Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18612 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 18612 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/07/2024
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
Presidente
–
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
AVV_NOTAIO rel. –
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
AVV_NOTAIO –
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
AVV_NOTAIO –
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
AVV_NOTAIO –
ORDINANZA
sul ricorso 21094-2018 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Commissario Straordinario legale rappresentante pro tempore , domiciliata ope legis in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA RAGIONE_SOCIALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, con diritto di ricevere le comunicazioni all’indirizzo pec dei Registri di Giustizia;
– ricorrente –
contro
Oggetto: Pubblico impiego – retribuibilità tempi vestizione personale sanitario
COGNOME NOME, ADESSO NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– controricorrenti –
avverso depositata il 12/04/2018 R.G.N. 1619/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio 04/04/2024 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO.
la sentenza n. 753/2018 della CORTE D’APPELLO di RAGIONE_SOCIALE, del
RILEVATO CHE
Gli odierni ricorrenti, infermieri, ausiliari specializzati o operatori sanitari presso il presidio ospedaliero di Altamura, con separati ricorsi poi riuniti, esponevano che la RAGIONE_SOCIALE li obbligava all’utilizzo di una divisa, consistente in un pantalone ed una maglia, per finalità non solo distintive ma anche igienico-sanitarie, e metteva loro a disposizione uno spogliatoio. Asserivano, quindi, di non aver ricevuto alcuna retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e vestizione, che invece doveva essere considerato quale tempo di messa a disposizione delle energie lavorative, e lo quantificavano secondo conteggi analitici allegati.
Il Tribunale di Bari, espletata una prova testimoniale, a mezzo di alcuni testi (di cui uno anche ricorrente in uno dei giudizi poi riuniti) accoglieva i ricorsi e condannava la RAGIONE_SOCIALE al pagamento di 10 minuti aggiuntivi in entrata e in uscita, oltre l’orario ordinario del turno di lavoro, quale tempo per indossare e dismettere la divisa di lavoro, secondo la quantificazione operata dai ricorrenti.
Decidendo sull’impugnazione proposta dall’RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’appello di Bari, effettuato un approfondimento istruttorio, confermava la pronuncia di primo grado.
Riteneva accertato che tutto il personale appartenente alle tre categorie per cui è causa era obbligato dall’ RAGIONE_SOCIALE ad indossare una divisa, fornita dalla stessa, consistente in casacca e pantaloni, con un cartellino identificativo di colore diverso a seconda della categoria, e ciò ‘per motivi di igiene e di riconoscibilità’.
La divisa non comprendeva le calzature, ed era custodita nello spogliatoio messo a disposizione dalla RAGIONE_SOCIALE e sito nel piano interrato dell’Ospedale di Altamura.
Gli appellanti prima indossavano tale divisa e poi andavano a timbrare per iniziare il loro turno di lavoro; così, al termine dell’orario, prima timbravano e poi si recavano nell’interrato per spogliarsi e fare anche una doccia, se lo desiderano, negli impianti ivi esistenti.
Richiamava il contenuto dell’art. 11 del CCNL 20 16-2018, sopravvenuto in corso di causa, che aveva espressamente previsto l’obbligo di indossare le divise e fino a 10 minuti di tempo per tale attività.
Riteneva immune da censure la quantificazione dei tempi di vestizione e di svestizione in una decina di minuti, o qualcosa di più per la fase di svestizione.
Tanto premesso in punto di fatto, richiamava l’art. 3 del R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692 secondo cui: «è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa» nonché l’art. 1, comma 2, del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), che definisce ‘orario di lavoro’ « qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni ».
Riteneva, nella specie, sussistente un obbligo preparatorio alla effettiva prestazione lavorativa, da considerare però come di natura puntuale e non già come avente una estensione nel tempo perché non trova prescrizioni quanto alla sua durata, e si sottrae sotto questo aspetto a qualunque verifica da parte del datore (cfr. Cass. 8 settembre 2006, n. 19273).
Assumeva che al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva. Richiamava al riguardo Cass. n. 19358/2010, Cass. n. 9215/2012 ed ancora Cass. n. 1352/2016.
Considerava, inoltre, la speciale disciplina prevista dalla vigente legislazione sanitaria, in base alla quale il personale sanitario in servizio nei presidi ospedalieri è tenuto ad indossare appositi indumenti da lavoro (camici, grembiuli, guanti, scarpe, cuffiette, mascherine), variabili in base alla specifica attività svolta (generica cura, assistenza e consulenza nosocomiale o ambulatoriale; cura, movimentazione ed igiene del paziente; visita medico-sanitaria; intervento chirurgico; assistenza infermieristica alle varie tipologie di attività medico-chirurgica) ed aventi, nei casi in cui tali attività espongano gli operatori a rischio di esposizione ad agenti patogeni o a radiazioni, natura di dispositivi di protezione individuale ex d.lgs. n. 81/2008.
Concludeva affermando che il tempo occorrente per lo svolgimento delle prestazioni complementari (tipo appunto il cambio divisa) deve essere retribuito, rientrando direttamente nel concetto di orario di lavoro.
Riteneva, in relazione a tale tempo, sussistente la eterodirezione anche se l’attività relativa a dette operazioni avveniva rispettivamente prima della timbratura in entrata e dopo la timbratura in uscita.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la RAGIONE_SOCIALE con tre motivi.
I lavoratori hanno resistito con controricorso, successivamente illustrato da memoria.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 2967 cod. civ., 116 e 251 cod. proc. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Censura la sentenza per aver omesso di pronunciare sulla nullità della deposizione testimoniale raccolta in primo grado, stante l’interesse del testimone alla causa, nullità che avrebbe reso del tutto priva di prova la domanda avanzata, così da rendere del tutto illegittima l’integrazione della prova effettuata nel giudizio di secondo grado (‘ma addirittura ha salvato parte ricorrente, consentendole di ripetere la prova’).
2. Il motivo è inammissibile.
Non è chiara, infatti, la sequenza processuale e non si evince in relazione a quali testi siano state formulate le eccezioni di nullità per incapacità a testimoniare.
Inoltre, manca ogni riferimento relativo alla reiterazione dell’eccezione dopo l’assunzione della prova.
Come da questa Corte di recente affermato: ‘La parte che ha tempestivamente formulato l’eccezione di nullità della testimonianza, in quanto resa da un teste che assume essere incapace, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l’eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d’impugnazione’ (cfr. Cass. Sez. Un., 6 aprile 2023, n. 9456).
Il principio riprende quello già enunciato da Cass., Sez. Un., 13 gennaio 1997, secondo cui: ‘Le nullità concernenti l’ammissione e l’espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico, bensì nell’esclusivo interesse delle parti e, pertanto, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice ma, ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi (o alla conoscenza delle nullità stesse), intendendosi per istanza, ai fini della norma citata, anche la richiesta di un provvedimento ordinatorio di mero rinvio e la formulazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado; con la conseguenza che dette nullità non possono essere fatte valere in sede di impugnazione, per cui neppure alla
parte contumace è consentito dedurre in tale sede l’inammissibilità della prova testimoniale per limiti di valore e l’incapacità dei testimoni, una volta che in primo grado la prova sia stata ammessa ed espletata senza opposizione’.
Con il secondo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 345 e 437 cod. proc. civ. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
Censura l’operato della Corte d’appello che ha disposto un ‘approfondimento istruttorio’ mediante l’ assunzione della prova testimoniale nonostante l’opposizione dell’appellante e senza considerare le censure sulla inammissibilità e inutilizzabilità delle prove.
Anche questo motivo è inammissibile come il precedente.
La Corte d’appello ha disposto l’assunzione di una prova, nonché la rinnovazione parziale dell’assunzione già avvenuta in primo grado e tanto al sol fine di giungere alla verità processuale, adempiendo correttamente e legittimamente ad un proprio onere.
Da tempo questa Corte ha affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che costituisce legittimo uso dei poteri istruttori riservati al giudice nel rito del lavoro, il nuovo esame in grado d’appello di un teste ( cfr. Cass. 25 marzo 1998 n. 3166).
Quanto, poi, all’incapacità, in nessuna parte del ricorso si allega che subito dopo l’escussione del teste da parte del giudice d’appello l’eccezione sia stata sollevata (si fa solo riferimento all’opposizione prima dell’assunzione).
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 RDL n. 692/1923, e 1, comma, lett. A), d.lgs. n. 66/2003 in tema di orario di lavoro.
Censura la sentenza impugnata per aver confuso la mera circostanza di fatto, che i lavoratori ascoltati in appello avevano affermato, di indossare gli indumenti di lavoro prima della timbratura con un circostanziato ed
essenziale elemento di diritto e cioè che vi fosse l’imposizione di tale obbligo.
Rileva che in nessuno degli atti prodotti tale obbligo risultava.
6. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha tratto l’obbligatorietà , oltre che dalle prove testimoniali, anche dal fatto della messa a disposizione da parte dell’azienda di armadietti nel piano interrato ove i dipendenti accedevano prima di timbrare e poi dalla sussistenza di ragioni di igiene connesse allo svolgimento di attività in ambiente ospedaliero.
L’eterodirezione può risultare anche in modo implicito dalla natura e dalla funzione dell’abbigliamento necessario per svolgere la prestazione lavorativa (Cass. 28 marzo 2018, n. n. 7738).
È sufficiente richiamare Cass. 24 maggio 2018, n. 12935 secondo cui in materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica, nel silenzio della contrattazione collettiva (nella specie, c.c.n.l. comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione, al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto ed ancora C ass. 8 luglio 2021, n. 32477 che, richiamando plurimi precedenti di questa Corte (Cass. n. 8627 del 2020; n. 17635 del 2019; n. 18559 del 2019; n. 3901 del 2019; n. 12935 del 2018; n. 27799 del 2017) ha ribadito che l’attività di vestizione attiene a comportamenti integrativi dell’obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, altresì, attività svolta non (o non soltanto) nell’interesse della struttura sanitaria, ma dell’igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene e, pertanto, dà diritto alla retribuzione anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, in quanto, proprio per le peculiarità che connotano detta attività, deve ritenersi implicitamente autorizzata da parte dell’azienda sanitaria. In detta più recente pronuncia si è precisato che tali
affermazioni non si pongono in contrasto con quanto affermato da questa Suprema Corte con la sentenza n. 9215 del 2012, secondo cui, ‘nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (cd. tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo’, e ciò in quanto gli arresti più recenti rappresentano uno sviluppo di quello precedente, or ora citato, ponendo l’accento sulla ‘funzione assegnata all’abbigliamento, nel senso che la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere’, per obbligo imposto, lo si ripete, dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio sanitario pubblico ed alla stessa incolumità del personale addetto; va poi sottolineato che l’orientamento giurisprudenziale di legittimità è saldamente ancorato al riconoscimento dell’attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell’orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell’inizio e dopo la fine del turno. Tale soluzione, del resto, è stata ritenuta in linea con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C -266/14; v. Cass. n. 1352/2016…), (così, in particolare, Cass. n. 17635/2019 cit.).
Da tanto consegue che il ricorso deve essere respinto.
La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., S.U., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 7.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%, con distrazione in favore dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P .R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 4 aprile 2024.