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Tempo di viaggio: quando è orario di lavoro retribuito

La Cassazione stabilisce che il tempo di viaggio dei tecnici dal deposito aziendale al primo cliente rientra nell’orario di lavoro retribuito. Una clausola contrattuale che introduce una franchigia non retribuita è nulla e il giudice deve quantificare il dovuto anche se la prova dell’esatto ammontare non è fornita dal lavoratore.

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Pubblicato il 28 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Tempo di viaggio: è orario di lavoro? La Cassazione chiarisce

Una delle domande più frequenti nel diritto del lavoro, specialmente per i lavoratori ‘on field’ come tecnici e manutentori, è se il tempo di viaggio per raggiungere il primo cliente della giornata debba essere retribuito. Con l’ordinanza n. 16769/2024, la Corte di Cassazione torna sul tema, offrendo principi chiari sulla nullità degli accordi aziendali peggiorativi e sul diritto alla retribuzione anche in assenza di una prova millimetrica dei tempi impiegati.

I Fatti del Caso

Alcuni tecnici manutentori, dipendenti di una grande azienda di telecomunicazioni, avevano il compito di prelevare ogni mattina l’automezzo aziendale da un deposito, recarsi presso i clienti per gli interventi e, a fine giornata, riportare il veicolo al deposito. Fino al 2013, il tempo impiegato per il tragitto dal deposito al primo cliente e dall’ultimo cliente al deposito era considerato e retribuito come orario di lavoro.

Successivamente, un accordo sindacale aziendale ha modificato le regole: l’orario di lavoro sarebbe iniziato solo all’arrivo presso il primo cliente e terminato alla fine dell’ultimo intervento. L’accordo introduceva una ‘franchigia’ di 30 minuti giornalieri (15 per l’andata e 15 per il ritorno), non retribuita, per questi spostamenti. I tempi venivano monitorati tramite un sistema di geolocalizzazione sul mezzo aziendale.
Ritenendo questa clausola nulla perché in contrasto con la normativa sull’orario di lavoro, i lavoratori si sono rivolti al Tribunale.

Il Percorso Giudiziario e la questione del tempo di viaggio

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione ai lavoratori su un punto fondamentale: la clausola dell’accordo che introduceva la franchigia era nulla. Il tempo di viaggio in questione, infatti, non è un semplice tragitto casa-lavoro, ma uno spostamento funzionale alla prestazione, effettuato con un mezzo aziendale e sotto il controllo del datore di lavoro (eterodiretto). Come tale, rientra a pieno titolo nella nozione di orario di lavoro.

Tuttavia, entrambe le corti di merito hanno respinto la richiesta di pagamento delle differenze retributive. La motivazione? I lavoratori non avevano fornito una prova specifica e dettagliata, giorno per giorno, dei minuti esatti di viaggio, e i giudici hanno ritenuto di non poter procedere a una liquidazione in via equitativa.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, investita del caso, ha esaminato sia il ricorso dell’azienda (incidentale) sia quello dei lavoratori (principale), arrivando a una conclusione che ribalta la decisione d’appello.

L’inammissibilità delle pretese aziendali

L’azienda sosteneva che, se la clausola sulla franchigia era nulla, allora l’intero accordo aziendale doveva cadere, rendendo inammissibile la richiesta dei lavoratori. La Cassazione ha respinto questa tesi, applicando il principio della ‘sostituzione automatica di clausole’ (art. 1419 e 1339 c.c.). Quando una clausola contrattuale viola una norma imperativa di legge, essa non rende nullo l’intero contratto, ma viene semplicemente sostituita di diritto dalla norma stessa. In questo caso, la definizione legale di orario di lavoro si sostituisce alla clausola nulla, preservando il resto dell’accordo.

L’accoglimento delle ragioni dei lavoratori

Il punto cruciale della decisione riguarda il ricorso dei lavoratori. La Corte ha affermato che i giudici d’appello hanno commesso un errore nel negare il diritto alla retribuzione per mancanza di prova specifica. Una volta accertato che quel tempo di viaggio è a tutti gli effetti orario di lavoro (l’esistenza del diritto, o an debeatur), il giudice non può negare il pagamento solo perché la sua esatta quantificazione (quantum debeatur) non è stata provata nel dettaglio.

Le Motivazioni della Corte

La Cassazione ha chiarito che esiste una netta distinzione tra il diritto alla prestazione e la sua quantificazione. Poiché era pacifico che i lavoratori fossero tecnici esterni che si spostavano quotidianamente, e che l’azienda stessa disponeva di un sistema di geolocalizzazione per tracciare tali spostamenti, negare il pagamento è contrario al principio di corrispettività delle prestazioni.

La Corte territoriale avrebbe dovuto procedere all’accertamento del ‘quantum’ dovuto, utilizzando gli strumenti a sua disposizione. Avrebbe potuto, ad esempio, richiedere all’azienda i dati del sistema di geolocalizzazione o nominare un consulente tecnico d’ufficio (CTU) per calcolare, anche in via presuntiva, i tempi medi di percorrenza. Negare il diritto in radice equivale a vanificare la tutela del lavoratore.

Le Conclusioni

L’ordinanza stabilisce un principio fondamentale a tutela dei lavoratori: il diritto alla retribuzione per il lavoro svolto non può essere annullato da difficoltà probatorie sulla sua esatta quantificazione. Se è provato che la prestazione lavorativa c’è stata (in questo caso, il tempo di viaggio eterodiretto), il giudice ha il dovere di determinarne il valore economico, anche ricorrendo a una valutazione equitativa se necessario. La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello, che dovrà ora procedere alla corretta liquidazione delle somme dovute ai lavoratori.

Il tempo di viaggio di un tecnico dal deposito aziendale al primo cliente è considerato orario di lavoro?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che questo tempo è a tutti gli effetti orario di lavoro se lo spostamento è funzionale alla prestazione, avviene con un mezzo aziendale e il lavoratore è a disposizione e sotto il controllo del datore di lavoro (ad esempio, tramite sistemi di geolocalizzazione).

Un accordo aziendale può escludere dalla retribuzione il tempo di viaggio se questo è controllato dal datore di lavoro?
No, una clausola di un accordo aziendale che esclude tale tempo dalla retribuzione (ad esempio, tramite una ‘franchigia’) è considerata nulla perché si pone in contrasto con la norma imperativa che definisce l’orario di lavoro (art. 1, co. 2, d.lgs. n. 66/2003).

Se un lavoratore ha diritto a una retribuzione ma non riesce a provarne l’importo esatto, perde il suo diritto al pagamento?
No. La Corte ha chiarito che, una volta accertata l’esistenza del diritto alla retribuzione, il giudice non può negarlo per mancanza di prova specifica del suo esatto ammontare. Il giudice deve procedere alla quantificazione utilizzando gli strumenti a sua disposizione, inclusa la consulenza tecnica o i dati in possesso del datore di lavoro, e se necessario può procedere a una liquidazione in via equitativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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