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Accordo in esecuzione: l’appello del PM è inammissibile

La Corte di Cassazione ha stabilito che l’accordo in esecuzione tra Pubblico Ministero e difesa per la rideterminazione della pena è irrevocabile. Il PM non può impugnare la decisione del giudice conforme all’accordo, anche se basata su un calcolo ritenuto erroneo, a meno che la pena finale non sia qualificabile come ‘illegale’, ovvero non corrisponda per specie o quantità a quella prevista dalla legge. Un mero errore di calcolo non rende la pena illegale, precludendo così il ricorso.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Accordo in esecuzione: perché il PM non può tornare sui suoi passi?

La fase di esecuzione della pena rappresenta un momento cruciale del procedimento penale, in cui le sentenze definitive prendono corpo. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la n. 24684/2025, fa luce su un aspetto fondamentale di questa fase: l’irrevocabilità dell’accordo in esecuzione tra Pubblico Ministero e difesa. La Corte ha stabilito che, una volta prestato il consenso a una richiesta della difesa per la rideterminazione della pena, il PM non può più impugnare la decisione del giudice che si conforma a tale accordo, anche se la ritiene frutto di un calcolo errato.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dal ricorso di un Procuratore della Repubblica avverso un’ordinanza del Giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo, accogliendo una richiesta della difesa a cui il PM aveva prestato il proprio consenso, aveva riconosciuto il vincolo della continuazione tra reati giudicati con due distinte sentenze di patteggiamento.

Nel ricalcolare la pena complessiva, il giudice aveva individuato la pena per il reato più grave (già comprensiva della riduzione per il rito), l’aveva aumentata per il reato ‘satellite’, e aveva poi applicato la riduzione di un terzo prevista dall’art. 444 c.p.p. sull’intera pena così cumulata. Secondo il Procuratore ricorrente, questa operazione avrebbe comportato una ‘doppia riduzione’ illegittima, poiché la pena base era già stata ridotta nella prima sentenza. Di conseguenza, il PM chiedeva l’annullamento dell’ordinanza per erronea applicazione della legge penale.

La Decisione della Corte e il valore dell’accordo in esecuzione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, rigettandolo. Il fulcro della decisione non risiede tanto nella correttezza del calcolo matematico effettuato dal giudice dell’esecuzione, quanto nel valore vincolante dell’accordo in esecuzione tra le parti.

Il principio di diritto affermato è chiaro: il consenso prestato dal Pubblico Ministero alla richiesta della difesa, ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.p., è irrevocabile. Una volta che l’accordo si è perfezionato e il giudice ha emesso una decisione conforme alla proposta congiunta, il PM perde la facoltà di impugnarla. L’accordo processuale assume una forza tale da ‘cristallizzare’ la situazione, precludendo ripensamenti successivi.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione fonda la propria decisione sul principio di auto-responsabilità e lealtà processuale. Consentire al PM di impugnare una decisione a cui egli stesso ha aderito significherebbe eludere il principio di irrevocabilità del consenso.

Tuttavia, la Corte precisa che esiste un’eccezione a questa regola: l’impugnazione è ammissibile se la pena determinata è ‘illegale’. Citando la giurisprudenza delle Sezioni Unite (sent. Sacchettino), i giudici chiariscono la distinzione fondamentale tra pena ‘erronea’ e pena ‘illegale’.

Una pena è illegale quando non corrisponde, per specie (es. arresto anziché reclusione) o per quantità (inferiore al minimo o superiore al massimo edittale), a quella astrattamente prevista dalla norma incriminatrice. Si tratta di una sanzione che si colloca ‘al di fuori del sistema sanzionatorio’.

Al contrario, una pena è meramente erronea quando, pur essendo legale nel suo risultato finale (cioè conforme per genere e quantità ai limiti di legge), è il frutto di un percorso argomentativo viziato o di un errore di calcolo nei passaggi intermedi. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che, sebbene il calcolo potesse essere discutibile, la sanzione finale di cinque anni di reclusione era comunque congrua e non si poneva al di fuori del sistema. L’aumento per la continuazione era stato operato in modo astrattamente consentito. Pertanto, non trattandosi di pena ‘illegale’, l’accordo formatosi tra le parti rimaneva valido e non suscettibile di essere messo in discussione dal ricorso del PM.

Conclusioni

La sentenza in esame rafforza la stabilità degli accordi processuali nella fase esecutiva. Stabilisce un confine netto: il patto tra accusa e difesa, una volta siglato, è vincolante e la decisione conforme del giudice non è appellabile dalle parti che vi hanno aderito. L’unica via d’uscita è la dimostrazione di una ‘illegalità’ della pena in senso stretto, un vizio strutturale che la rende incompatibile con l’ordinamento. Un semplice errore di calcolo, che conduce a un risultato comunque plausibile e normativamente accettabile, non è sufficiente a scardinare la validità dell’accordo. Questa pronuncia offre quindi un’importante garanzia di certezza del diritto e valorizza il ruolo degli accordi deflattivi nel sistema processuale penale.

Il Pubblico Ministero può impugnare una decisione del giudice basata su un accordo in esecuzione che lui stesso ha sottoscritto?
Di norma, no. La Corte di Cassazione ha ribadito che il consenso prestato dal PM a una richiesta della difesa in fase esecutiva è irrevocabile. Di conseguenza, il PM non può presentare ricorso contro la decisione del giudice che si è conformato a tale accordo.

Qual è la differenza tra una pena ‘erronea’ e una ‘illegale’?
Una pena è ‘illegale’ quando non corrisponde per tipo o quantità a quella prevista dalla legge per quel reato (ad esempio, è inferiore al minimo o superiore al massimo). Una pena ‘erronea’, invece, pur essendo legale nel suo risultato finale, deriva da un errore nel procedimento di calcolo o nel ragionamento del giudice. Solo la pena ‘illegale’ può giustificare un’impugnazione in deroga a un accordo.

Perché nel caso specifico la pena non è stata considerata illegale, nonostante la presunta ‘doppia riduzione’?
La Corte ha ritenuto che, sebbene il metodo di calcolo fosse discutibile, la pena finale risultante era comunque ‘congrua’ e rientrava nei limiti previsti dal sistema sanzionatorio. Non si trattava di una pena estranea all’ordinamento, ma al massimo del risultato di un percorso di calcolo imperfetto. Pertanto, non essendo ‘illegale’, l’accordo tra le parti doveva essere rispettato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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