Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17687 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17687 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6622-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1719/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/09/2020 R.G.N. 319/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
07/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 6622/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 07/05/2025
CC
RILEVATO che
Con sentenza del 22 settembre 2020 , la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione del locale Tribunale che aveva accolto la domanda proposta dai lavoratori indicati in epigrafe volta ad ottenere la condanna della società RAGIONE_SOCIALE alla corresponsione delle somme rivendicate a titolo di compenso per la pausa pranzo retribuita di trenta minuti, come previ sto dall’art. 26, comma 7, CCNL di categoria, nonché di quelle loro corrisposte per uso aziendale, su turni avvicendati, di otto ore aggiuntive di permesso annue.
In particolare, la Corte, condividendo l’ iter motivazionale del giudice di primo grado, ha ritenuto fornita di prova la circostanza della sussistenza di un uso aziendale consolidato nel senso del pagamento dei predetti emolumenti e della improvvisa, ingiustificata cessazione dello stesso con lettera del 13 aprile 2015, con la quale era stata formulata la disdetta degli accordi sindacali dai quali discendeva il conferimento del compenso per i trenta minuti e dei ROL.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso RAGIONE_SOCIALE affidandolo a quattro motivi.
Resistono, con controricorso assistito da memoria, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
CONSIDERATO che
1.Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. circa la valutazione delle prove
offerte con riguardo all’interruzione della prassi concernente i considerati benefici.
Con il secondo motivo si allega l’omesso esame di un fatto decisivo quanto alla configurabilità dell’uso aziendale, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.
Con il terzo motivo si denunzia ancora l’omesso esame di un fatto decisivo, sotto il profilo di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., allegandosi l’omesso accertamento della sussistenza dei presupposti per l’applicazione degli istituti di cui all’art. 26 CCNL di categoria ai lavoratori considerati.
Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1373 cod. civ., in relazione all’errata interpretazione circa la disdetta da parte della società degli accordi aziendali.
2. Il primo motivo è infondato.
Va rilevato come, con riguardo alla dedotta violazione de ll’art. 116 cod. proc. civ., una questione di violazione e falsa applicazione di tale norma non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).
Nel caso di specie, del tutto inconferente deve reputarsi il richiamo alla disposizione considerata, atteso che parte ricorrente lamenta esclusivamente una erronea interpretazione delle prove offerte, delle quali, tuttavia, suggerisce un diverso apprezzamento, meramente contrapponendo alla motivazione della Corte la propria diversa interpretazione, senza apportare elementi che possano indurre a reputare la prima implausibile.
Giova premettere, al riguardo, come l’art. 26 del CCNL, al comma 6 definisca i lavoratori addetti a turni avvicendati, mentre il successivo comma 7 preveda che a questi ultimi – che prestino la propria attività per 8 ore giornaliere e 40 settimanali – venga riconosciuta una pausa retribuita di 30 minuti al giorno per la refezione per le ore di presenza in azienda.
Con lettera del 13 aprile 2015, la società ricorrente ha formulato la disdetta di accordi sindacali sulla base del ‘ superamento di erronee applicazioni del dettato contrattuale’ con effetto dal I maggio 2015, in ordine a: 30 minuti di pausa retribuita nell’ambito dell’orario di lavoro al personale full – time non addetto a turni avvicendati e la maturazione di 8 ore di ROL in aggiunta a quelle previste dal CCNL anche per il personale non addetto a turni avvicendati; nella medesima lettera la società ha indicato ‘a titolo meramente esemplificativo’ alcuni accordi che dovevano ritenersi disdettati.
Risulta incontestato che, dal I maggio 2015, la società abbia cessato di riconoscere ai controricorrenti il compenso per i trenta minuti
2.1. Orbene, la società sostiene che la sentenza sarebbe incorsa nel vizio denunciato poiché le valutazioni delle risultanze probatorie non risultano congruamente motivate e l’iter logico argomentativo che
sorregge la decisione presenta profili di manifesta illogicità ed evidenti contraddizioni.
La sentenza della Corte viene criticata là dove ha ritenuto che RAGIONE_SOCIALE non avesse fornito prova sufficiente in ordine all’errore interpretativo che l’aveva condotta a riconoscere il compenso per la pausa pranzo e le ore di permesso aggiuntive per un lasso temporale di circa quindici anni.
La Corte ha affermato, in via preliminare, al riguardo, che deve ritenersi sussistente una prassi aziendale ove via sia ‘reiterazione protratta nel tempo, costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti’.
Ha, quindi, accertato, in fatto, come non sussistesse alcuna contestazione da parte della società circa la protrazione della condotta in oggetto, costante e generalizzata, a favore dei dipendenti, mediante il prolungato riconoscimento – per circa quindici anni – dei benefici contrattuali della mensa retribuita e delle ore di permesso aggiuntive anche ai lavoratori che non ne avrebbero avuto diritto (in quanto non organizzati in turni avvicendati) in base alla previsione contrattuale ed altresì estendendo, mediante accordi collettivi, tali benefici anche ai lavoratori provenienti da aziende acquisite a seguito di fusioni, per armonizzazione del trattamento applicato a tutti i dipendenti.
Ha ritenuto, tuttavia, nel merito, con valutazione coerente con l’interpretazione offerta da questa Corte sull’uso aziendale (su cui, postea) che, trattandosi di un comportamento protratto durante un lunghissimo arco di tempo, RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto offrire la prova
estremamente rigorosa circa l’errore interpretativo nel quale sarebbe incorsa, prova che, invece, era del tutto mancata.
Il giudice di secondo grado, ancora, con valutazione sottratta al sindacato di legittimità, non solo ha escluso che qualsivoglia elemento fosse stato addotto a sostegno del lamentato errore, ma anche che la assoluta chiarezza del disposto di cui all’art. 2 6 CCNL deponesse per la non credibilità di una erronea interpretazione del medesimo.
Il generico errore di interpretazione della norma collettiva è stato ritenuto non dimostrato, con interpretazione non implausibile anche alla luce della circostanza che la società non ha chiarito se lo stesso fosse caduto sulla qualificazione dei ricorrenti come lavoratori su turni avvicendati o, invece, sulla spettanza degli emolumenti relativi alla pausa pranzo in questione a dipendenti non addetti a turni avvicendati.
Ancor meno comprensibile, secondo la Corte, l’errore sulle ore di permesso aggiuntivo, proprio in ragione della chiara previsione dello stesso come inerente esclusivamente ai lavoratori addetti a turni avvicendati.
Infine, ad ulteriormente corroborare l’inesistenza di qualsivoglia elemento di prova a sostegno del lamentato errore di interpretazione, la Corte ha valorizzato il contenuto della lettera di disdetta, riguardante esclusivamente l’andamento economico della società.
2.1. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, non possono trovare accoglimento.
Occorre, premettere che, come noto, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., si verte nell’ambito di
una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).
2.2. Nella specie, non solo la motivazione è presente e ben chiara nel suo svolgimento ma parte ricorrente non deduce l’omessa valutazione di un fatto storico ma appunta le proprie censure su aspetti valutativi dell’ iter motivazionale, concernenti la asseritamente erronea valutazione di materiale istruttorio.
Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede l’ ” omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente
formulate ( cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass.n. 2268 del 2022).
Parte ricorrente omette , d’altronde, di considerare che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis , è soggetto non solo alla nuova disciplina di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., in base alla quale, le sentenze possono essere impugnate “per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti” , ma anche a quella di cui all’art. 348 ter , ult. comma cod. proc. civ., secondo cui il vizio in questione non può essere proposto con il ricorso per cessazione avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c. d. doppia conforme (v. sul punto, Cass, n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014).
Conseguentemente, non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, anche in ordine alle risultanze probatorie in ordine alla prassi lavorativa ed alla conseguente formazione dell’uso aziendale sia in quanto le stesse lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia in quanto formulate in modo difforme rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. limitando la scrutinabilità al c.d. ‘minimo costituzionale’, sia nella parte in cui attingono questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado.
Quanto al contenuto delle doglianze va rilevato come la Corte, sussumendo la fattispecie nell’ambito dell’uso aziendale, abbia fatto
corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte, consolidata, secondo cui, nell’ambito dei rapporti di lavoro, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell’uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
Con riferimento alla dedotta violazione interpretativa, giova evidenziare come, nell’ambito della contrattazione collettiva, al fine di ricostruire la comune intenzione delle parti contrattuali, non può essere attribuita rilevanza esclusiva al senso letterale delle parole, atteso che la natura di detta contrattazione, spesso articolata in diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), la vastità e la complessità della materia trattata, in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali – non necessariamente coincidente con quello comune – e, da ultimo, il carattere vincolante che non di rado assumono nell’azienda l’uso e la prassi, costituiscono elementi tutti che rendono indispensabile una utilizzazione dei generali criteri ermeneutici che tenga conto della specificità della materia, con conseguente assegnazione di un preminente rilievo al canone interpretativo dettato dall’art. 1363 c.c. (fra le altre, Cass. n. 2996 del 2023).
3.1. Quanto, specificamente, all’uso aziendale, questa Corte ha affermato che l’uso aziendale costituisce fonte di un obbligo unilaterale, di carattere collettivo, che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo, sicché, salvaguardati i diritti quesiti, esso può essere modificato soltanto da un successivo accordo
in senso peggiorativo per i lavoratori (cfr., sul punto, Cass. n. 3296 del 2016).
In questa ottica, correttamente condivisa dal giudice di secondo grado, i trattamenti di favore derivanti dall’uso aziendale, proprio in ragione della loro natura analoga ai trattamenti economico – normativi dei contratti integrativi aziendali, sono soggetti alla medesima possibilità di modifica o soppressione che hanno i contratti collettivi aziendali, da parte di successivi contratti aziendali o nazionali, da parte delle parti sociali ma non, invece, sulla base di un atto unilaterale del datore di lavoro.
Come correttamente rilevato dal giudice di merito, quanto alle ulteriori circostanze che escluderebbero la formazione di un uso aziendale, quali la mancanza di un intento negoziale e l’avvenuto mutamento delle condizioni aziendali, si tratta di elementi non in grado di inficiare l’insorgenza dell’uso anzidetto.
3.2. Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 1373 cod. civ., in ordine alla asserita erronea interpretazione da parte della Corte circa la disdetta della società rispetto agli accordi aziendali, allega parte ricorrente l’erronea affermazione circa l a sussistenza della possibilità di interrompere o modificare un uso aziendale soltanto mediante un accordo collettivo successivo e l’erronea interpretazione degli effetti del recesso unilaterale di cui alla richiamata disposizione.
Va premesso, al riguardo, come abbiano precisato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c. p. c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di
merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità;
D ‘altra parte, è consolidato il principio secondo cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c. p. c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso ( ex plurimis, Cass. n. 29093 del 13/11/2018).
Difetta, nella specie, in dispregio del principio di specificità, l’adempimento, da parte della società all’onere di indicare con precisione e puntualità la situazione di cui prospetta l’erroneo apprezzamento da parte del giudice di merito.
3.3. A guardar bene, risulta mancante, in punto di allegazione, lo stesso riferimento ad un atto di recesso unilaterale facendo esclusivamente
riferimento la società a tale circostanza fattuale in difetto di trascrizione o almeno indicazione circa la collocazione del relativo documento.
Nessun richiamo risulta effettuato alla lettera del 15 aprile 2015 che, invece, avrebbe dovuto essere integralmente richiamata od almeno individuata nel contenuto essenziale al fine di verificare se fosse stato posto in essere, effettivamente, un recesso u nilaterale dall’uso aziendale e poterne, quindi, apprezzare il contenuto: il riferimento, rinvenibile nella missiva in questione, al ‘superamento di erronee applicazioni del dettato contrattuale’ non depone nel senso indicato da parte ricorrente mentre que st’ultima non indica in alcun modo come fosse stata formulata l’originaria domanda né, tampoco, si premura di allegarne stralci onde appare impossibile a questa Corte stabilirne il contenuto allo scopo di poter valutare, senza incorrere in una rivisitazione del merito, inammissibile in sede di legittimità, il contenuto della stessa e la dedotta violazione interpretativa da parte della Corte d’appello con le conseguenze in termini di inammissibilità dell’impugnativa ad essa riconnesse;
Sempre nel merito, poi, la Corte ha accertato come RAGIONE_SOCIALE avesse dato disdetta rispetto ad alcuni accordi relativi alle società RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE ma ha, altresì, attestato che nessuno dei lavoratori appellanti proveniva da una di queste società ed anzi gli stessi operavano presso la sede di Roma e on di Milano, essendo alle dipendenze di RAGIONE_SOCIALE e fruendo dei richiesti benefici da prima che venissero conclusi i predetti accordi.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve, quindi, essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo con distrazione in favore del procuratore di parte controricorrente, dichiaratosi antistatario.
5.1. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
PQM
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali, in favore della parte controricorrente, che liquida in euro 4,500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, da distrarsi. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 7 maggio 2025
La Presidente
NOME COGNOME