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Amministratore di fatto: la Cassazione conferma

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta di un imprenditore, ritenuto amministratore di fatto di una società svuotata dei suoi beni a favore di un’altra entità da lui controllata. La sentenza chiarisce che per provare la figura dell’amministratore di fatto sono sufficienti elementi sintomatici di un inserimento organico e continuativo nella gestione aziendale, anche senza esercitare tutti i poteri formali.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Amministratore di Fatto e Bancarotta: La Prova della Gestione Occulta

Nel complesso mondo del diritto societario, non sempre chi detiene formalmente le cariche sociali è colui che prende le decisioni. La figura dell’amministratore di fatto emerge proprio in questi contesti, indicando chi, senza un’investitura ufficiale, esercita un potere gestionale concreto e continuativo. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 10873/2024) ha ribadito i principi per accertarne la responsabilità penale, in particolare nel grave reato di bancarotta fraudolenta. Il caso analizzato offre uno spaccato chiaro di come operazioni di svuotamento aziendale possano essere architettate da figure che operano dietro le quinte.

I fatti del caso: lo svuotamento societario

La vicenda riguarda un complesso schema societario nel settore della sicurezza. Un imprenditore, ritenuto il dominus di un gruppo di società, è stato condannato per bancarotta fraudolenta. Secondo l’accusa, confermata nei gradi di merito, egli agiva come amministratore di fatto di una società (chiamiamola Alpha Srl), che è stata deliberatamente spogliata dei suoi rami d’azienda più redditizi.

Questi asset sono stati ceduti a un’altra società del gruppo (Delta Srl), anch’essa riconducibile all’imprenditore, senza il pagamento di un corrispettivo adeguato. Il risultato? La Alpha Srl, privata dei suoi unici beni di rilievo, è rimasta con un’enorme esposizione debitoria, soprattutto verso l’erario, ed è stata inevitabilmente condotta al fallimento. L’imprenditore è stato condannato sia per il suo ruolo diretto nella gestione di Alpha Srl, sia come concorrente esterno nella bancarotta di un’altra società coinvolta nello schema.

La decisione della Cassazione sul ruolo dell’amministratore di fatto

La difesa dell’imputato ha tentato di smontare l’accusa sostenendo la mancanza di prove concrete sul suo ruolo gestorio. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo la motivazione della Corte d’Appello pienamente logica e fondata.

I giudici supremi hanno chiarito che, per affermare la responsabilità di un amministratore di fatto, non è necessario provare che egli abbia esercitato tutti i poteri tipici dell’organo amministrativo. È invece sufficiente dimostrare l’esistenza di un “inserimento organico” del soggetto nella vita aziendale, con l’esercizio di un’attività gestoria apprezzabile, svolta in modo non episodico od occasionale.

Gli indizi che provano la gestione di fatto

Nel caso specifico, la prova della gestione occulta è stata costruita su una serie di elementi convergenti, tra cui:

* Dichiarazioni di un co-imputato: Un altro socio ha testimoniato di aver discusso con l’imputato le vicende più rilevanti della società, inclusa la decisione sul prezzo di cessione dei rami d’azienda.
* Testimonianza del prestanome: Un soggetto, formalmente intestatario di quote societarie, ha ammesso di agire per conto dell’imputato.
* Prove documentali: L’esistenza di un “conto transitorio” e di una missiva in cui l’amministratore di diritto chiedeva all’imputato di farsi carico delle spese legali di un procedimento penale hanno ulteriormente rafforzato il quadro accusatorio.

Questi elementi, considerati nel loro insieme, hanno permesso ai giudici di concludere che l’imputato era il vero regista dell’operazione distrattiva.

Il ruolo del concorrente “esterno” nella bancarotta

La Corte ha confermato anche la condanna dell’imprenditore come concorrente extraneus nella bancarotta di un’altra società coinvolta. Sebbene non fosse amministratore (né di fatto né di diritto) della società cedente, era però il dominus della società beneficiaria della cessione. Inoltre, aveva collocato un suo prestanome nel consiglio di amministrazione della società poi fallita. Questo, secondo la Corte, dimostrava la sua piena consapevolezza del disegno criminoso: era a conoscenza dell’ingente debito lasciato in capo alla società cedente e ha agito con la volontà di contribuire alla spoliazione del suo patrimonio a danno dei creditori.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso. In primo luogo, ha stabilito che la Corte d’Appello aveva correttamente ricostruito il ruolo di amministratore di fatto basandosi su un complesso di prove logiche e convergenti (dichiarazioni, riscontri documentali, rapporti tra le parti), che delineavano un’ingerenza significativa e continuativa nella gestione societaria. La valutazione di tali elementi costituisce un accertamento di merito, non sindacabile in sede di legittimità se, come in questo caso, è supportato da una motivazione congrua.

In secondo luogo, ha confermato che la responsabilità come concorrente esterno nel reato di bancarotta si configura quando l’estraneo, pur non avendo la qualifica richiesta, fornisce un contributo causale efficiente alla produzione dell’evento (la distrazione dei beni), agendo con la consapevolezza e la volontà di aiutare l’imprenditore a frodare i creditori. La conoscenza dello stato di decozione della società e il ruolo di gestore della società beneficiaria sono stati ritenuti elementi sufficienti a integrare tale fattispecie. Infine, la Corte ha respinto le censure sulla determinazione della pena, ribadendo che il giudizio di bilanciamento delle circostanze è una valutazione discrezionale del giudice di merito, incensurabile se non manifestamente illogica o arbitraria.

Le conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio fondamentale: le responsabilità penali in ambito societario non si fermano alle nomine formali. Chiunque eserciti di fatto il potere decisionale e gestionale risponde delle proprie azioni, specialmente quando queste conducono alla distruzione del patrimonio aziendale a scapito dei creditori. La figura dell’amministratore di fatto serve proprio a colpire chi, operando nell’ombra, si avvale di prestanome e complesse strutture societarie per perseguire fini illeciti. Per gli imprenditori e i consulenti, la lezione è chiara: la gestione informale o occulta di una società comporta rischi enormi, poiché la legge guarda alla sostanza dei poteri esercitati, non alla forma delle cariche ricoperte.

Come si dimostra in un processo il ruolo di amministratore di fatto?
Non è necessario provare l’esercizio di tutti i poteri dell’organo di gestione. È sufficiente dimostrare, attraverso elementi sintomatici (come testimonianze, documenti, rapporti con dipendenti e fornitori), un inserimento organico e continuativo del soggetto nella direzione dell’attività d’impresa.

Una persona che non è formalmente amministratore può essere condannata per bancarotta fraudolenta?
Sì. Può essere condannato sia come amministratore di fatto, se esercita poteri gestionali, sia come concorrente ‘extraneus’ (esterno), se fornisce un contributo consapevole ed efficace alla realizzazione del reato commesso dall’amministratore di diritto.

Le dichiarazioni di un co-imputato sono sufficienti per una condanna?
No, da sole non sono sufficienti. La ‘chiamata in correità’ richiede sempre dei riscontri esterni, ovvero altre prove (testimonianze, documenti, dati logici) che siano autonome, indipendenti e che ne confermino l’attendibilità, non solo riguardo al fatto-reato ma anche alla sua attribuzione all’imputato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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