusione, al primo, e di 2 anni di reclusione, al secondo, oltre alle pene accessorie di legge.
Avverso la predetta sentenza entrambi i ricorrenti hanno proposti separati ricorsi per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo complessivamente sei motivi, di seguito illustrati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att., cod. proc. pen.
Ricorso COGNOME (Avv. Viggiano), con cui si articolano due motivi.
3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 5, d. lgs. n. 74 del 2000 ed il correlato vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico.
In sintesi, osserva la difesa come sin dal primo atto processuale l’imputato è stato chiamato a rispondere del reato come mero prestanome di altri soggetti che amministravano la cooperativa. Quanto sopra, dunque, comporta la necessità di accertamento del dolo specifico di evasione che i giudici avrebbero affidato a due argomenti ossia, anzitutto, il fatto che il COGNOME sarebbe stato consapevole del quadro di macroscopica illegalità dei rapporti tra il consorzio e la cooperativa. L’obiezio ne difensiva (che ruotava attorno alla considerazione che l’imputato fosse solo un facchino consapevole della circostanza che la quasi totalità delle commesse della cooperativa fossero in realtà del consorzio) era stata respinta dalla Corte d’appello osservando come, in realtà, l’imputato ben conoscesse le dinamiche intercorrenti tra i due enti, avendone riferito in dibattimento nel corso del suo esame. In realtà, osserva la difesa, l’imputato aveva affermato in sede di esame che gli era stato riferito da NOME COGNOME che questi avrebbe provveduto agli obblighi fiscali, e di ciò si era fidato, mancando peraltro la prova di una consapevolezza dell’imputato, se non quella che l’intero lavoro della cooperativa amministrata quale prestanome provenisse dal consorzio facente capo ai Morrone. Un fatto di per sé illecito, al limite sospetto, ma che certo non integra quella macroscopica illegalità evocativa del dolo specifico. L’altro argomento impiegato dalla Corte d’appello per valorizzare la consapevolezza riguardante l’entità dell’imposta evasa, sarebbe che, quanto sopra, risultava dai libri contabili. L’erroneità del ragionamento sarebbe, peraltro, palese nel passaggio argomentativo con cui si intende dimostrare il dolo specifico, ossia che la condotta omissiva non poteva che essere finalizzata all’omesso versamento
dell’imposta, tant’è che l’omissione dichiarativa era stata seguita dall’omissione del versamento dovuto a titolo di imposta, quasi che il fine di evasione fosse dimostrato dall’omesso pagamento. Richiamato a tal proposito quanto affermato da una sentenza di questa Corte (il riferimento è alla sentenza n.20664 del 2023), si osserva come il dolo di omissione non può essere ritenuto sufficiente a integrare sul piano soggettivo il reato in esame, e non può nemmeno essere confuso con il dolo di evasione, in quanto la volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell’obbligazione tributaria e del suo oggetto, mentre non prova il fine ulteriore della condotta.
3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 62 -bis , cod. pen. ed il correlato vizio di omessa motivazione su uno specifico motivo di appello.
In sintesi, si censura l’impugnata sentenza laddove ha rigettato la richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, argomentando, da un lato, che l’appellante non aveva indicato elementi, salvo a richiamare l’elemento soggettivo e, dall’altro, la circostanza che egli era il legale rappresentante e, dunque, soggetto tenuto in via primaria. La motivazione sarebbe censurabile, anzitutto, perché il COGNOME aveva chiarito di essersi prestato per necessità e di essere un soggetto di modesta estrazione sociale e culturale, circostanza che non sarebbe stata presa in esame dalla Corte d’appello. Sotto l’altro profilo viene definito ‘ bizzarro ‘ l’aver richiamato un elemento costitutivo del reato per negare le invocate attenuanti: in altri termini annettere alla qualifica formale un disvalore pregnante tale da impedire l’adeguamento sanzionatorio segne rebbe il rovesciamento dei canoni che guidano l’applicazione della legge penale.
Ricorso COGNOME (avv. COGNOME, con cui si deducono quattro motivi.
4.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 2639, cod. civ., in ordine alla possibilità di individuare in capo al ricorrente il ruolo di amministratore di fatto nel periodo successivo al 25.10.2010 e comunque nel periodo relativo alla commissione del fatto contestato.
In sintesi, si osserva come al ricorrente NOME COGNOME amministratore di diritto della cooperativa LG sino al 25 ottobre 2010, è stato attribuito dalla Corte d’appello il ruolo di amministratore di fatto per tutto il periodo successivo di attività della società, ivi incluso l’anno 2013, momento in cui detta società avrebbe dovuto presentare la dichiarazione dei redditi per il 2012. L’attribuzione di questo ruolo risulterebbe tuttavia erronea in quanto avvenuta in assenza degli elementi indicati dall’articolo 2639, cod. civ., come necessari per l’estensione della qualifica di amministratore e delle connesse responsabilità. Ed invero, si osserva, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che per poter attribuire a un soggetto la qualifica di amministratore di fatto, occorre aver acquisito elementi concreti che evidenzino come tale soggetto abbia esercitato in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica, con la precisazione che
significatività e continuità richiedono l’esercizi o di un’apprezzabile attività gestoria svolta in modo non episodico o occasionale. Nel caso in esame, secondo i giudici d’appello, il ruolo gestorio troverebbe precisa conferma nelle dichiarazioni rese sia dal coimputato COGNOME che dal testimone COGNOME da cui si evincerebbe che l’attuale ricorrente, artefice della costituzione della cooperativa, si sarebbe sempre occupato delle vicende della vita della stessa, anzitutto scegliendo personalmente i legali rappresentanti che, nei due anni di vita della LG, si erano avvicendati. Si tratterebbe di una motivazione censurabile poiché, quanto affermato dalla Corte d’appello, sarebbe il frutto di una non corretta valutazione non solo di quanto riferito dal coimputato COGNOME ma anche dello stesso teste NOMECOGNOME Da un esame delle risultanze istruttorie, segnatamente da quanto dagli stessi dichiarato all’udienza del 7 maggio 2021, emergerebbe come tali soggetti avrebbero riferito soltanto circostanze generiche ed espresso delle valutazioni personali e soggettive, anziché riferire circostanze di fatto concrete, qualificabili come indici sintomatici da cui poter trarre la sussistenza di un ruolo gestorio di fatto in capo al ricorrente. Tra l’altro, si aggiunge, tali dichiarazioni non sarebbero state riscontrate oggettivamente da elementi esterni, osservandosi peraltro come la Corte d’appello non avrebbe riportato o richiamato passaggi precisi delle dichiarazioni rese da tali soggetti, ma si sarebbe limitata unicamente a fare riferimento agli stralci delle deposizioni riportate nella sentenza di primo grado. A tal proposito, in sede di ricorso, la difesa richiama quanto per stralcio riportato dal coimputato COGNOME anche in sede di controesame svolto dalla difesa, da cui emergerebbe come, con riferimento al periodo dal 2010 fino al luglio 2012, il COGNOME non avrebbe mai fatto riferimento al ricorrente NOME COGNOME fatta eccezione per la circostanza della proposta di assumere il ruolo di amministratore della cooperativa RAGIONE_SOCIALE circostanza che, secondo la difesa, non risulterebbe di per sé rilevante, soprattutto considerato che nessun elemento era stato acquisito in giudizio relativamente alle modalità concrete con cui successivamente era avvenuto l’ingresso formale di questi soggetti all’interno della società RAGIONE_SOCIALE Per il periodo successivo all’entrata del Bozu, quest’ultimo invece non avrebbe riferito alcuna circostanza concreta e utile da cui poter oggettivamente dedurre l’esercizio da parte dell’attuale ricorrente dei poteri tipici dell’amministratore in modo continuativo e significativo, avendo in particolare il COGNOME riferito di aver avuto rapporti unicamente con il coimputato NOME COGNOME e non con il ricorrente NOME COGNOME come emergerebbe da alcuni stralci dichiarativi, riportati alle pagine 5 e 6 del ricorso riferiti alle affermazioni del COGNOME. Analogamente, secondo la difesa, nessun elemento a sostegno della veste di amministratore di fatto del ricorrente NOME COGNOME, sarebbe emerso dalle dichiarazioni del teste COGNOME non avendo quest’ultimo, al pari del Bozu, mai fatto riferimento al ricorrente NOME COGNOME con riferimento al periodo antecedente all’ingresso del Bozu nella società RAGIONE_SOCIALE. Anche in relazione a tale testimone, alle pagine 7/12 del ricorso, vengono riportati alcuni stralci di dichiarazioni rese dal teste e nelle quali quest’ultimo avrebbe solo riconosciuto di essersi
servito del COGNOME per svolgere la funzione di amministratore in altra società, la RAGIONE_SOCIALE e di avere lavorato in altre società e nella società RAGIONE_SOCIALE negli stessi termini riferiti per la società RAGIONE_SOCIALE Al pari del COGNOME, anche per il COGNOME, l’unico riferimento al ruolo assunto dal ricorrente NOME COGNOME riguarderebbe la circostanza legata all’ingresso del COGNOME e del COGNOME come amministratori della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, non essendo tuttavia stato acquisito alcun elemento sulle modalità concrete con cui successivamente era avvenuto l’ingresso formale di tali soggetti all’interno della predetta cooperativa. Per quanto riguarda, invece, il periodo successivo all’entrata nella LG del Bozu, il COGNOME non avrebbe riferito alcuna circostanza concreta e utile da cui poter dedurre l’esercizio da parte del ricorrente NOME COGNOME dei poteri tipici dell’amministratore in modo continuativo e significativo. Il COGNOME inoltre avrebbe riferito che la collaborazione avuta dallo stesso con la LG si sarebbe concretizzata solo con i rapporti avuti con il COGNOME ed il COGNOME e non con il ricorrente NOME COGNOME in quanto quest’ultimo era in pensione e svolgeva un ruolo di consulente dei figli nella gestione del consorzio, senza tuttavia fornire alcuna indicazione specifica o riferimento concreto in ordine a tale consulenza. Vi sarebbe nella sentenza del tribunale un solo stralcio della deposizione del COGNOME dalla cui lettura, tuttavia, non si rinviene alcun riferimento al ricorrente NOME COGNOME bensì al consorzio M3, deposizione molto rilevante perché concernerebbe il comportamento tenuto dalla società e dal Bozu una volta cessati i rapporti con M3 e, quindi, l’esecuzione dei lavori affidati da esso alla consorziata RAGIONE_SOCIALE, avendo il testimone riferito che l’attività di quest’ultimo sarebbe continuata comunque fino al dicembre 2013 per i lavori già svolti in precedenza dalla GMC. Tale dichiarazione risulterebbe rilevante perché, da un lato, confermerebbe la sussistenza di una vera e propria operatività autonoma della LG del COGNOME proseguita anche dopo la cessazione del rapporto con il consorzio, e dall’altro escluderebbe in maniera chiara ogni coinvolgimento del ricorrente NOME COGNOME nei fatti che hanno visto coinvolta la società, anche a seguito della cessazione del rapporto con il consorzio. Conclusivamente, da un esame puntuale delle dichiarazioni rese dal coimputato COGNOME e dal teste COGNOME emergerebbe come tali soggetti nulla avrebbero riferito di circostanze di fatto concrete qualificabili come indici sintomatici da cui poter trarre la sussistenza di un ruolo gestorio di fatto della cooperativa LG in capo al ricorrente NOME COGNOME, ciò che risulterebbe confermato anche da ulteriori risultanze istruttorie (a tal proposito si richiama il contenuto della visura camerale storica della cooperativa, le dichiarazioni rese dal teste COGNOME, nonché quanto dichiarato dai coimputati NOME ed NOME COGNOME). In particolare, relativamente al consorzio, sarebbe emerso che quest’ultimo aveva uffici diversi, sebbene vicini da quelli della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, e che la parte commerciale, ossia la ricerca di clienti, era seguita e curata dal suo amministratore NOME COGNOME mentre la successiva parte operativa, relativa allo svolgimento dei servizi da parte delle consorziate affidatarie, era seguito dal coimputato NOME COGNOME lavoratore dipendente del consorzio.
4.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 5, D.lgs. n. 74 del 2000 e dall’art. 110, cod. pen., in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo.
In sintesi, premesso che l’unica ipotesi di concorso ipotizzabile in relazione alla fattispecie di omessa dichiarazione dei redditi è quella di natura morale, che si verifica quando chi vi è obbligato ha omesso di presentare la dichiarazione perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni o in attuazione di un accordo intercorso con altri soggetti, osserva la difesa come la Corte di appello avrebbe riconosciuto la responsabilità del ricorrente NOME COGNOME nonostante che dalle risultanze processuali non fossero emersi elementi comprovanti la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato né di un suo contributo di ordine materiale o morale in merito alla mancata dichiarazione, in sostanza riconoscendo la responsabilità del ricorrente unicamente sulla base del ruolo attribuito al medesimo di amministratore di fatto della società. Ad escludere invece con certezza la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato nella persona del ricorrente NOME COGNOME e di ogni sua compartecipazione sarebbe proprio l’assenza di ogni suo coinvolgimento nei rapporti che sarebbero stati tenuti nell’anno 2012 e 2013 tra la società RAGIONE_SOCIALE ed i suoi clienti e nei pagamenti effettuati da quest’ultimi più in generale nella contabilità della stessa. L’assenza del coinvolgimento del ricorrente nell’attività della società, come già in precedenza evidenziato nel primo motivo di ricorso, sarebbe stata confermata anche dai figli NOME COGNOME ed NOME COGNOME nonché dal Rag. COGNOME oltre che dal coimputato COGNOME di cui vengono riportati alcuni stralci dichiarativi alle pagine 14/15 del ricorso. La cessazione del rapporto tra la società RAGIONE_SOCIALE ed il RAGIONE_SOCIALE e la restituzione da parte di quest’ultimo della contabilità al Bozu nel novembre del 2012, unita alla circostanza del proseguimento dell’attività da parte di quest’ultimo con l’aiuto del Gregorio, costituirebbero circostanze concrete e rilevanti per escludere con certezza la sussistenza di ogni contributo sia morale che materiale da parte del ricorrente. Analogamente, il tempo trascorso dalla cessazione di ogni rapporto tra il consorzio e la cooperativa RAGIONE_SOCIALE nel novembre 2012 e la data di commissione del reato contestato, ossia il 31 dicembre 2013, unitamente alla prosecuzione dell’attività decisa, programmata ed organizzata in totale autonomia da parte della cooperativa fino a dicembre del 2013 con clienti diversi dal consorzio, costituirebbero ulteriori elementi comprovanti l’assenza dell’elemento soggettivo reato contestato nei confronti del ricorrente NOME COGNOME.
4.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di motivazione per avere la Corte d’appello attribuito al ricorrente la qualifica di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE con travisamento probatorio, per aver ignorato quanto dichiarato dai coimputati COGNOME NOME e NOME, dal rag. COGNOME, nonché dal coimputato COGNOME circa le modalità con cui aveva operato la RAGIONE_SOCIALE nel suo periodo di amministratore. Detto vizio sarebbe oltremodo ravvisabile per aver basato i giudici territoriali la motivazione su una circostanza presunta ma inesistente nel processo, ossia che NOME ed NOME COGNOME
presidente e dipendente del Consorzio, unici soggetti operativi, avrebbero svolto i propri ruoli non in autonomia ma seguendo le direttive impartite dal padre, attuale ricorrente. Infine, la motivazione sarebbe oltremodo censurabile per aver riconosciuto la responsabilità del ricorrente NOME COGNOME in concorso con il COGNOME, in violazione dei canoni di valutazione d i cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., senza rispettare il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, omettendo qualsiasi motivazione circa l’elemento soggettivo del reato.
In sintesi, si sostiene che la motivazione della Corte d’appello sarebbe contraddittoria a causa del travisamento probatorio risultante dall’avere la Corte ignorato totalmente e pretermesso le dichiarazioni rese dai coimputati NOME COGNOME e NOME COGNOME e dal teste COGNOME oltre che per aver ignorato quanto riferito dal coimputato COGNOME in merito alle modalità con cui aveva operato la cooperativa nel suo periodo di amministratore. Da tali apporti dichiarativi emergerebbe che i rapporti con i clienti e con i dipendenti della LG sarebbero stati curati e svolti in modo continuativo e significativo dal coimputato NOME COGNOME e non dal ricorrente NOME COGNOME errore cui si aggiungerebbe anche la circostanza che l’attribuzione al ricorrente della qualifica di amministratore di fatto e la responsabilità penale del reato di omessa dichiarazione sarebbe stata fondata su una circostanza veramente presunta, ma inesistente nel processo, ossia che i figli di quest’ultimo, NOME e NOME COGNOME, avrebbero svolto i propri ruoli all’interno del consorzio non in autonomia ma seguendo le direttive impartite dal padre, attuale ricorrente. Tale circostanza sarebbe smentita da quanto affermato dai due coimputati NOME e NOME COGNOME all’udienza del 7 maggio 2021 e da quanto dichiarato dal teste Rag. COGNOME all’udienza del 2 aprile 2021, di cui viene riportato uno stralcio alla pagina 18 del ricorso. L’esistenza di un vero legame di parentela tra il ricorrente e gli altri due imputati rappresenterebbe un elemento del tutto neutro, privo di qualunque valenza indiziaria da cui poter trarre l’esercizio di una posizione di comando dell’attuale ricorrente nei confronti dei figli, i quali sarebbero stati illogicamente assolti all’esito dell’istruttoria, secondo la quale il ruolo di amministratori di fatto della cooperativa RAGIONE_SOCIALE ad entrambi contestato non risultava provato oltre ogni ragionevole dubbio. Il giudice non avrebbe però spiegato le ragioni per le quali sia stato attribuito, a fronte dell’accertato coinvolgimento dei figli del ricorrente nei confronti dell’attività della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, il ruolo di amministratore di fatto in capo a NOME COGNOME riconoscendo invece alle attività svolte dai figli un mero carattere operativo ed organizzativo non implicante dei poteri gestori.
4.4. Deduce, con un quarto ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento dell’art. 62 -bis , cod. pen. nonché in relazione alla eccessiva determinazione della pena ex art. 133, cod. pen.
In sintesi, si osserva come la pena, in ogni caso, sarebbe eccessiva ed ingiusta alla luce dei criteri direttivi fissati dall’articolo 133, cod. pen., come ingiusto sarebbe il
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non avendo correttamente valutato la Corte d’appello l’effettiva posizione di estraneità assunta dal NOME COGNOME sia nell’attività del consorzio che in quella della consorziata. Con particolare riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatorio, si osserva poi lo stesso sarebbe censurabile in considerazione del fatto che, al momento della commissione del fatto, la pena prevista per la violazione dell’articolo 5 del d. lgs. n. 74 del 2000 era la reclusione da uno a tre anni ove l’imposta evasa risultasse superiore a 30.000 €, sicché la pena avrebbe dovuto essere rideterminata, non solo per il riconoscimento delle attenuanti generiche, ma anche in relazione al trattamento sanzionatorio previsto all’epoca dei fatti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, tratti cartolarmente in assenza di richiesta di discussione orale, sono entrambi inammissibili.
Il primo motivo del ricorso COGNOME è manifestamente infondato.
I giudici territoriali hanno valorizzato le circostanze nelle quali fu chiesto al ricorrente di assumere la veste di amministratore della coop. RAGIONE_SOCIALE
3.1. Sia il COGNOME che il COGNOME, infatti, riferirono che sin dal 2010 il ricorrente aveva lavorato insieme al COGNOME presso la coop. MGC, anch’essa facente capo al Con sorzio MG3, cooperativa che aveva cessato l’operatività nel 2012 a seguito di un’indagine della GdF che aveva rilevato gravi violazioni fiscali, al cui accertamento erano conseguiti provvedimenti di sequestro e contestazioni penali a carico degli amministratori formali.
3.2. Il COGNOME, dunque, era a conoscenza non solo dei particolari rapporti tra cooperativa e consorzio, ma anche delle situazioni illecite che coinvolgevano le cooperative, quali la MGC al cui interno egli lavorava, collegata al Consorzio MG3.
3.3. Proprio questa situazione di ‘generale illiceità’ in cui anche la cooperativa RAGIONE_SOCIALE operava era nota al ricorrente – evidenziano con motivazione non manifestamente illogica i giudici territoriali -il quale, nonostante ciò, aveva acconsentito alle richieste di NOME COGNOME di assumere la veste di legale rappresentante della cooperativa RAGIONE_SOCIALE, pur continuando ad espletare la medesima attività lavorativa, riguardante la gestione del personale, presso la MGC.
3.4. Il collegio ha, inoltre, aggiunto che l’imputato era in possesso delle scritture contabili dal cui esame emergeva con chiarezza l’entità del debito IVA di gran lunga superiore alla soglia di punibilità.
3.5. Non può quindi seriamente dubitarsi della circostanza che l’imputato fosse consapevole che l’omissione dichiarativa fosse tale da determinare il superamento della
soglia di punibilità, essendo perfettamente a conoscenza dell’entità del debito IVA per circa 200.000 euro, a fronte di questa situazione di macroscopica illiceità in cui le cooperative coinvolte, tra cui la RAGIONE_SOCIALE, da egli amministrata formalmente, operavano in quel periodo, tenuto anche conto del rapporto intercorso tra il ricorrente con NOME COGNOME che gli aveva chiesto di assumere la guida della RAGIONE_SOCIALE
Al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano dunque prive di pregio, in quanto si risolvono nel ‘dissenso’ sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dal giudice di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per vizi motivazionali con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
4.1. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 3416 del 26/10/2022 -dep. 26/01/2023, Lembo, n.m.; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, COGNOME, Rv. 215745; Sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, COGNOME, Rv. 246552).
4.2. Peraltro, è costante in giurisprudenza il principio per cui la prova del dolo specifico dei reati tributari di cui agli artt. 5, 8 e 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 in capo all’amministratore di diritto di una società, che funge da mero prestanome, può essere desunta dal complesso dei rapporti tra questi e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono decisiva valenza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità (Sez. 3, n. 2570 del 28/09/2018, dep. 2019, Rv. 275830 -01).
4.3. Correttamente, poi, i giudici di appello hanno ritenuto che, in virtù della carica assunta, l’imputato era tenuto all’assolvimento dell’obbligo dichiarativo, senza che egli potesse esimersi da tale responsabilità invocando la non effettività dei poteri inerenti alla carica, non potendosi sostenere l’insussistenza della finalità di evasione, come ribadito anche in sede di legittimità dalla difesa del ricorrente, atteso che la prova della finalizzazione evasiva dell’omissione dichiarativa ben poteva essere ricavata dal successivo mancato pagamento delle imposte dovute.
4.4. Sul punto, la tesi difensiva secondo cui il dolo di evasione non sarebbe ravvisabile nel caso in esame, collide con la giurisprudenza di questa Corte che, in più occasioni, ha infatti affermato che in tema di omessa dichiarazione, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa non è sufficiente a provare la sussistenza del dolo specifico, richiesto per la configurabilità del reato, essendo necessario, a tal fine, che ricorrano elementi ulteriori, quali il mancato pagamento postumo di tale imposta in
tempi ragionevoli o la reiterazione dell’omissione per più anni, dai quali possa essere tratta la convinzione che l’omissione sia finalizzata all’evasione (Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, Rv. 285221 -01; Sez. 3, n. 16469 del 28/02/2020, Rv. 278966 – 01).
Anche il secondo motivo del ricorso COGNOME è inammissibile per manifesta infondatezza.
La Corte di appello ha spiegato che non emergono elementi favorevoli ai fini della concessione delle attenuanti generiche, che, come è noto, non costituiscono un diritto per l’imputato, ma devono essere fondati su dati concreti.
6.1. Non coglie nel segno la doglianza difensiva che valorizza, per evidenziarne il preteso vizio, il riferimento contenuto in sentenza alla qualità di legale rappresentante che, come reso palese dal contesto in cui tale argomento è stato svolto, è volto non a giustificare il diniego delle invocate attenuanti, quanto, piuttosto, le ragioni per le quali la pena irrogata è stata ritenuta congrua e proporzionata alla condotta dall’imputato posta in essere, valorizzando proprio la qualifica rivestita quale soggetto tenuto in via principale all’assolvimento dell’obbligo dichiarativo e contributivo.
6.2. Per il resto, la valorizzazione difensiva di due elementi (l’essersi il reo prestato per necessità; l’essere un soggetto di modesta estrazione socia le e culturale) che i giudici di merito non avrebbero preso in considerazione, non costituisce ex se elemento dirimente, posto che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (tra le tante: Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419 -01).
In merito, infine, alla richiesta di annullamento senza rinvio per essere maturato il termine di prescrizione del reato, effettivamente decorso alla data del 29.12.2023, si tratta di richiesta che non può trovare accoglimento, attesa l’inammissibilità del ricorso.
7.1. Pacifico, infatti, è nella giurisprudenza di questa Corte che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso: Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 -01).
Il primo, il secondo ed il terzo motivo del ricorso COGNOME -che, attesa l’intima connessione dei profili di doglianza, meritano congiunto esame -sono tutti manifestamente infondati e generici per aspecificità, in quanto si risolvono in un tentativo di rilettura del materiale probatorio valutato nei giudizi di merito.
Il giudice di appello ha invero fatto applicazione del pacifico orientamento giurisprudenziale che, per delineare la figura dell’amministratore di fatto, attinge ai criteri stabiliti dall’art. 2639 cod. civ., che, pur essendo norma dettata per i reati in materia di società e consorzi di cui al titolo XI del libro V del Codice civile, ha di fatto codificato gli approdi giurisprudenziali che l’avevano preceduta (Sez. 1, n. 18464 del 12/05/2006, COGNOME, Rv. 234254). L’amministratore di fatto è colui il quale, pur non formalmente investito della carica di amministratore della società, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
Nel caso di specie, la Corte d’appello, richiamando la decisione di primo grado, ha sottolineato come siano emersi chiari elementi indicativi del ruolo gestorio assunto dall’imputato, desumendoli dalle dichiarazioni di COGNOME e da quelle del teste COGNOME. NOME COGNOME artefice della costituzione della LG, si era sempre occupato delle vicende della vita della cooperativa, innanzitutto scegliendo personalmente i legali rappresentanti che nei due anni di attività della LG si erano avvicendati. Egli ha assunto personalmente l’amministrazione della cooperativa all’atto della costituzione per poi cederla al figlio NOME, come da quest’ultimo dichiarato, e dopo di lui aveva individuato quali amministratori di diritto il COGNOME e da ultimo il COGNOME. Il teste COGNOME ha precisato che la vita della cooperativa era scandita dal consorzio facendo capo alla famiglia COGNOME, rappresentata da NOME COGNOME, che esercitava il completo controllo ed operava le scelte relative alla vita della cooperativa stessa. Il teste COGNOME aveva anche precisato che la cooperativa esisteva solo da un punto di vista formale ma lavorava perché il consorzio acquisiva il lavoro e lo girava alla cooperativa, esercitando il completo controllo ed operando le scelte relative alla vita della cooperativa stessa. Il COGNOME era stato scelto da NOME COGNOME ma non aveva avuto gli strumenti per operare effettivamente nell’esercizio dei poteri tipici della carica assunta di amministratore.
10.1. In sostanza, dall’istruttoria, è emerso chiaramente come , a fronte dell’attività gestoria del NOME COGNOME, capostipite a rappresentante della famiglia a cui il consorzio ed il gruppo di cooperative ad esso appartenenti facevano capo, si erano avvicendati diversi legali rappresentanti di facciata, scelti dallo stesso NOME COGNOME, allo scopo di dare un’apparenza di autonomia di gestione alle singole cooperative di, quindi, anche alla LG. Correttamente, sul punto, i giudici di appello sottolineano come tale contesto fosse stato delineato con estrema precisione dal COGNOME soggetto coinvolto a titolo personale nelle vicende della cooperativa RAGIONE_SOCIALE facente parte del solito Consorzio, e
che, proprio per tale motivo, all’interno della LG aveva scelto di non ricoprire alcuna carica formale mantenendo di fatto il ruolo di collaboratore e consulente.
10.2. Inconsistenti, peraltro, appaiono i rilievi difensivi svolti in ricorso che tentano di operare una rilettura delle fonti dichiarative raccolte nel corso del giudizio, cercando di sminuire il ruolo del ricorrente per evidenziare invece la responsabilità del figlio NOME, soggetto di cui tutti avrebbero riferito nelle loro dichiarazioni come effettivo gestore.
10.3. Trattasi, all’evidenza di un tentativo che non ha pregio, escludendosi la ravvisabilità dell’invocata violazione di legge e del vizio motivazionale, avendo dato conto i giudici di merito della ricostruzione fattuale della vicenda ed esaminato gli elementi emersi in fase di indagine, al fine di pervenire, attraverso un giudizio condotto secondo i canoni dell’art. 192, cod. proc. pen., all’affermazione di responsabilità del ricorrente.
10.4. Attraverso le censure svolte in sede di legittimità, dunque, la difesa del ricorrente in realtà finisce per chiedere a questa Corte di esprimersi nuovamente sulla convergenza degli elementi probatori a carico del coimputato irrevocabilmente assolto, gettando dubbi sull’accertamento svolto dai giudici di merito sotto l’app arente deduzione di vizi di violazione di legge o motivazionali, ma in realtà censurando la valutazione delle emergenze probatorie da parte dei predetti giudici: dunque tentando di trascinare sul terreno del fatto questa Corte, operazione inibita in sede di legittimità.
10.5. Che, del resto, si tratti di tentativo destinato al fallimento, lo si desume chiaramente dal compendio argomentativo svolto dai giudici territoriali che si sono pronunciati sulle posizioni dei due figli del ricorrente, pervenendo a giudizio assolutorio, escludendo per gli stessi l’esistenza di ruoli gestori all’interno della cooperativa. Segnatamente, risulta con riferimento proprio al ruolo di NOME COGNOME che questi aveva il compito di sovrintendere all’esecuzione degli appalti co nferiti dal Consorzio, di cui era dipendente, e la sua attività si era sempre limitata a questo senza mai svolgere alcun ruolo di rappresentanza. Fatta eccezione delle dichiarazioni del Bozu che aveva riferito che NOME COGNOME pagava i dipendenti della cooperativa e di aver ricevuto da questi la documentazione della coop. LG poi consegnata alla Guardia di Finanza, nulla era emerso a carico del COGNOME NOME che consentisse di attribuirgli un ruolo realmente gestorio. Egli non operava sui CC/CC della Coop. LG e nessun dipendente aveva mai fatto riferimento alla persona di NOME COGNOME, circostanza confermata dalla stessa Guardia di Finanza che non aveva riscontrato l’esistenza di tali rapporti. A ciò si aggiunga che il COGNOME NOME aveva assunto la veste di amministratore di diritto della coop. LG solo per un mese e mezzo, circostanza priva di significato per attribuirgli una qualifica gestoria, essendo stato sostituito dall’amministratore NOMECOGNOME rimasto in carico per tutto il 2011 ed al quale erano succeduti altri soggetti. La Corte d’appello ha anche valutato la doglianza difensiva secondo cui COGNOME era in pensione, ritenendo che la stessa non escludeva l’assunzione della qualifica di amministratore di fatto. Va, inoltre, considerato che la Corte di cassazione ha affermato che, in tema di reati tributari, ai fini della
attribuzione ad un soggetto della qualifica di “amministratore di fatto” non occorre, comunque, l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Sez. 3, n. 22301 del 7/05/2024; Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 27/05/2015, Rv. 264009).
10.6. I giudici territoriali hanno, infine, valutato la tesi difensiva, fondata sulle dichiarazioni del COGNOME, secondo cui questi aveva affermato come la RAGIONE_SOCIALE avesse una sua autonomia e che il COGNOME ne fosse l’effettivo amministratore. Sul punto, i giudici territoriali evidenziano, di contro, come proprio il COGNOME aveva invece affermato che il COGNOME era stato scelto da NOME COGNOME, ma non aveva avuto gli strumenti per operare effettivamente nell’esercizio dei poteri tipici della carica assunta e che la RAGIONE_SOCIALE svolgeva solo i lavori che le venivano ‘girati’ dal Consorzio, tanto che nell’ultimo periodo di vita la RAGIONE_SOCIALE aveva svolto solo quei lavori che la RAGIONE_SOCIALE non aveva potuto espletare a seguito della vicenda giudiziaria in cui era rimasta coinvolta.
10.7. La Corte d’appello ha descritto ampiamente il ruolo di amministratore di fatto svolto dall’imputato, sottolineando come la cooperativa RAGIONE_SOCIALE diretta dallo stesso operasse come soggetto interposto tra il consorzio e i fruitori finali dei servizi, con la funzione di sopportare il carico fiscale e di omettere di adempiere l’obbligo tributario. Il soggetto interposto era destinato a vita breve perché doveva assumere, nel lasso temporale in cui era operativo, il carico fiscale senza provvedere ai versamenti dell’imposta. Per questa ragione era amministrato da un prestanome.
In un simile contesto, è stata delineata con chiarezza la sussistenza del fine di evasione che vale a integrare il reato tributario contestato.
11.1. La Corte di appello, infatti, ha osservato che ‘affermato dunque il ruolo di COGNOME NOME secondo lo schema sopra delineato, la sua responsabilità in ordine al reato contestato risulta pienamente provato, essendo indubbio che del reato di omessa dichiarazione risponda, oltre all’amministratore di diritto, anche l’amministratore di fatto dell’ente il quale per il ruolo svolto è tenuto al pari del primo alla prestazione della dichiarazione fiscale’ (cfr. pag. 10).
11.2. Non vi è invero alcun dubbio che il NOME COGNOME, capostipite della famiglia, fosse il vero tessitore del programma criminoso, avendo dapprima svolto il ruolo di amministratore di diritto della cooperativa all’atto della sua costituzione, ne abbia poi mantenuto ininterrottamente il controllo cedendo il comando al figlio NOME, che lo aveva mantenuto per poco più di un mese, poi sostituendolo con i nuovi amministratori di diritto che, periodicamente, si erano succeduti nella carica, sempre scelti dal capostipite NOME.
11.3. La circostanza che fosse stato proprio NOME COGNOME ad assumere le scelte strategiche per la cooperativa, dalla su a costituzione alla scelta ‘periodica’ dei nuovi
amministratori anche dopo la cessazione dalla qualifica formale da lui rivestita di amministratore di diritto della società, è senz’altro condotta dimostrativa di un’attività gestoria al massimo livello, assistita dal dolo normativamente richiesto, rispondendo l’amministratore di fatto, quale autore principale, del delitto, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.
Il dedotto travisamento probatorio in cui sarebbero incorsi i giudici di appello assume, dunque, alla luce di quanto sopra, valenza non decisiva, così rendendo privo di pregio il profilo di doglianza svolto.
12.1. Deve, sul punto, essere infatti ricordato che il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085 -01). Decisività, nella specie, non ravvisabile.
Quanto, infine, alla violazione del principio dell’ogni oltre ragionevole dubbio, è censura parimenti priva di pregio, atteso che la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, Rv. 270108 -01). Illogicità manifesta e decisiva, nella specie, non riscontrabile.
Quanto al quarto ed ultimo motivo, anch’esso non si sottrae al giudizio di inammissibilità.
La Corte di appello ha rilevato come non emergessero elementi favorevoli ai fini della concessione delle attenuanti generiche, che non costituiscono un diritto per l’imputato, ma devono essere fondati su dati concreti e positivi.
15.1. L’asserzione difensiva secondo cui i giudici territoriali non avrebbero preso in considerazione la posizione di estraneità del ricorrente rispetto al Consorzio e alla RAGIONE_SOCIALE non ha pregio perché muove dal presupposto, rivelatosi fallace, che il ricorrente si disinteressasse delle attività, per quanto qui rileva, della RAGIONE_SOCIALE Diversamente, come accertato in sede di merito, è emerso che risalissero proprio a lui le iniziative e le attività svolte dal Consorzio e dalle cooperative, tra cui la LG, a lui facenti capo, amministrate da soggetti compiacenti, tanto da essere stati scelti ad intervalli periodici proprio dal ricorrente, una volta cessato dalla carica.
15.2. Corretto, dunque, è l’approdo dei giudici di appello laddove affermano come non solo l’incensuratezza ed il fatto che fosse in pensione non rivestissero alcun rilevo, ma anche e soprattutto che, tenuto conto del contesto in cui i fatti si verificarono e l’import o significativo dell’evasione derivante dall’omessa dichiarazione, costituisse ro elementi deponenti in senso contrario.
15.3. Deve, quindi, ribadirsi che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62bis , disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (da ultimo: Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489 -01).
15.4. Quanto, poi, alla determinazione del trattamento sanzionatorio, si rileva come il collegio lo ha implicitamente motivato, richiamando gli elementi valorizzati a proposito del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ossia in considerazione del contesto nel quale il prevenuto ha agito e dell’importo significativo di evasione, cioè della gravità del fatto. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto di uno stesso elemento (nella specie: la gravità della condotta) che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis in idem” (tra le tante: Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rv. 264378 -01).
15.5. Non rileva, infine, la circost anza che all’epoca del fatto (31.12.2013) la pena fosse determinata nella reclusione da 1 a 3 anni, a fronte di quella determinata in anni 2 di reclusione per il ricorrente. Il primo giudice ha spiegato, con valutazione implicitamente condivisa dalla Corte d’appello, le ragioni per le quali la pena fosse adeguata rispetto alla personalità del reo, vero e proprio dominus dell’operazione, ma soprattutto in considerazione della gravità del fatto, desunta dalla consistente somma evasa a titolo di imposta (che, lo si ricordi solo per completezza, all’epoca prevedeva una soglia di punibilità, pari 30.000 euro, inferiore rispetto a quella che, dal 22 ottobre 2015 a tutt’oggi, è prevista dal reato in contestazione, pari ad euro 50.000, ciò che, per l’epoca
di consum azione dell’illecito, assumeva particolare rilevanza, attesa l’entità dell’imposta evasa pari a circa 200.000 euro, pari a circa quattro volte quella oggi contemplata dalla legge e quasi a sette volte quella contemplata dalla normativa all’epoca applicabil e).
All’ inammissibilità dei ricorsi segue ex art. 616, cod. proc pen. la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella proposizione dei ricorsi.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso, il 17 ottobre 2024