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Tolleranza datoriale: non annulla il divieto di fumo

Un dipendente, licenziato per aver fumato in un’area aeroportuale vietata, era stato reintegrato dai giudici di merito a causa della tolleranza datoriale verso questa pratica diffusa. La Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, stabilendo che la semplice tolleranza datoriale non è sufficiente a rendere lecita una condotta che il lavoratore sapeva essere vietata. Per escludere la responsabilità, è necessario dimostrare un errore incolpevole e inevitabile sulla liceità del comportamento, cosa che la Corte d’Appello non aveva accertato. Il caso è stato rinviato per un nuovo esame.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Tolleranza Datoriale: l’Inerzia del Datore Non Rende Lecito il Divieto

L’ordinanza in esame affronta un tema cruciale nel diritto del lavoro: fino a che punto la tolleranza datoriale può influire sulla legittimità di una sanzione disciplinare? La Corte di Cassazione, con una decisione netta, chiarisce che l’inerzia del datore di lavoro di fronte a una violazione diffusa non cancella l’illiceità della condotta del singolo dipendente, specialmente se quest’ultimo è pienamente consapevole del divieto.

I Fatti del Caso

Un lavoratore di una società di logistica aeroportuale veniva licenziato per giusta causa dopo essere stato sorpreso a fumare, insieme a dei colleghi, in un’area ‘air-side’ dove vigeva un esplicito divieto. Il dipendente impugnava il licenziamento.

Sia in primo grado che in appello, i giudici davano ragione al lavoratore. Pur riconoscendo che il dipendente era consapevole del divieto, le corti di merito sottolineavano come l’azienda avesse sempre tollerato tale comportamento. La pratica di fumare in quell’area era così diffusa, anche tra i superiori diretti del lavoratore, e l’assenza di cartelli di divieto in quella zona specifica, induceva a ritenere l’illecito disciplinare insussistente. Di conseguenza, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo e veniva ordinata la reintegrazione del dipendente.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla Tolleranza Datoriale

La società datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando, tra i vari motivi, l’errata applicazione delle norme che regolano la responsabilità disciplinare. Il motivo principale, accolto dalla Corte, riguardava proprio il valore attribuito alla tolleranza datoriale.

La Suprema Corte ha ribaltato la prospettiva dei giudici di merito. Ha stabilito che l’esistenza pacifica di un divieto di fumo e la piena consapevolezza di tale divieto da parte del lavoratore sono elementi centrali. In questo contesto, l’eventuale tolleranza manifestata dall’azienda non è, da sola, sufficiente a eliminare l’antigiuridicità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né soggettivo.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che, per escludere la responsabilità del lavoratore, non basta la semplice inerzia o la mancata reazione del datore di lavoro. È necessario che si verifichino elementi ulteriori, capaci di generare nel trasgressore una ‘incolpevole convinzione’ sulla liceità del proprio comportamento. In altre parole, l’errore del dipendente deve essere inevitabile e non frutto di negligenza.

Il lavoratore non può semplicemente ‘approfittare’ della mancata repressione da parte dell’azienda per violare una regola che sa esistere. La Corte d’Appello, secondo la Cassazione, ha sbagliato a non indagare se il dipendente avesse agito in buona fede, facendo tutto il possibile per rispettare il divieto, o se, al contrario, avesse scientemente tratto vantaggio dalla lassità aziendale. La tolleranza può essere un indizio, ma non è la prova definitiva che trasforma un comportamento illecito in lecito.

Per queste ragioni, la sentenza d’appello è stata cassata con rinvio. La Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, dovrà riesaminare il caso attenendosi a questo principio: la tolleranza datoriale non è un’automatica causa di giustificazione.

Conclusioni

Questa ordinanza offre un importante monito sia per i datori di lavoro che per i dipendenti. Per le aziende, sottolinea il rischio che un’eccessiva lassità nel far rispettare le regole interne possa, in alcuni contesti, indebolire la propria posizione disciplinare. Tuttavia, per i lavoratori, il messaggio è ancora più chiaro: essere a conoscenza di una regola e violarla confidando nell’inerzia del datore non è una strategia sicura. La responsabilità personale per la violazione di un divieto noto rimane, a meno che non si possa dimostrare un errore genuino e non colpevole sulla sua effettiva vigenza, una prova tutt’altro che semplice da fornire.

La tolleranza del datore di lavoro verso una violazione rende lecita la condotta del dipendente?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che la mera tolleranza non è di per sé sufficiente a far venire meno l’antigiuridicità (l’illiceità) di una condotta, specialmente quando il dipendente è consapevole del divieto.

In quali casi un dipendente può essere scusato per aver violato un divieto aziendale?
L’errore del dipendente sulla liceità della propria condotta può escludere la sua responsabilità solo quando tale errore è ‘incolpevole’ e ‘inevitabile’. Ciò richiede la presenza di elementi ulteriori, estranei al dipendente, che abbiano generato in lui la convinzione non negligente che il comportamento fosse permesso.

Cosa significa che il fatto contestato al lavoratore è ‘insussistente in senso giuridico’?
Significa che, sebbene il comportamento materiale (ad esempio, fumare) sia avvenuto, mancano gli elementi giuridici per qualificarlo come un illecito disciplinare sanzionabile. Nel caso specifico, i giudici di merito avevano concluso per l’insussistenza giuridica a causa della tolleranza aziendale, ma la Cassazione ha ritenuto questo ragionamento errato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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