Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 5831 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 5831 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME MicheleCOGNOME nato a Napoli il 5/7/1981
avverso la sentenza dell’11/4/2024 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza dell’11/4/2024, la Corte di appello di Napoli, in riforma della pronuncia emessa il 26/9/2022 dal Tribunale di Noia, rideterminava nella misura del dispositivo la pena inflitta a NOME COGNOME con riguardo ai reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), 93, 94 e 95, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, 181, d. Igs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
violazione di legge e vizio di motivazione. La Corte di appello avrebbe negato la scriminante dello stato di necessità, di cui all’art. 54 cod. pen., pur
sussistendone i presupposti: lo COGNOME, infatti, avrebbe commesso l’abuso per la necessità di salvare sé e la propria famiglia da una grave situazione in atto, quali le infiltrazioni di acqua provenienti dal solaio, la conseguente necessità di intervenire e l’impossibilità – a causa delle proprie condizioni economiche – di rivolgersi ad un professionista. La sentenza non avrebbe neppure valutato le limitate dimensioni dell’abuso (25 mq.), invero da tenere in considerazione per il rispetto di un requisito di proporzionalità ormai costantemente affermato dalla giurisprudenza convenzionale e da quella interna. L’evidente lacunosità della motivazione sul punto, dunque, ne imporrebbe l’annullamento;
violazione e falsa applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.; vizio di motivazione. La sentenza meriterebbe censura anche con riguardo alla esimente della particolare tenuità del fatto, che sarebbe stata negata con argomento carente ed illogico. In particolare, la Corte avrebbe fondato la decisione sul solo fatto che l’imputato aveva commesso i reati contestati, sebbene ciò rappresenti il presupposto per l’applicazione dell’istituto e non possa costituire, di per sé, motivo per negarlo; anche il riferimento alle dimensioni del manufatto sarebbe viziato, in quanto si tratterebbe di un immobile di limitata portata, come già evidenziato. Nel caso di specie, dunque, sarebbero presenti tutti i requisiti per riconoscere la particolare tenuità del fatto, per come definiti dalla giurisprudenza di questa Corte anche con riferimento alla entità del danno o del pericolo verificatisi. Con riguardo, infine, ai precedenti penali a carico del ricorrente, peraltro non successivi ai fatti qui in esame, la sentenza ne avrebbe dovuto rilevare la risalenza nel tempo;
la violazione di legge ed il vizio di motivazione, infine, sono dedotti quanto alla misura della pena, che si lamenta irrogata in termini non minimi senza adeguato argomento; la Corte, per contro, avrebbe dovuto adeguatamente motivare sul punto, come da giurisprudenza di legittimità, anche in considerazione delle caratteristiche dell’abuso e dell’assenza di indici di pericolosità sociale nel ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, che contesta il vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della scriminante dello stato di necessità, la Corte rileva che la censura non può essere accolta, in quanto la sentenza si è pronunciata sul punto con argomenti del tutto adeguati, fondati su concreti elementi istruttori e privi di illogicità manifesta; come tali, dunque, non censurabili.
4.1. In particolare, la Corte di appello ha sottolineato che l’art. 54 cod. pen. presuppone che il pericolo di un danno grave alla persona sia attuale ed
imminente, non rilevando, pertanto, un pericolo meramente futuro ed eventuale, soltanto temuto o probabile; ancora, il pericolo deve risultare non altrimenti evitabile, e di ciò deve fornire adeguata prova colui che invoca l’applicazione della scriminante.
4.2. Muovendo da questi consolidati principi, la sentenza ha quindi affermato che l’imputato non aveva mai dimostrato l’esistenza delle infiltrazioni sul lastrico solare, né di un pericolo attuale ed imminente per sé e per la propria famiglia; nessun riscontro, dunque, aveva ottenuto il presupposto dell’esimente. Ancora, nessun elemento era stato fornito – né il ricorso afferma alcunché al riguardo circa eventuali iniziative lecite che lo COGNOME avesse adottato a fronte del (solo) dedotto pericolo, come, ad esempio, il sollecito all’ente proprietario dell’abitazione o la richiesta di autorizzazione per un intervento in proprio.
4.3. L’inevitabilità altrimenti richiesta dall’art. 54 cod. pen., pertanto, no aveva fornito oggetto di prova da parte dell’interessato. A tale proposito, peraltro, la sentenza ha affrontato anche un argomento poi riproposto nel ricorso, sebbene di puro merito, quale la condizione economica nella quale l’imputato si sarebbe trovato, tale da impedirgli di rivolgersi ad un professionista; ebbene, la Corte di appello ha sostenuto – con affermazione in fatto evidentemente priva di illogicità – che risultava inverosimile che il soggetto non avesse avuto denaro sufficiente per eseguire l’intervento a norma di legge, avendo comunque egli realizzato un intero appartamento, munito di impianto elettrico ed idraulico, pavimentazione e arredamenti vari.
4.4. La sentenza impugnata, dunque, ha fatto corretta applicazione del ribadito principio in forza del quale in tema di stato di necessità di cui all’art. cod. pen., l’imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non avere potuto sottrarsi, nemmeno putativarnente, al pericolo minacciato, con la conseguenza che il difetto di tale allegazione – come nel caso in esame – esclude l’operatività dell’esimente (tra le altre, Sez. 1, n. 12619 del 24/1/2019, COGNOME, Rv. 276173).
4.5. Infine sul punto, non può essere accolta la tesi in forza della quale un abuso edilizio di limitate dimensioni sarebbe di per sé considerato “di necessità”; tale equazione non trova alcun riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, neppure in quella richiamata nel ricorso. Con la sentenza n. 40396 del 4/6/2019, pronunciata nella specifica materia della demolizione degli abusi edilizi, il Collegio non ha infatti sostenuto alcuna equiparazione tra abuso di limitate dimensioni ed abuso integrante lo stato di necessità, ma – in termini del tutto differenti – ha
sostenuto che “l’abuso di necessità per esigenze abitative”, solo in astratto prevedibile, non aveva trovato alcun riscontro istruttorio.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, è del tutto infondato.
Alle medesime conclusioni, poi, la Corte giunge anche con riguardo al secondo motivo, che contesta il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
5.1. La sentenza impugnata, infatti, ha sviluppato sul punto un’ampia motivazione, con la quale ha valutato plurimi e decisivi parametri. In primo luogo, è stata sottolineata l’estensione dell’immobile, pari a 25 mq., tale da impedire di riqualificarlo come di modeste dimensioni; ancora, è stata valorizzata la pluralità delle violazioni commesse, che avevano coinvolto non solo il profilo edilizio in sé, ma anche quello sismico (tale, peraltro, da non rendere l’opera sanabile) e paesaggistico, così riscontrando la consumazione di più reati della stessa indole che, per espressa previsione normativa, individua l’abitualità del comportamento ostativa all’applicazione dell’istituto. In sintesi, dunque, e con adeguata valutazione in fatto, un danno che non poteva esser definito lieve o di modesta entità.
5.2. Per contro, peraltro, nessun rilievo pare avere in questa sede il riferimento al tempo di realizzazione dell’abuso (accertato nel 2020), così come alla eventuale pericolosità del soggetto, che correttamente non è stata tenuta in considerazione dalla Corte di appello trattandosi di un criterio richiamato nell’art. 133, comma 2, cod. pen., e dunque differente da quelli – di cui al comma precedente – espressamente indicati nell’art. 131-bis cod. pen.
5.3. Infine sul punto, il Collegio osserva che non può essere accolta la prospettazione difensiva secondo cui i Giudici di merito non avrebbero indicato “specifici dati fattuali, inerenti alle modalità della condotta e alla gravità del fat dimostrativi della insussistenza del necessario requisito della tenuità dell’offesa della condotta”: contrariamente a questa tesi, infatti, non è il giudice chiamato a provare l’assenza di elementi ostativi, quanto l’imputato onerato di dimostrare in termini positivi – la presenza di specifici elementi in fatto che giustifichin l’applicazione dell’istituto.
Con riguardo, infine, al trattamento sanzionatorio, che si contesta non esser stato irrogato nella misura minima, la censura risulta ancora del tutto infondata.
6.1. La Corte di appello, riformando la pronuncia di primo grado, ha riconosciuto allo Scarienzo le circostanze attenuanti generiche; ha individuato la pena base per il reato di cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 in termi molto più prossimi al minimo che al medio edittale; ha applicato la massima riduzione per le citate attenuanti; ha applicato un contenuto aumento a titolo di
continuazione con due altre contravvenzioni. Quanto alla pena pecuniaria, peraltro, non è stato applicato, seppur dovuto, il raddoppio previsto dal d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla I. 24 novembre 2003, n. 326.
6.2. Un complessivo trattamento sanzionatorio, dunque, che non si discosta in misura considerevole dai minimi edittali e, pertanto, giustifica una motivazione nei termini della equità, come quella presente nella sentenza impugnata.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2024
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