Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 18369 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 18369 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 12/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME COGNOME, nato a Bra il DATA_NASCITA; avverso la sentenza del 31/05/2023 della Corte di appello di Torino; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato; udito il difensore, AVV_NOTAIO.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 31 maggio 2023, la Corte di appello di Torino ha riformato la sentenza del Tribunale di Asti del 3 novembre 2021, resa all’esito di giudizio abbreviato, con la quale l’imputato era stato assolto, per insussistenza dei fatti, dai reati -di cui agli artt. 516 e 440 cod. pen.
La Corte territoriale ha dichiarato l’imputato responsabile del reato ex art. 516 cod. pen. – perché, quale titolare di una macelleria, aveva posto in vendita
sostanze alimentari non genuine, in particolare carne (carne trita di bovino e salsiccia di bovino) contenente solfiti, additivo non ammesso nei prodotti – e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di 20 giorni di reclusione, con pubblicazione della sentenza, sospensione condizionale, non menzione.
Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il dil’ensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano vizi della motivazione in relazione all’elemento oggettivo del reato, lamentando come la Corte territoriale abbia ritenuto raggiunta la prova che la salsiccia di Bra prodotta dall’imputato fosse stata confezionata utilizzando fin dall’inizio carne contenente solfiti, ovvero che fosse contaminata già in origine e non per l’uso di un ingrediente contenente legittimamente i solfiti stessi. Secondo la difesa, la Corte d’appello ha aderito al principio secondo cui è ammessa nella salsiccia l’introduzione di solfiti in via indiretta, attraverso vino bianco secco, cosicché la presenza di solfiti determinata da contaminazione non necessariamente implica che la carne utilizzata per confezionare l’alimento sia stata trattata con tale prodotto. Si richiama il “principio del riporto”, di cui all’art. 16 del d.m. n. 209 del 1996, ai sensi del quale presenza di un additivo alimentare è ammissibile in un prodotto alimentare composto nella misura in cui l’additivo alimentare e’ ammesso in uno dei componenti. La Corte d’appello ritiene, in punto di fatto, che l’introduzione di solfit nella salsiccia attraverso il vino sia una mera ipotesi difensiva, non riscontrabile sulla base delle prove raccolte. La difesa contesta tale affermazione, sostenendo che la presenza di vino bianco nella salsiccia risultava dal verbale di prelevamento campioni del 18 dicembre 2020, nonché dall’etichetta del prodotto; afferma altresì che la presenza di solfiti è lecita nel vino bianco. Si critica anche l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la rilevante differenza di concentrazione di solfiti riscontrata fra la carne trita e la salsiccia smentisce la tesi difensiva di possibile contaminazione della carne con altri alimenti legittimamente contenenti solfiti. Tale affermazione muoverebbe dall’erroneo assunto secondo cui la salsiccia era stata confezionata con quella e non con altra carne trita; assunto comunque non dimostrabile oltre ogni ragionevole dubbio. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2. In secondo luogo, si deducono vizi della motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato, desunto dalla circostanza che l’imputato deteneva sia salsiccia sia carne trita non mischiata con altri ingredienti, senza indicare la presenza di solfiti nell’etichetta di accompagnamento dei prodotti. Oltre a ribadire quanto già sostenuto circa la provenienza della carne utilizzata per il confezionamento della salsiccia, la difesa osserva che, al momento del
campionamento (18 dicembre 2020), la macelleria era un’impresa familiare facente capo all’imputato, titolare dell’impresa individuale, alla moglie e al figlio Tali risultanze non consentirebbero di ritenere provato che la presenza dei solfiti fosse riconducibile alla condotta dell’imputato e non a quella di altri soggetti, né che lo stesso fosse comunque consapevole del fatto di porre in vendita prodotti contenenti tale additivo.
2.3. Con un terzo motivo di doglianza, si denunciano vizi motivazionali in relazione alla pena, contestando la sentenza, nella parte in cui ritiene particolarmente insidiosa la condotta posta in essere dall’imputato, perché legata alla somministrazione di sostanze nocive. Il ricorrente richiama la consulenza tecnica di parte, la quale avrebbe evidenziato che i solfiti sono largamente utilizzati, oltrea richiamare fonti scientifiche e normative a suffragio di tale tes Né potrebbe essere condiviso l’argomento della Corte secondo cui va valutato negativamente il fatto che l’imputato sia già stato implicato in un procedimento per fattispecie omogenea, estintosi a seguito dell’esito positivo della messa alla prova. Sul punto, la difesa ritiene che, da tale procedimento, non possa essere desunto alcun accertamento di responsabilità.
2.4. Con un quarto motivo di censura, si lamentano la violazione dell’art. 131bis cod. pen. e vizi della motivazione in relazione all’esclusione della particolare tenuità del fatto. Non si sarebbe considerato c:he l’imputato è incensurato e che il quantitativo di Solfiti rilevato risulta contenuto, in relazione alla dose giornalie che si può assumere senza effetti avversi, oltre che ai limiti massimi consentiti dalla normativa. Inoltre, non si sarebbe apprezzata la condotta dell’imputato susseguente al reato, pur risultando dimostrato che lo stesso, nei mesi successivi: ha provveduto a effettuare periodici campionamenti con l’ausilio di un laboratorio specializzato, che hanno escluso la presenza di solfiti negli alimenti; i campionamenti sono proseguiti anche dopo l’emissione della sentenza del Tribunale di Asti nel presente procedimento; l’imputato ha stabilito controlli mensili per la verifica dell’assenza di additivi nei prodotti; la ditta è sottoposta al control dell’ente terzo di certificazione agroalimentare che si occupa della salsiccia di Bra, il quale ha proceduto al campionamento escludendo la presenza di solfiti; tale presenza è stata esclusa anche da successive verifiche della RAGIONE_SOCIALE competente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Il primo motivo di doglianza, con cui si contestano vizi della motivazione in relazione all’elemento oggettivo del reato, è infondato.
La motivazione della sentenza impugnata è pienamente sufficiente e logicamente coerente, laddove ritiene raggiunta la prova della presenza dell’additivo negli alimenti oggetto dell’imputazione – presenza peraltro non contestata dalla difesa – a causa dell’uso di carne trita contenente solfiti, escludendo la fondatezza della prospettazione difensiva secondo cui i solfiti sarebbero stati introdotti nella salsiccia con il vino bianco. Infatti, la ricostruzio della difesa risulta incompleta, quanto alla c:arne trita, perché sostanzialmente ammette l’addebito, e meramente ipotetica quanto alla salsiccia, perché non basata sulla prova diretta della presenza di solfiti nel vino bianco utilizzato per la preparazione della salsiccia stessa, ma su dati tanto pacifici quanto irrilevanti, ovvero che la presenza di vino bianco nella salsiccia risultasse dal verbale di prelevamento campioni del 18 dicembre 2020,, nonché dall’etichetta del prodotto; circostanze che di per sé nulla dimostrano circa il fatto che i solfiti trovati nel salsiccia fossero nel vino e non nella carne trita utilizzata per produrla. A ciò deve aggiungersi l’argomento logico secondo cui la carne trita presente in negozio, per l’appunto, conteneva solfiti.
1.2. Inammissibile è il secondo motivo di censura, riferito all’elemento soggettivo del reato. La difesa ribadisce quanto già asserito circa la composizione della salsiccia e a ciò aggiunge la mera affermazione secondo cui – poiché la macelleria era un’impresa familiare facente capo all’imputato, con la partecipazione della moglie e del figlio – non potrebbe essere ritenuto provato il fatto che la presenza dei solfiti fosse riconducibile alla condotta dell’imputato e non a quella di altri soggetti, né che lo stesso ne fosse comunque consapevole. Trattasi, ancora una volta, di un’ipotesi difensiva, essenzialmente basata su un preteso disinteresse del titolare dell’impresa rispetto alle attività da questa svolta; disinteresse meramente asserito, a fronte della sua qualifica di imprenditore e dell’effettivo svolgimento in prima persona dell’attività di macelleria, mai specificamente contestati nel corso del procedimento; così che potrebbe al più ipotizzarsi un concorso della moglie e del liglio – non imputati nel presente procedimento – nella commissione del reato.
1.3. Il terzo motivo di doglianza – riferito alla pena – è infondato Correttamente la Corte d’appello ritiene insidiosa la condotta posta in essere dall’imputato, perché legata alla somministrazione di sostanze nocive, nell’ambito di una fattispecie penale che fa riferimento, non alla nocività degli additivi, ma alla semplice non genuinità delle sostanze alimentari. Deve comunque rilevarsi che la pena-base di un mese di reclusione, applicata nel caso di specie prima della diminuzione per il rito abbreviato, si colloca più vicino al minimo che al medio edittale. Le considerazioni che precedono sono dirimenti sul piano logico e, perciò, rendono irrilevanti tanto gli argomenti difensivi circa la scarsa – ma non per questo
nulla – nocività dei solfiti, quanto i riferimenti della sentenza ad un dato ch effettivamente non può essere preso in considerazione contro l’imputato, quale l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova in un procedimento analogo al presente, seppure per fattispecie contravvenzionale.
1.4. Il quarto motivo di censura – con cui si lamentano la violazione dell’art. 131-bis cod. pen. e vizi della motivazione in relazione all’esclusione della particolare tenuità del fatto – è infondato.
1.4.1. Sul punto, devono essere considerate logicamente dirimenti le considerazioni svolte nella sentenza circa la nocività della condotta posta in essere – a prescindere dall’accertamento di un concreto pericolo per la salute pubblica avente ad oggetto ben due diversi prodotti e per quantitativi di solfiti non trascurabili, a fronte di una fattispecie penale che non prevede la nocività quale elemento costitutivo.
1.4.2. Quanto alla condotta dell’imputato susseguente al reato, questa risulta caratterizzata dalla sottoposizione dell’attività a vari controlli sugli alimenti, t con esito positivo.
Va premesso, in diritto, che la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., nella formulazione novellata dall’art. comma 1, lettera c), n. 1), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è applicabile anche ai fatti commessi prima del 30 dicembre 2022, laddove consente al giudice di tenere conto della condotta del reo successiva alla commissione del reato (Sez. 1, n. 30515 del 02/05/2023, Rv. 284975). Inoltre, la condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, rilevante ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. peli., come novellato, è deducibile pe la prima volta nel giudizio di legittimità, a condizione che non sia stata prospettata con l’atto di impugnazione o nel corso del giudizio di appello, sicché la Corte di cassazione, apprezzando la circostanza sopravvenuta nell’ambito del complessivo giudizio sull’entità dell’offesa, può ritenere sussistente l’esimente nel solo caso in cui siano immediatamente rilevabili dagli atti i presupposti per la sua applicazione e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali (Sez. 2, n. 396 del 17/11/2023, dep. 05/01/2024, Rv. 285726). Deve però precisarsi che la condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, pur acquisendo rilievo, non potrà, di per sé sola, rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzata solo nell’ambito del giudizio complessivo sull’entità dell’offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen. (Sez. 3, n. 18029 del 04/04/2023, Rv. 284497). In particolare, possono essere apprezzati a tal fine i comportamenti successivi alla commissione del reato diretti alla riparazione, all’eliminazione delle sue conseguenze o, comunque, al ristoro dei danneggiati, a condizione che si
riferiscano allo specifico fatto di reato commesso e non ad una generica attitudine al maggiore rispetto, da parte dell’imputato, del bene-interesse tutelato dalla norma penale.
I principi appena enunciati trovano applicazione nel caso di specie, in cui: a) la valutazione della gravità del fatto operata dalla Corte di appello è di per sé preclusiva della considerazione dei comportamenti successivi dell’imputato; b) tali comportamenti successivi non sono diretti alla riparazione delle conseguenze dello specifico reato commesso, ma, più in AVV_NOTAIO, ad evitare in futuro la commissione di analoghi reati.
Il ricorso, per tali motivi, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 12/01/2024