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Trattamento dati sanitari: i limiti del consenso

La Corte di Cassazione ha stabilito l’illegittimità del trattamento dati sanitari effettuato da un’azienda sanitaria locale. L’azienda aveva elaborato, tramite un algoritmo, i dati di migliaia di pazienti estratti dal Fascicolo Sanitario Elettronico per creare elenchi di soggetti vulnerabili. La Corte ha chiarito che il consenso prestato dal paziente per la consultazione del proprio FSE a fini di cura è strettamente individuale e non può essere esteso a operazioni di ‘stratificazione statistica’ su larga scala. Tale trattamento dati sanitari, che esula dalla finalità originaria, richiede una base giuridica autonoma e specifica, non ravvisabile nel semplice stato di emergenza pandemica. La Corte ha inoltre ribadito l’obbligo di effettuare una valutazione d’impatto (DPIA) per trattamenti così rischiosi.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

Trattamento Dati Sanitari: la Cassazione Fissa i Paletti per l’Uso del FSE

Il trattamento dati sanitari rappresenta uno degli ambiti più delicati della normativa sulla privacy. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali sui limiti all’utilizzo del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), stabilendo che il consenso del paziente per la cura non abilita le aziende sanitarie a condurre analisi massive sui dati per finalità diverse, come la stratificazione della popolazione a rischio. Questa decisione riafferma la centralità del principio di finalità e la responsabilità del titolare del trattamento.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un provvedimento sanzionatorio emesso dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali nei confronti di un’Azienda Sanitaria. Quest’ultima, in attuazione di una delibera regionale emanata durante l’emergenza pandemica, aveva effettuato un’operazione di trattamento dati sanitari su vasta scala.

Utilizzando un algoritmo, l’Azienda aveva estratto e rielaborato dati personali “in chiaro” (identificativi) di oltre 17.000 assistiti, provenienti sia dalle banche dati aziendali sia dai loro Fascicoli Sanitari Elettronici. L’obiettivo era creare elenchi di pazienti con particolari condizioni di complessità e comorbilità da fornire ai medici di medicina generale per consentire una gestione preventiva più efficiente, in particolare nel contesto della campagna vaccinale.

Il Garante aveva ritenuto tale trattamento illecito per mancanza di un’idonea base giuridica. Tuttavia, il Tribunale di primo grado aveva annullato la sanzione, qualificando l’operazione come un legittimo “trattamento secondario” compatibile con le finalità di cura e giustificato dallo stato di emergenza. L’Autorità Garante ha quindi proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Cassazione sul Trattamento Dati Sanitari

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Garante, cassando la sentenza del Tribunale e affermando principi fondamentali in materia di trattamento dati sanitari.

I Limiti del Consenso nel Fascicolo Sanitario Elettronico

Il punto centrale della decisione riguarda la natura del consenso per il FSE. La Corte ha ribadito che la liceità del trattamento dei dati contenuti nel FSE si fonda su un duplice e specifico consenso dell’assistito:
1. Il primo, per l’alimentazione del FSE con i propri dati.
2. Il secondo, per la consultazione dei dati e dei documenti da parte degli operatori sanitari per finalità di prevenzione, diagnosi e cura.

Questo secondo consenso, ha specificato la Corte, è strettamente legato alla cura del singolo individuo. Non può essere interpretato estensivamente per autorizzare un’elaborazione massiva e generalizzata dei dati di una pluralità di assistiti, finalizzata a creare nuovi elenchi tramite meccanismi di “stratificazione statistica”. Si tratta di una finalità nuova e diversa, non coperta dal consenso originario.

L’Errata Applicazione del “Trattamento Secondario”

La Cassazione ha giudicato errata la tesi del Tribunale secondo cui tale operazione fosse un lecito “trattamento secondario”. Mentre il GDPR consente, a certe condizioni, un ulteriore trattamento per fini di ricerca o statistica, nel caso del FSE la normativa nazionale e regolamentare è chiara: le finalità di governo e programmazione sanitaria devono essere perseguite utilizzando dati anonimi o pseudonimizzati, non dati identificativi “in chiaro”. L’operazione svolta dall’Azienda Sanitaria esulava completamente dai limiti imposti dalla legge.

Trattamento Dati Sanitari e Obbligo di Valutazione d’Impatto (DPIA)

Un altro punto qualificante della sentenza riguarda la Valutazione d’Impatto sulla Protezione dei Dati (DPIA), prevista dall’art. 35 del GDPR. La Corte ha stabilito che era obbligatoria prima di avviare questo tipo di trattamento dati sanitari. I criteri erano tutti presenti: si trattava di dati sensibili (sanitari), trattati su larga scala (oltre 17.000 persone) e con l’uso di nuove tecnologie (algoritmi per la stratificazione). Queste caratteristiche configurano un trattamento a rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone, per il quale la DPIA è un adempimento preventivo indispensabile a carico del titolare.

Le Motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che il principio di finalità è un pilastro del GDPR. Il consenso raccolto per uno scopo specifico – la cura individuale – non può essere utilizzato come una “carta bianca” per altri trattamenti, anche se mossi da intenzioni lodevoli come la salute pubblica. Ogni finalità deve avere la sua base giuridica appropriata. Inoltre, il contesto emergenziale della pandemia, sebbene rilevante, non sospende l’applicazione delle norme fondamentali sulla protezione dei dati. Le deroghe devono essere previste dalla legge e interpretate restrittivamente. Infine, l’Azienda Sanitaria, in qualità di titolare del trattamento, non poteva esimersi dalle proprie responsabilità semplicemente eseguendo una direttiva regionale, ma aveva il dovere di verificare la conformità del trattamento alla normativa europea e nazionale.

Le Conclusioni

La sentenza della Cassazione rappresenta un monito importante per tutte le entità del settore sanitario. Il trattamento dati sanitari, specialmente quelli provenienti dal FSE, deve avvenire nel rispetto più rigoroso dei principi di finalità, liceità e minimizzazione. Le operazioni di analisi su larga scala, anche se finalizzate a migliorare l’efficienza del sistema sanitario, non possono basarsi sul generico consenso alla cura, ma richiedono basi giuridiche specifiche e, nei casi di rischio elevato, devono essere precedute da una scrupolosa valutazione d’impatto. La tutela della privacy del paziente rimane un diritto fondamentale anche, e soprattutto, quando si utilizzano strumenti tecnologici avanzati.

Il consenso che un paziente dà per la consultazione del suo Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) a fini di cura permette all’azienda sanitaria di usare quei dati per analisi su larga scala?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che il consenso alla consultazione del FSE è strettamente limitato alla finalità di cura del singolo assistito. Non autorizza trattamenti diversi e ulteriori, come l’elaborazione dei dati di migliaia di pazienti per creare elenchi di soggetti a rischio tramite algoritmi.

Lo stato di emergenza pandemica può giustificare un trattamento di dati sanitari altrimenti non consentito?
Non automaticamente. La Corte ha affermato che lo stato di emergenza non è di per sé sufficiente a qualificare un trattamento come ‘necessario’ e a derogare ai principi fondamentali della privacy. Qualsiasi trattamento deve avere una base normativa chiara e specifica che ne definisca i presupposti, anche in un contesto emergenziale.

È obbligatorio effettuare una Valutazione d’Impatto sulla Protezione dei Dati (DPIA) quando si usano algoritmi per analizzare dati sanitari di molti pazienti?
Sì. Secondo la Corte, un trattamento che riguarda dati sanitari (dati sensibili) su larga scala e che impiega nuove tecnologie come gli algoritmi per la stratificazione della popolazione, presenta un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone. Di conseguenza, è obbligatorio per il titolare del trattamento effettuare una DPIA prima di iniziare tali operazioni, come previsto dall’art. 35 del GDPR.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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