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Abusivo esercizio professione: consulenza sufficiente?

Un soggetto è stato condannato per abusivo esercizio della professione di avvocato per aver fornito consulenza stragiudiziale continuativa a una società in relazione a decreti ingiuntivi. La Cassazione ha confermato la condanna, chiarendo che l’abusivo esercizio professione è integrato anche solo dalla consulenza, se svolta in modo sistematico e connessa a un contenzioso giudiziale, presente o futuro, senza necessità di compiere atti in tribunale o di ricevere un mandato formale.

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Pubblicato il 2 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Abusivo esercizio professione legale: basta la consulenza?

L’abusivo esercizio professione forense è un reato che non sempre richiede di indossare una toga e parlare in un’aula di tribunale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: anche la sola attività di consulenza legale, se svolta in modo continuativo e connessa a un contenzioso, può integrare il delitto previsto dall’art. 348 del codice penale. Analizziamo insieme questa importante decisione per capire quali sono i confini tra una consulenza lecita e un’attività riservata esclusivamente agli avvocati.

I Fatti di Causa

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un soggetto condannato in primo e secondo grado per aver esercitato abusivamente la professione di avvocato. Nello specifico, pur essendo privo del titolo abilitativo, aveva accettato e ricevuto compensi da una società per una serie di incarichi professionali. Tra questi, figurava il compito di proporre opposizione a un decreto ingiuntivo, attività peraltro mai concretamente svolta.

L’imputato aveva fornito alla società cliente una consulenza legale continuativa e sistematica, finalizzata a gestire atti giudiziari già notificati, percependo per tali prestazioni un compenso di circa 7.600 euro.

L’abusivo esercizio professione secondo la difesa

L’imputato, tramite il suo difensore, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che il reato di abusivo esercizio professione non fosse configurabile. La tesi difensiva si basava su due punti principali:

1. Mancanza di attività giudiziale: Non era stata svolta alcuna attività tipica dell’avvocato in sede processuale. L’incarico di opporsi al decreto ingiuntivo era rimasto ineseguito e non era mai stata conferita una procura formale (procura ad litem).
2. Natura dell’attività: La semplice ricezione di un incarico o la consulenza stragiudiziale non connessa a un’attività giurisdizionale non rientrerebbe nell’ambito del reato, potendo al massimo configurare una truffa.

In sostanza, secondo la difesa, per commettere il reato sarebbe stato necessario un compimento effettivo di atti processuali riservati per legge alla figura dell’avvocato.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. Le motivazioni della Corte sono chiare e si fondano sull’interpretazione della normativa che regola la professione forense (Legge n. 247/2012).

Il punto centrale della decisione è che l’attività riservata agli avvocati non si limita agli atti compiuti in tribunale. L’art. 2, comma 2, della suddetta legge stabilisce che anche “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”.

La Corte ha specificato che:

* Non è necessario un mandato formale: Ai fini del reato, non rileva l’esistenza di una procura, ma l’effettivo svolgimento di un’attività riservata.
* La connessione con l’attività giurisdizionale è cruciale: La consulenza svolta dall’imputato era direttamente collegata a un contenzioso giudiziale già esistente (i decreti ingiuntivi notificati). L’obiettivo era trovare la migliore linea difensiva, che si trattasse di un’opposizione in tribunale o di una transazione per chiudere la lite. Questa finalità crea la “connessione” richiesta dalla norma.
* La continuità e sistematicità contano: L’attività non era un parere isolato, ma una consulenza svolta in modo continuativo, sistematico e professionale, come dimostrato dai plurimi incarichi e dai compensi ricevuti.

In altre parole, chiunque offra in modo organizzato e continuativo consulenza per gestire o risolvere controversie giudiziarie, presenti o future, compie un atto tipico della professione forense, commettendo il reato di abusivo esercizio professione se privo dell’abilitazione.

Le conclusioni

La sentenza rafforza la tutela della professione legale e, di conseguenza, dei cittadini. Il principio affermato è netto: non ci si può improvvisare avvocati, nemmeno limitandosi all’ambito stragiudiziale, se l’attività è organizzata e mira a incidere su una controversia giudiziaria. La decisione chiarisce che il perimetro dell’attività riservata agli avvocati è ampio e include tutta quella consulenza strategica e preparatoria a un’azione legale o finalizzata a evitarla tramite una transazione. Questo garantisce che a gestire questioni legali complesse siano solo professionisti qualificati e iscritti a un albo, a tutela dell’affidabilità e della competenza delle prestazioni legali.

Per commettere il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato è necessario compiere atti in tribunale?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che il reato si configura anche con la sola attività di consulenza e assistenza stragiudiziale (fuori dal tribunale), a condizione che sia svolta in modo continuativo, sistematico, organizzato e sia connessa a un’attività giurisdizionale, presente o futura.

L’attività di consulenza legale fuori dal tribunale è sempre riservata agli avvocati?
No, non sempre. Diventa attività riservata, e quindi il suo svolgimento da parte di un non abilitato costituisce reato, quando è connessa a un contenzioso giudiziale e viene prestata in modo continuativo, sistematico e organizzato.

È necessario aver ricevuto un mandato formale (procura) per essere condannati per esercizio abusivo della professione?
No. La sentenza specifica che l’esistenza di un mandato formale non è un requisito necessario per la configurazione del reato. Ciò che conta è lo svolgimento effettivo di un’attività che la legge riserva agli avvocati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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