Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10749 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10749 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato il 10/08/1972
avverso la sentenza del 09/04/2024 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME il quale ha chiesto pronunciarsi l’annullamento dell’impugnata sentenza per vizio motivazionale in merito al ritenuto aggravamento del dissesto e l’inammissibilità del motivo primo del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 9 aprile 2024, la Corte di appello di Firenze ha confermato il giudizio di condanna reso dal giudice di primo grado nei confronti di NOME COGNOME per i reati di cui all’art. 217, primo comma, n. 4) e 224 I. fall., commessi in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE società costituita nel 2006 e dichiarata, poi, fallita con sentenza del Tribunale di Firenze in data 20 settembre 2017. Secondo i giudici di merito, nel periodo ricompreso tra 2009 e 2014, l’imputato, evitando di evidenziare in bilancio l’esistenza di un decreto ingiuntivo pari a un importo ammontante -nel 2014- a 265.000 euro circa, ha aggravato il dissesto della predetta società, anche per interessi e sanzioni sui debiti erariali e previdenziali accumulatisi, venendo meno ai doveri di diligenza e prudenza gravanti in capo all’amministratore.
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, l’Avv. NOME COGNOME affidando le proprie censure a quattro motivi, di seguito esposti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Col primo motivo, si lamentano vizi motivazionali, sub specie di travisamento di prova, per avere la Corte d’appello erroneamente percepito il contenuto della sentenza del Tribunale civile di Firenze del 13 novembre 2014, resa nell’ambito del giudizio tra la fallita e l’impresa COGNOME che aveva eseguito lavori di ristrutturazione dei beni presi in affitto dalla RAGIONE_SOCIALE Tal provvedimento – prodotto dal medesimo difensore in appello, al fine di dimostrare l’infondatezza della pretesa della ditta COGNOME, che aveva fatto istanza di decreto ingiuntivo per tre assegni, a firma della fallita, privi di copertura – è stato illogicamente ritenuto decisivo dai giudici di merito, che hanno valorizzato, in motivazione, unicamente il dato dei tre assegni risultati insoluti, indicativi -in tesi accusatoria- della probabilità di concreta realizzazione del rischio di dissesto.
Sicché la Corte distrettuale avrebbe basato il giudizio di penale responsabilità dell’imputato sull’esclusivo dato della mancata evidenziazione, nei bilanci della società, della posta negativa rappresentata dal decreto ingiuntivo notificato alla società del ricorrente nel 2009 e divenuto definitivo nel 2014 (con importo finale del precetto ammontante a euro 265.000). Così argomentando, i giudici di merito avrebbero immotivatamente disatteso i principi contabili 0.I.C., che non prevedono l’obbligo di appostare un fondo-rischi in bilancio per il solo fatto della pendenza di una causa civile; secondo quei principi, infatti, l’appostamento è consigliato soltanto in caso di passività possibili o probabili.
Il mancato approfondimento dei principi contabili 0.I.C., dei fatti di causa relativi al citato decreto ingiuntivo, nonché dei motivi di opposizione allo stesso, avrebbe impedito ai giudici di appello di comprendere che l’odierno ricorrente
nutriva fondati motivi di non risultare soccombente in quella causa civile, ragion per cui egli non aveva ritenuto necessario prevedere di appostare in bilancio un apposito fondo-rischi. Si è inoltre trascurato di considerare che, se il ricorrente avesse appostato il fondo-rischi in bilancio, avrebbe dovuto anche inserire in contabilità le somme poste alla base del decreto ingiuntivo, ciò che avrebbe incrementato la posta dell’attivo patrimoniale della società in maniera non conforme al vero.
2.2 Col secondo motivo, si eccepisce vizio di motivazione con riferimento all’ascritta condotta di mancato adempimento degli oneri fiscali e previdenziali fin dal 2009, ciò che, a parere dei giudici di merito, avrebbe aggravato il dissesto. Tuttavia, tale conclusione è puramente asseverativa: la Corte distrettuale non ha spiegato, infatti, il motivo per cui il ricorrente avrebbe dovuto attivarsi per chiedere il fallimento in proprio, dal momento che la società registrava utili, seppure modesti, e il patrimonio netto era in positivo, almeno fino al 2014. La mera esistenza di debiti erariali non implica, di per sé, uno stato di dissesto o il suo aggravamento. Peraltro, entrambe le raitezzazioni del debito tributario, richieste dal ricorrente, erano state accettate dall’ufficio competente, a conferma della capacità del Foukas di adempiere ai debiti.
2.3 Col terzo motivo si deduce violazione di legge in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 217, primo comma, n. 4, I. fall. Premette la difesa che la fattispecie prevista dal citato articolo mira a evitare che l’esercizio d’impresa prolunghi lo stato di perdita attraverso l’accumulo di costi ordinari di gestione; tanto ricordato, si osserva che il ricorrente aveva tempestivamente attivato lo scioglimento della società nel gennaio 2016, ovverosia a brevissima distanza dall’intervenuta procedura di sfratto dai locali societari imposto dalla proprietà degli stessi (evento che aveva determinato , di fatto, l’azzeramento del patrimonio netto a causa della perdita di valore di tutte le opere di ristrutturazione compiute dalla fallita società per l’allestimento della sede). L’attività sociale terminava nel 2015; dopo di allora, il ricorrente, ben lungi da provocare un ulteriore accumulo di costi ordinari di gestione, agendo nel rispetto della legge, scioglieva la società, ponendola poi in liquidazione.
2.4 Col quarto motivo, si duole di violazione di legge in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 217, primo comma, n. 4, I. fall., per non avere la Corte d’appello dimostrato la colpa grave in capo al ricorrente. Il dato del ritardo nella dichiarazione di fallimento è elemento troppo vago perché da esso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave. Sostiene la difesa che l’elemento psicologico della colpa grave non possa riscontrarsi né al momento della mancata appostazione del fondo-rischi, per i motivi già ricordati, né nel 2014, allorché gli fu notificato il decreto ingiuntivo,
posta la convinzione, in capo al Foukas, di potersi legittimamente e con successo opporsi al decreto stesso; né la Corte d’appello ha considerato il profilo professionale del ricorrente (medico), il quale, non poteva prefigurarsi le conseguenze del mancato appostamento di un fondo-rischi in bilancio, operato dal commercialista. A conferma delle ottime intenzioni del Foukas, la difesa ricorda le ingenti risorse proprie immesse in società.
Sono state trasmesse le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME con le quali si chiede l’annullamento dell’impugnata sentenza per vizio motivazionale in merito al ritenuto aggravamento del dissesto e l’inammissibilità del motivo primo del ricorso; conclusioni nell’interesse dell’imputato, con cui si replica alla richiesta del Sostituto Procuratore generale di inammissibilità del primo motivo, ribadendo le eccezioni già espresse in ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è, nel complesso, infondato e va pertanto rigettato, per le ragioni di seguito esposte.
1.1 I motivi primo, terzo e quarto, congiuntamente esaminabili perché logicamente connessi, sono infondati, non trovando riscontro, nella motivazione dell’impugnata sentenza, né la censura dell’asserita decisività di travisamento di prova (cfr., ex multis, Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117 – 01: «in tema di ricorso per cassazione, ai fini della deducibilità del vizio di “travisamento della prova”, che si risolve nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti, è necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento o dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica»), né le eccezioni in tema di elementi costitutivi dell’ascritto reato.
Quanto al dedotto travisamento di prova, si osserva che, ai fini della disarticolazione della tenuta della trama motivazionale, sono inefficaci gli argomenti della natura meramente procedurale della sentenza civile prodotta e del mancato rispetto, da parte della Corte distrettuale, dei criteri O.I.C. I giudici di merito hanno, infatti, esaustivamente chiarito come il decreto ingiuntivo – quali che fossero i motivi, procedurali o di merito, per cui esso divenne definitivo già nel 2014 – fu richiesto, già nel 2009, per l’emissione di tre assegni bancari insoluti, d’importo significativo. Altrettanto diffusamente sono state illustrate le vicende successive al decreto ingiuntivo (v. p. 8 dell’impugnata sentenza). Alcun vizio di travisamento per “prova inesistente” può essere attribuito alla motivazione resa dalla Corte d’appello, dove la tesi difensiva della passività “soltanto potenziale e
soltanto remota”, anziché probabile, derivante dalla contestazione degli assegni scoperti, è stata efficacemente contrastata attraverso due principali argomenti: da un lato, si è posto in luce come la probabilità -non già mera, astratta possibilità di concreta realizzazione del rischio derivasse proprio dal fatto di aver emesso, a favore dell’impresa COGNOME, assegni privi di copertura. D’altro lato, si è evidenziato come tale probabilità discendesse dall’inopponibilità alla RAGIONE_SOCIALE di eventuali accordi tra la proprietà e la fallita in merito ai criteri di ripar delle spese di ristrutturazione dell’immobile.
Data l’entità della pretesa creditizia (euro 176.000 già nel 2009, divenuto poi l’importo complessivo, con interessi e spese, pari a euro 265.000), l’ordinario canone comportamentale – ragionevolmente invocato dalla Corte territoriale – di diligenza dell’amministratore (quale sempre è stato l’odierno ricorrente, in qualità di amministratore unico dal 2006 al 2106, poi di liquidatore, fino alla data del fallimento, nonché di socio unico con posizione dominante nella compagine societaria) imponeva di dare evidenza a tale posta in bilancio, già a partire dal 2009, quantomeno con una predisposizione di un fondo per rischi. L’aver valorizzato tale condotta omissiva, lungi dal tradursi in un vizio di travisamento per prova “inesistente”, come lamentato dal ricorrente, è, invece, valutazione che illumina sulla pregressa sottovalutazione (protrattasi, peraltro, per ben cinque anni, dal 2009 al 2014), da parte dell’imputato, di quel che la Corte d’appello, con apprezzamento esente dalle dedotte censure, ha razionalmente definito “una spia importante di una situazione di difficoltà economica e di difficoltà concrete nella realizzazione del progetto societario”. A fronte di gravi errori di valutazione circa la fondatezza delle proprie pretese e posizioni giuridiche (rimarcata altresì dal giudice di primo grado, v. pp. 8-9 sentenza del Tribunale di Firenze del 16 luglio 2021), i giudici di merito hanno correttamente osservato come un principio di prudenza nella redazione del bilancio richiedesse quantomeno l’indicazione dell’importo, oggetto di lite, in “nota integrativa” (ciò che, diversamente da quanto obiettato dal ricorrente alla fine del primo motivo, non si sarebbe certo tradotto in un incremento della posta dell’attivo patrimoniale della società in maniera non conforme al vero).
Orbene, sulla base di tale puntuale evidenziazione della pregressa condotta dell’imputato, contrassegnata da mancanza di diligenza e di prudenza a fronte della pretesa creditoria – a prescindere dalla fondatezza o meno della stessa – , la Corte d’appello ha poi osservato che, a partire dal 2014 – anno in cui il decreto ingiuntivo divenne definitivo con la pronuncia di inammissibilità dell’opposizione al decreto stesso – 1) diveniva certa l’esistenza di una posta negativa di euro 265.000, tale da azzerare il capitale sociale 2) si svalutavano le immobilizzazioni materiali relative alla ristrutturazione dell’immobile 3) la società cessava, nel
2015, la propria operatività 4) il proprietario dell’immobile in INDIRIZZO ne rientrava in possesso per il mancato pagamento dei canoni di locazione 5) aumentava l’ammontare di debiti tributari e previdenziali e dei relativi interessi.
In tale situazione, s’imponeva, come evidenziato dai giudici di merito, la tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento, non essendo sufficiente ad arginare il dissesto lo scioglimento e la messa in liquidazione della società. Risultano, pertanto, del tutto centrati, e coerentemente applicati al caso di specie, i principi giurisprudenziali invocati dalla Corte territoriale nell’incipit della motivazione, secondo cui «la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell’amministratore (anche di fatto) della società è punibile se dovuta a colpa grave che può essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma, in concreto, da una provata e consapevole omissione» (Sez. 5, n. 18108 del 12/03/2018, COGNOME, Rv. 272823 – 01).
Invero, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato ascritto è stata fatta derivare, nel caso in scrutinio, non già dal dato, asetticamente considerato, del mero ritardo (di tre anni, 2014-2107: periodo comunque non breve, come osservato già dal giudice di primo grado) nella richiesta di dichiarazione di fallimento, bensì dal complessivo esame delle condotte dell’imputato, raffrontate puntualmente con i dati – sicuramente a lui noti, posta la già ricordata situazione di netta preminenza del Foukis nella compagine societaria della fallita – attinenti alla situazione economico-finanziaria, progressivamente sempre più compromessa, dell’impresa fallita (cfr. Sez. 5, n. 27634 del 30/05/2019, COGNOME, Rv. 276920 – 01: «in tema di bancarotta semplice, l’aggravamento del dissesto punito dagli artt. 217, comma primo, n. 4 e 224 legge fall. deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell’impresa fallita, non essendo sufficiente ad integrarlo l’aumento di alcune poste passive»).
Pertanto, va decisamente disattesa la doglianza difensiva secondo cui la Corte territoriale avrebbe fatto discendere dal mero fatto del ritardo nella dichiarazione di fallimento una presunzione assoluta di colpa grave, con una sorta di automatismo logico. Al contrario, il nesso di causalità tra l’aggravamento del dissesto e la scelta di ritardare consapevolmente la presentazione dell’istanza di fallimento è stato adeguatamente delineato dai giudici di merito, come fin qui illustrato.
1.2 Il secondo motivo è, del pari, infondato. La censura motivazionale deve disattendersi, posto che il mancato adempimento degli oneri fiscali e previdenziali, fin dal 2009, non è l’unico profilo, evidenziato dai giudici di merito, bensì uno degli aspetti della complessiva condotta dell’imputato, che ha contribuito ad aggravare il dissesto. Neppure possono valorizzarsi le eccezioni difensive tese a evidenziare
l’avvenuta rateizzazione dei debiti tributari (cfr. Sez. 5, n. 57757 del 24/11/2017, COGNOME, Rv. 271861 – 01: «ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice per mancata tempestiva richiesta di fallimento, non è ostativa la condotta dell’amministratore che presenta un’istanza di rateizzazione del debito erariale, strumento previsto dall’ordinamento per far fronte alla crisi dell’impresa, se essa avviene in una situazione di conclamata ed irrimediabile insolvenza della società, in assenza di qualsivoglia iniziativa volta a risollevarne le sorti»), in quanto non decisive a fronte 1) della modesta entità, rimarcata dai giudici del merito, degli utili dei bilanci 2009-2013, peraltro con perdita già evidenziata nel bilancio del 2012, 2) della concreta prospettiva di realizzo della passività derivante dal decreto ingiuntivo del 2009 (su cui, v. retro, 1.1).
Per le ragioni esposte, il Collegio ritiene che il ricorso vada rigettato. Alla pronuncia di rigetto, consegue la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10/12/2024
Il Consigliere estensore