Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16178 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 16178 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 20388-2023 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
Oggetto
Retribuzione rapporto privato
R.G.N. 20388/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 18/03/2025
CC
avverso la sentenza n. 434/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 12/04/2023 R.G.N. 1346/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta dai lavoratori, tutti dipendenti a tempo indeterminato di Telecom Italia s.p.a., che lamentavano la illegittima riduzione da parte della datrice di lavoro dei rispettivi superminimi individuali assorbibili a decorrere dal gennaio 2018, accertava l’illegittimità degli assorbimenti della voce superminimo individuale operata dalla società datrice in compensazione con gli aumenti dei minimi tabellari e dell’Elemento Retributivo Separato (ERS) di cui all’Accordo di programma del 23.11.2017 per il rinnovo del contratto collettivo RAGIONE_SOCIALE e per l’effetto condannava Telecom RAGIONE_SOCIALE alla ricostituzione della predetta voce goduta fino al gennaio 2018 ed alla restituzione delle somme indebitamente assorbite/trattenute dal febbraio 2018 nella misura per ciascuno in dispositivo quantificata.
La Corte d’appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado e in accoglimento dell’appello di Telecom Italia s.p.aRAGIONE_SOCIALE ha respinto la domanda dei lavoratori originari ricorrenti. 3. Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso i lavoratori sulla base di due motivi; Telecom Italia s.p.a. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
Va respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza, avanzata dalla controricorrente, rientrando la valutazione
degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, u.c., c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020). Il Collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437 del 2018), ancor più in una ipotesi in cui questa Corte già si è espressa in pubblica udienza.
Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1373, 1374 e 1173 cod. civ. censurando la sentenza impugnata per avere affermato che l’uso aziendale era stato revocato dal comportamento di Telecom che, successivamente all’aumento contrattuale del 2018, aveva unilateralmente deciso di provvedere all’assorbimento dei superminimi sino ad allora mai assorbiti , senza che occorresse a tal riguardo una specifica previsione o un espresso recesso; ciò in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale per la revoca dell’uso aziendale è necessario un accordo sindacale successivo di pari livello che disponga la revoca espressa dell’uso o una disdetta formale dell’uso da parte del datore di lavoro, non potendo la revoca dell’uso essere implicita o desunta da un comportamento di segno contrario unilateralmente adottato dal datore di lavoro .
Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 e 2946 cod. civ. per avere la sentenza ritenuto che il termine di prescrizione del diritto
all’assorbimento non decorreva dalla data in cui avrebbe potuto essere esercitato.
Il primo motivo è meritevole di accoglimento, nei limiti di cui in seguito, non apparendo condivisibile in alcuni profili il ragionamento decisorio seguito dalla Corte di merito.
La sentenza impugnata, premesso essere incontroversa la natura assorbibile del superminimo individuale secondo quanto emergente dai contratti individuali ed essere altresì incontroverso il mancato assorbimento del superminimo individuale in occasione di plurimi rinnovi contrattuali, ha condiviso la valutazione di prime cure circa la configurabilità di un uso aziendale che determinava un trattamento di miglior favore per i lavoratori; rilevato, quindi, essere pacifico che nell’Accordo di programma non vi e ra alcun riferimento ad una volontà aziendale di assorbire gli aumenti contrattuali introdotti e che non vi era alcun riferimento ad una disdetta del contestato uso aziendale, sul presupposto che l’ uso aziendale non implicava la perpetuità del vincolo obbligatorio da esso scaturente, ha ritenuto che ben poteva la società, a fronte degli aumenti salariali sanciti dall’ultimo contratto aziendale, decidere di disporre nuovamente dell’assorbimento contrattualmente pattuito, senza che occorresse a riguardo una specifica previsione o un espresso recesso , operando la regola generale dell’assorbimento del superminimo nei miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva. In merito all’ERS ha rilevato che esso si configurava quale incremento retributivo a tutti gli effetti e che era incontroverso che a fronte del riconoscimento dell’ERS era stata assorbita una quota di superminimo esattamente corrispondente e che la pretesa diversa incidenza o peso delle due voci economiche (per essere
comprensiva anche dei riflessi sugli istituti di retribuzione diretta e indiretta ad eccezione del Tfr) prospettata dai lavoratori ma specificamente contestata da Telecom non era stata supportata da idonea prova.
Tanto premesso, e venendo al merito della pretesa azionata, occorre muovere dalla considerazione che, come noto, costituisce ‘ius receptum’ l’affermazione che il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è normalmente soggetto al principio dell’assorbimento nei successivi miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva, tranne che sia da questa diversamente disposto, o che le parti abbiano attribuito all’eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo, alla cui dimostrazione, alla stregua dei principi generali sull’onere della prova, è tenuto lo stesso lavoratore (Cass. n. 26017/2018, Cass. n. 14689/2012, Cass.19750/2008).
Non è revocabile in dubbio, inoltre, che la naturale assorbibilità del superminimo possa venir meno per effetto di diversa pattuizione, individuale o collettiva, o anche in conseguenza di un uso aziendale, vale a dire della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi). L’uso aziendale, che pe r costante affermazione del giudice di legittimità, appartiene al
novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che ove la modifica “in melius” del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell’uso aziendale, ad essa non si applica né l’art. 1340 cod. civ. – che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l’uso o di escluderlo – né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti – con esclusione, quindi, di un’indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati – né, comunque, l’art. 2077, comma secondo, cod. civ., con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica “in peius” del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 8342/2010, Cass. n. 5882/2010, Cass. n. 15489/2007); in conseguenza, salvaguardati i diritti quesiti, l’uso aziendale può essere modificato da un successivo accordo anche in senso peggiorativo per i lavoratori (Cass. n. 3296/2016).
In relazione a tale ultimo profilo, occorre considerare che la sentenza dà atto che nell’Accordo di programma difetta qualsiasi riferimento alla volontà aziendale di assorbire gli aumenti contrattuali e che non vi è alcun riferimento ad una disdetta del (contestato) uso aziendale ma ritiene comunque l’uso aziendale favorevole venuto meno con l’attuazione dell’Accordo di programma del 23.11.2017; a riguardo valorizza il rilievo che l’uso aziendale non potrebbe
comportare la vigenza sine die del trattamento migliorativo ‘rendendo perpetuo il vincolo obbligatorio, né cristallizza il presunto diritto del lavoratore a mantenere invariato nel tempo l’emolumento speciale percepito «perché l’uso aziendale è venuto meno nel momento in cui la società, a fronte degli aumenti salariali, ha deciso di disporre nuovamente dell’assorbimento contrattualmente pattuito, senza che a riguardo occorresse una specifica previsione o un espresso recesso, in quanto opera la regola generale dell’assorbimento del superminimo nei miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva, tranne che diversamente disposto ( cfr. Cass. n. 10945/2016)».
In base al ragionamento decisorio seguito dalla Corte, quindi, la parte datoriale ben potrebbe, a fronte di una diversa modulazione del trattamento economico del dipendente stabilito in sede collettiva, decidere di sottrarsi all’obbligo scaturente dall’uso aziendale e, quindi, in via unilaterale ‘ripristinare’ la facoltà di avvalersi del principio della normale assorbibilità del superminimo.
Il Collegio non ritiene conforme a diritto l’approdo al quale è pervenuta la sentenza impugnata.
In linea di principio, appare del tutto condivisibile l’affermazione che l’uso aziendale di non assorbibilità del superminimo non può vincolare ‘sine die’ la parte datoriale, impedendole a fronte di tutti i successivi rinnovi contrattuali, l’esercizio di u na facoltà comunque prevista nel contratto individuale. A riguardo può farsi utile riferimento a quanto statuito da questa Corte in tema di contratto collettivo senza un termine predeterminato di efficacia. Il giudice di legittimità ha infatti affermato che esso non può vincolare per sempre le parti contraenti perché in tal caso finirebbe per
essere vanificata la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione ve estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto la perpetuità del vincolo obbligatorio (così Cass. 23105/2019).
Invero, anche nel caso dell’uso aziendale, la cristallizzazione del vincolo da esso scaturente finirebbe per non essere funzionale alle esigenze di una realtà socioeconomica sulla quale l’uso aziendale è destinato ad incidere, per definizione mutevole nel tempo. Va quindi affermata, in linea di principio, la possibilità per la parte datoriale di ‘disdettare’ l’uso aziendale.
Tale possibilità, onde evitare che essa si traduca nella sottrazione al vincolo scaturente dall’uso, rimessa alla sostanziale discrezionalità del datore di lavoro, deve essere esercitata in conformità del principio di correttezza e buona fede ed in coerenza con le caratteristiche di fonte sociale pacificamente riconosciuta a tale strumento destinato ad operare quale fonte eteronoma di regolazione del rapporto di lavoro. Ciò implica, innanzitutto la necessità che la disdetta sia giustificata, vale a dire fondata su un sopravvenuto sostanziale mutamento di circostanze rispetto all’epoca di formazione dell’uso aziendale quali, ad esempio, una rimodulazione del trattamento economico dei dipendenti;
implica, inoltre, la necessità di una sua formalizzazione, mediante dichiarazione della parte datoriale che espliciti le ragioni alla base della ‘disdetta’ medesima, diretta alla collettività dei lavoratori. Viene qui in rilievo la considerazione della nat ura di fonte sociale dell’uso aziendale, destinata ad avere ricadute su interessi di carattere collettivo riferiti alla generalità dei lavoratori, i quali, per un’elementare esigenza di trasparenza e controllo, devono avere tempestiva ed adeguata conoscenza della volontà datoriale di ‘recedere’ dall’uso e delle ragioni che la sorreggono; ciò analogamente a quanto avviene di regola in ipotesi di disdetta del contratto collettivo mediante dichiarazione formale alla controparte sociale, contratto cui l’uso a ziendale è assimilato quale fonte di regolazione della generalità dei rapporti di lavoro.
In base alle considerazioni che precedono il primo motivo deve essere accolto per quanto di ragione.
La trattazione del secondo motivo resta assorbita trattandosi di una questione, sottesa allo stesso, non esaminata dalla Corte territoriale e che, quindi, dovrà essere rivalutata dall’investito giudice del rinvio.
In conclusione, il primo motivo deve essere accolto con assorbimento del secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio – per il riesame della fattispecie alla luce delle ragioni cassatorie – alla Corte di appello di Milano in diversa composizione. Alla Corte di rinvio è altresì demandato il regolamento delle spese di lite del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il primo motivo, assorbito il secondo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla
Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 marzo 2025