Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1790 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1790 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a SANREMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/02/2023 della CORTE APPELLO di GENOVA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona dei Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Genova riformava in favore dell’imputato, limitatamente alla sola entità del trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il tribunale di Imperia, in data 30.3.2022, aveva condannato COGNOME NOME alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione al reato di cui agli artt. 217, co. 1, n. 4), 224, co. 1, n. 1), I. fall., in rubrica ascrittogli, in qualità di amministratore unico della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita con sentenza del tribunale di Imperia del 30.6.2016.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il COGNOME, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale ha omesso di fornire risposta alla richiesta dell’appellante di procedere all’espletamento di una nuova perizia, ad avviso del ricorrente necessaria, in presenza di evidenti lacune e di principi erronei, che hanno caratterizzato il contenuto e le conclusioni della perizia espletata nel corso del giudizio di primo grado, al fine di procedere alla rettifica della ricostruzione del patrimonio netto di ciascun anno della società, perizia su cui si fonda la decisione dei giudici di merito, in uno con la farraginosa testimonianza del curatore fallimentare, senza tacere che il giudice di appello ha inferito la responsabilità dell’imputato dal mero ritardo nella richiesta di fallimento, irrilevante ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato per cui si procede.
2.1. Con requisitoria scritta del 21.9.2023 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Con memoria del 4.9.2023 pervenuta a mezzo di posta elettronica certificata il difensore di fiducia dell’imputato insiste per l’accoglimento del ricorso, reiterando le proprie censure.
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Preliminarmente va chiarito che al COGNOME si contesta di avere aggravato il dissesto della società di cui era amministratore, astenendosi
dal richiedere la dichiarazione di fallimento della società stessa, che versava in condizioni di conclamata crisi patrimoniale e di insolvenza finanziaria, ben prima della dichiarazione di fallimento.
La corte territoriale, con ampia e congrua motivazione rigettava l’appello dell’imputato, evidenziando come, alla luce del contenuto della perizia espletata nel giudizio di primo grado e della deposizione del curatore fallimentare, era stato possibile accertate che, in conseguenza delle scelte effettuate dalla sua governance, la società già verso la fine del 2009, si trovava in una situazione di crisi economica irreversibiie, che avrebbe imposto all’amministratore di chiederne tempestivamente il fallimento, in presenza di indici tali da rendere assolutamente prevedibile lo stato di dissesto (a tacer d’altro, la notevole esposizione debitoria nei confronti di terzi, in assenza di entrate adeguate).
Il COGNOME aveva, invece, deciso di proseguire l’attività aziendale nel 2010, scelta che aveva determinato un aggravamento del dissesto.
Come rilevato, infatti, dal perito “gli elementi di fortissimo allarme derivanti dagli squilibri rilevabili dai dati contabili e dalla rinunc:ia allo sfruttamento diretto dell’azienda, il debito di dimensioni pesantissime, non supportato da alcuna appropriata politica di finanziamento, l’insolvenza nel pagamento del prezzo dell’azienda” oggetto di affitto “esasperante gli elementi di rischio in pendenza di clausola di riservato dominio, pongono la società di fronte a uno scenario che nel 2010 può definirsi totalmente compromesso”, tanto che nel 2011, in uno scenario rimasto sostanzialmente immutato, i debiti della società ammontavano a 368.859,00, mentre, come rilevato dal perito, non veritiero era il dato costituito da un preteso utile di esercizio di 20.000,00 euro, relativo all’anno 2011.
Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto integrata la fattispecie penale in contestazione, nei suoi elementi costitutivi.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di bancarotta semplice, da un lato, l’aggravamento del dissesto punito dagli artt. 217, comma primo, n. 4 e 224 legge l’ali. deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di
fallimento, GLYPH della GLYPH complessiva GLYPH situazione GLYPH economico-finanziaria dell’impresa fallita (cfr. Sez. 5, n. 27634 del 30/05/2019, Rv. 276920); dall’altro, la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell’amministratore della società è punibile se dovuta a colpa grave, che può essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma, in concreto, da una provata e consapevole omissione (cfr. Sez. 5, n. 18108 del 12/03/2018, Rv. 272823).
Orbene, nel caso in esame la corte territoriale si è soffermata in maniera specifica anche su questo profilo, sottolineando, con argomentazione dotata di intrinseca coerenza logica, come la sussistenza della colpa grave in capo al prevenuto si deduca non solo dal notevole ritardo nell’instaurare la procedura fallimentare, ma dalla duplice circostanza della completa inerzia dell’amministratore (il fallimento, infatti, fu dichiarato su istanza di due creditori) e dell’accertamento, in sede di sentenza dichiarativa del fallimento, dell’esistenza di plurimi debiti, dell’assenza di beni e dell’inattività della società, la cui complessiva situazione economico-finanziaria era del tutto deteriorata.
A fronte di tale limpido percorso argomentativo i motivi di ricorso appaiono inammissibili, perché manifestamente infondati e in quanto consistenti in censure di merito, che si risolvono nella reiterazione di quelle già dedotte in appello sul contenuto della perizia espletata in primo grado, puntualmente disattese dalla corte di merito, attraverso una motivazione affatto manifestamente illogica e contraddittoria, con cui il ricorrente non si confronta realmente, dovendosi, pertanto, le stesse considerare non specifiche ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710).
In ordine, poi, al mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione istruttoria da parte del giudice di appello, si osserva che non vi era bisogno di una pronuncia espressa sul punto, potendosi legittimante dedurre il rigetto della suddetta richiesta alla luce del complessivo apparato motivazionale della sentenza oggetto di ricorso.
Come da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con costante orientamento, invero, il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo.
Con la conseguenza che il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado, come quella in esame, si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, Rv. 247872; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Rv. 257741; Sez. 6, n, 2972 del 04/12/2020, Rv. 280589).
5. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 5.10.2023.