Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 3293 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 3293 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 05/02/2024
SENTENZA
sul ricorso 3023-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME , elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 506/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 12/07/2018 R.G.N. 560/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2024 dal AVV_NOTAIO;
R.G.N. 3023/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 10/01/2024
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale AVV_NOTAIO. NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME; udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale dell’ avvocato NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Vasto, in parziale accoglimento del ricorso proposto da COGNOME NOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE), dichiarò che la lavoratrice aveva svolto in favore della società ‘una prestazione lavorativa subordinata rispettando un orario di lavoro full time , con conseguente condanna della società RAGIONE_SOCIALE alla corresponsione delle differenze retributive medio tempore maturate oltre alla regolarizzazione della posizione contributi va omessa’.
Interposto gravame da entrambe le parti, la Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza qui impugnata, ha così disposto: ‘accoglie per quanto di ragione l’appello della RAGIONE_SOCIALE e, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna la predetta società al pagamento, in favore di COGNOME NOME e per i titoli di cui il motivazione, delle differenze retributive maturate dal 13.06.2009 in poi, in misura pari alla differenza tra quanto percepito dalla lavoratrice in detto periodo (anche a titolo di assegno ad personam ) e quanto avrebbe percepito nel medesimo periodo in regime di orario full-time , oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dì del dovuto sino al soddisfo; accoglie l’appello proposto da COGNOME NOME e, per l’effetto: – dichiara la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a decorrere dal 24.02.2017; –
condanna la RAGIONE_SOCIALE a risarcire i danni subìti dalla lavoratrice per la maggiore onerosità della prestazione derivante dalla più ampia disponibilità di orario che ha dovuto assicurare, in misura che si liquida all’attualità nella misura del 10% della differenza tra la retribuzione percepita (comprensiva dell’assegno ad personam ) e quella prevista per il contratto a tempo pieno, dal 13.06.2009 alla data odierna’.
3. La Corte, in sintesi, ha respinto il primo motivo di appello della società – con cui si censurava la pronuncia di primo grado ‘nella parte in cui ha ritenuto la sussistenza dei presupposti per la conversione del rapporto in rapporto fulltime e per il riconoscimento delle correlate differenze retributive’ – sulla base di una pluralità di argomenti, concludendo nel senso che ‘deve ritenersi dunque provato che, nel suo concreto svolgimento, il rapporto di lavoro intercorso tra le parti, avendo costantemente travalicato i limiti contrattuali posti alla prestazione del lavoro supplementare, si sia in realtà atteggiato come un rapporto di lavoro a tempo pieno l’insieme delle circostanze sopra accertate, dimostra, infatti, il costante interesse del datore di lavoro a ricevere e del lavoratore a fornire una prestazione lavorativa con orario a tempo pieno, sin da un momento immediatamente successivo la stipula del contratto, e quindi il mutamento della volontà contrattuale delle parti in punto di orario di lavoro, da cui deve conseguire la trasformazione del rapporto in relazione all’aspetto dell’orario, da orario a tempo parziale a orario a tempo pieno’.
4. La Corte ha, invece, accolto parzialmente le altre censure della società avverso quella parte della sentenza gravata in cui era stata disposta la condanna dell’appellante al pagamento di tutte le ‘differenze retributive medio tempore maturate’ (quindi con efficacia ex tunc ); ha, infatti, rilevato
che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 61/2000, la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno può essere dichiarata solo ‘a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale’ (quindi con efficacia ex nunc ), ma che, per la medesima disposizione, ‘per il periodo antecedente la data della pronuncia della sentenza, il lavoratore ha diritto’ comunque ‘alla retribuzione dovuta’, oltre che alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa’; ne ha fatto derivare la sussistenza dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro, nei limiti della prescrizione quinquennale, a partire dal 13 giugno 2009, ‘in misura pari alla differenza tra quanto percepito dalla lavoratrice in detto periodo (anche a titolo di assegno ad personam ) e quanto avrebbe percepito nel medesimo periodo in regime di orario full time ‘.
Passando ad esaminare i motivi di appello della lavoratrice, la Corte territoriale, constatata l’omissione di una esplicita pronuncia sul punto della sentenza di prime cure, ha dichiarato la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno tra le parti a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale, e, in accoglimento della domanda di risarcimento del danno per il periodo antecedente la data della pronuncia della sentenza, la Corte di Appello, con valutazione equitativa, lo ha ‘liquidato (all’attualità) nella misura del 10% della differenza tra la retribuzione percepita (comprensiva dell’assegno ad personam ) e quella prevista per il contratto a tempo pieno, dalla data della maturazione del diritto (e cioè dal 13.06.2009, tenuto conto dell’operatività della prescrizione estintiva quinquennale) alla data della sentenza’.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimata.
Nell’adunanza camerale del 12 aprile 2023 il Collegio ha ritenuto che non sussistessero i presupposti per la trattazione in camera di consiglio e ha rinviato la causa a nuovo ruolo per la rimessione in pubblica udienza.
La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378
c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la società denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 1, comma 2, lett. a-b), 2, comma 2, 3, comma 2 e 8, comma 2, d. lgs. n. 61 del 2000, e all’art. 21 del CCNL RAGIONE_SOCIALE; si critica diffusamente la sentenza impugnata per molteplici profili: per avere accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno pur in presenza di un numero di ore lavorate che, sommate alle ore di lavoro supplementare, non arrivano al numero di ore previste per il contratto full-time ; per avere erroneamente applicato la norma di cui all’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, in quanto tale disposizione si riferisce al caso di mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto part-time delle indicazioni relative alla durata della prestazione lavorativa, mentre nel caso di specie l’estensione temporale della prestazione lavorativa era stata indicata e ciò che mancava era la collocazione temporale dell’orario; per avere dichia rato la conversione del contratto part-time sulla base del superamento del limite di 150 ore annue previsto dal CCNL per lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare, nonostante l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 61/2000 non preveda tale conseguenza ma lasci alla
contrattazione collettiva stabilire le conseguenze in caso di superamento del limite, e che l’art. 21 del CCNL RAGIONE_SOCIALE non stabilisce alcuna sanzione nel caso di superamento delle ore di lavoro supplementare.
Il motivo non può trovare accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
2.1. Sin da Cass. n. 8904 del 1996 è stato chiarito da questa Corte che ‘una volta accertato che, nonostante la stipulazione di un contratto di lavoro part-time , le concrete modalità di svolgimento del rapporto sono state quelle tipiche del tempo pieno, la determinazione delle spettanze del lavoratore in relazione ai vari istituti retributivi non può che risultare conforme a questa realtà’, atteso che la trasformazione da un contratto part-time ad un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno non è assoggettata a vincoli formali e procedimentali, avendo ‘il legislatore reso palese, da un lato, l’indubbio favore verso il lavoro a tempo pieno, e, dall’altro, il rilievo determinante da riconoscere al criterio dell’effettività come fonte dell’individuazione del trattamento dovuto al lavoratore’; sicché, nel rapporto di lavoro, ove sia accertato che la prestazione si è effettivamente svolta secondo determinate modalità, opera il ‘principio di corrispondenza del trattamento del lavoratore all’effettiva consistenza del proprio impegno’, allorquando si tratti ‘di riconoscere i diritti del prestatore di lavoro per la propria attività, in quanto ciò che risulta decisivo non è il negozio costitutivo del rapporto, ma il rapporto nella concreta attuazione dalla quale sorgo no siffatti diritti’ (nella specie, la sentenza richiamata ha ritenuto coerente che i giudici del merito si fossero avvalsi delle prove dedotte dal lavoratore per provare le reali modalità di esecuzione della prestazione, pur senza negare validità formale alla stipulazione di un contratto di lavoro part-time , che, sebbene stipulato in
conformità alle prescrizioni di legge, non ebbe poi concreta attuazione, così da non poter costituire fonte della disciplina del rapporto, in applicazione del suesposto criterio di effettività).
Sulla scorta di tali assunti si è sviluppata una consolidata giurisprudenza la quale ha sempre ammesso che, “in base alla continua prestazione di un orario di lavoro pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro nato come a tempo parziale possa trasformarsi in un rapporto di lavoro a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno” (cfr. Cass. n. 5520 del 2004; v. pure: Cass. n. 3228 del 2008, Cass. n. 6226 del 2009); si è altresì precisato che “risulta del tutto inutile ogni discussione in ordine alla possibilità di riscontrare o meno una volontà novativa della parti, una volta che sia stata dimostrata la costante effettuazione di un orario di lavoro prossimo a quello stabilito per il lavoro a tempo pieno e del pari inconferente il richiamo alla disciplina codicistica in tema di conversione del contratto nullo” (cfr. Cass. n. 25891 del 2008; conf. Cass. n. 17774 del 2011).
Ancora di recente, quindi, è stato ribadito come la continuativa prestazione di un orario corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno possa determinare che la trasformazione da un originario part-time ad un full-time si sia verificata ‘per fatti concludenti’ (Cass. n. 8658 del 2019; Cass. n. 20209 del 2019; v. anche, nel vigore del d. lgs. n. 61 del 2000, Cass. n. 31342 del 2018).
Naturalmente, poiché si tratta di indagare una comune volontà negoziale, sebbene realizzata attraverso la forma di comportamenti concludenti, il relativo accertamento è
demandato al giudice del fatto (Cass. n. 3228 del 2008; Cass. n. 6226 del 2009, la quale precisa anche che il mero superamento del tetto delle ore previste per il tempo parziale non determina automaticamente la trasformazione); detto accertamento può essere sindacato innanzi a questa Corte nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto (tra molte, v. Cass. n. 29781 del 2017).
Una volta acclarato, secondo il convincimento espresso dai giudici del merito, che il contratto part-time si è trasformato in un rapporto di lavoro a tempo pieno per facta concludentia , non vi è più spazio per applicare la disciplina, anche sanzionatoria, prevista dalle diverse leggi che si sono succedute per regolare il contratto a tempo parziale, in quanto tale trasformazione opera non per fonte legale ma per volontà consensuale delle parti; con la conseguenza che i diritti che derivano al prestatore sono quelli che nascono da un ordinario rapporto di lavoro oramai divenuto a tempo pieno, atteso che – per dirla con Cass. n. 8904 del 1996 ‘la determinazione delle spettanze del lavoratore in relazione ai vari istituti retributivi non può che risultare conforme a questa realtà’.
2.2. Il Collegio intende confermare e ribadire gli esposti principi, che consentono di disattendere le censure prospettate col primo mezzo di impugnazione.
La Corte territoriale, nel respingere il motivo di gravame con cui la società lamentava che la COGNOME non avesse mai ‘effettuato un numero di ore lavorate corrispondente ad un regime di tempo pieno’, ha richiamato proprio la giurisprudenza di legittimità cui si è fatto cenno, argomentando in fatto che, da un insieme di circostanze accertate (la prestazione di un numero di ore lavorative ben superiore a quello contrattualmente stabilito, peraltro in mancanza di una specificazione nel contratto individuale
della collocazione oraria, unitamente alla prova testimoniale comprovante ‘orari sostanzialmente coincidenti a quelli osservati in regime di full-time ‘), risultava dimostrato ‘il costante interesse del datore di lavoro a ricevere e del lavoratore a fornire una prestazione lavorativa con orario a tempo pieno, sin da un momento immediatamente successivo la stipula del contratto, e quindi il mutamento della volontà contrattuale delle parti in punto di orario di lavoro, da cui deve conseguire la trasformazione del rapporto in relazione all’aspetto dell’orario, da orario a tempo parziale a orario a tempo pieno’.
Tale accertamento di fatto, che involge apprezzamenti di merito, non è suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità con censure che evocano l’errore di diritto di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. attraverso una diversa ricostruzione e valutazione degli accadimenti che hanno dato origine alla controversia.
3. Da quanto precede deriva che non può essere accolto neanche il secondo motivo di ricorso, condizionato al mancato accoglimento del primo, laddove si denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 8, comma 2, d. lgs. n. 61 del 2000; si critica la sentenza in ordine alla statuizione di condanna al pagamento delle differenze retributive, ritendo che la Corte avrebbe errato nel riconoscere alla dipendente le differenze retributive maturate dal 13.06.2009 invece che dal 24.02.2017; viene censurato, poi, l’errore della Corte territoriale che avrebbe condannato la società alla corresponsione di differenze retributive, senza che la lavoratrice avesse messo a disposizione della medesima le proprie energie lavorative anche per le ore non lavorate.
Invero, pur avendo la Corte territoriale, quanto alle conseguenze dell’accertamento effettuato, erroneamente
dato applicazione all’art. 8 del d. lgs. n. 61 del 2000, la statuizione contenuta nel dispositivo di condanna della società al pagamento delle differenze retributive ‘maturate dal 13.6.2009 in poi, in misura pari alla differenza tra quanto percepito dalla lavoratrice in detto periodo (anche a titolo di assegno ad personam ) e quanto avrebbe percepito nel medesimo periodo in regime di orario full-time ‘, è conforme al diritto (cfr. art. 384, u.c., c.p.c.).
Infatti, una volta ritenuto che al momento in cui è cessato l’effetto estintivo della prescrizione (13.6.2009) il rapporto tra le parti, per comune volontà, non era più un part-time , ma si era trasformato già in un ordinario rapporto full-time , sono dovute le differenze retributive parametrate al tempo pieno, a prescindere da qualsivoglia messa in mora che è richiesta, invece, nel diverso caso in cui sia dichiarata la nullità del contratto part-time per difetto dei requisiti di contenuto o forma (cfr. Cass. n. 14797 del 2019).
Consegue coerente, piuttosto, l’accoglimento del terzo mezzo di ricorso, anch’esso proposto in via subordinata, con cui è denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 8, commi 2 e 2 -bis, d. lgs. n. 61 del 2000, lamentando che la Corte territoriale abbia riconosciuto in favore della lavoratrice un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno.
Accertata la trasformazione del contratto in un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno per concludente volontà comune delle parti, non può trovare applicazione -per quanto detto l’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 8 del d. lgs. n. 61 del 2000 nella parte in cui si occupa delle diverse ipotesi di vizi formali genetici del contratto (il comma 1 per il caso di difetto di prova scritta in ordine alla stipulazione a tempo parziale; il comma 2 per il caso di omissione, nel contratto scritto, della durata della
prestazione lavorativa, ovvero della collocazione temporale dell’orario); solo in tali casi il lavoratore, per il periodo precedente la sentenza che accerta il vizio, ha diritto al risarcimento del danno, in aggiunta alla retribuzione dovuta, ma non quando il medesimo, tramite comportamento concludente, ha prestato adesione alla trasformazione in un rapporto di lavoro full-time , maturando il diritto a percepire il relativo trattamento retributivo.
In conclusione, respinti i primi due motivi di ricorso, deve essere accolto il terzo, con cassazione della sentenza impugnata in relazione alla censura ritenuta fondata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito (cfr. art. 384, comma 2, ult. parte, c.p.c.), respingendo la pretesa della COGNOME di vedersi riconoscere somme a titolo di risarcimento del danno ai sensi dell’ar t. 8 del d. lgs. n. 61 del 2000 e liquidate in via equitativa dalla Corte di Appello di L’Aquila.
In forza del cd. effetto espansivo, la cassazione anche parziale della sentenza si estende e, quindi, travolge la statuizione sulle spese e poiché questa Corte ha deciso nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., occorre provvedere alla liquidazione delle spese dell’intero giudizio ( ex multis , Cass. n. 6938 del 2003).
Il Collegio ritiene di poter confermare le statuizioni sulle spese contenute nelle sentenze di primo grado (laddove la condanna della società aveva già tenuto conto che non era stata accolta la pretesa attorea circa il risarcimento del danno) e di appello (che ha provveduto già a compensare per la metà le spese del grado, in considerazione della reciproca soccombenza sulle contrapposte impugnazioni, ponendo solo le residue a carico della società).
Quanto al giudizio di legittimità, l’accoglimento solo parziale del ricorso per cassazione e la prevalente soccombenza della
società, unitamente alla peculiarità della fattispecie che ha dato luogo ad esiti alterni, giustifica la compensazione integrale.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovute le somme di cui alla condanna al risarcimento del danno pronunciata dalla Corte di Ap pello di L’Aquila nei confronti della RAGIONE_SOCIALE in favore di COGNOME NOME.
Condanna la RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle spese di primo e di secondo grado in misura eguale a quanto già liquidato dai giudici del merito; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 gennaio