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Tempo di viaggio: quando è orario di lavoro retribuito

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16675/2024, ha stabilito che il tempo di viaggio impiegato da tecnici itineranti per recarsi dalla sede aziendale al primo cliente e per tornare dall’ultimo cliente costituisce orario di lavoro e deve essere retribuito. La Corte ha dichiarato nulla la clausola di un accordo aziendale che prevedeva una franchigia non retribuita di 30 minuti, affermando che la norma imperativa prevale. Inoltre, ha chiarito che, una volta accertato il diritto alla retribuzione, spetta al giudice quantificare le somme dovute, anche avvalendosi dei dati di geolocalizzazione dei mezzi aziendali, senza che l’onere della prova gravi interamente sul lavoratore.

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Pubblicato il 28 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Il tempo di viaggio è lavoro? La Cassazione dice sì

Il confine tra vita privata e orario di lavoro è sempre più sottile, specialmente per i lavoratori itineranti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato una questione cruciale: il tempo di viaggio impiegato da un tecnico per raggiungere il primo cliente dalla sede aziendale con il mezzo di servizio deve essere retribuito? Con una decisione netta, i giudici hanno confermato che tale tempo è a tutti gli effetti orario di lavoro.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda un gruppo di tecnici dipendenti di una grande società di telecomunicazioni, addetti a interventi presso i clienti. Ogni giorno, questi lavoratori prelevavano il furgone aziendale da una sede specifica, si recavano sul luogo del primo intervento e, a fine giornata, riportavano il mezzo al punto di partenza. Fino al 2013, questo tempo di spostamento era interamente retribuito.

Successivamente, un accordo sindacale aziendale ha modificato le regole, stabilendo che l’orario di lavoro iniziasse solo all’arrivo presso il primo cliente e terminasse alla conclusione dell’ultimo intervento. L’accordo introduceva una “franchigia” non retribuita di 30 minuti giornalieri (15 per l’andata e 15 per il ritorno) per questi spostamenti. I lavoratori hanno impugnato questa clausola, ritenendola nulla perché in contrasto con la legge.

L’Accordo Aziendale e la qualificazione del tempo di viaggio

Il cuore della controversia risiedeva nella validità della clausola che escludeva dalla retribuzione il tempo di viaggio iniziale e finale. Secondo i lavoratori, questo tempo rientra a pieno titolo nella nozione di orario di lavoro definita dal D.Lgs. 66/2003, secondo cui è “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

Durante questi tragitti, infatti, i tecnici non erano liberi di gestire il proprio tempo, ma si trovavano alla guida di un mezzo aziendale per adempiere a una precisa disposizione del datore di lavoro, ovvero raggiungere il luogo della prestazione. La Corte d’Appello aveva già riconosciuto la nullità della clausola ma aveva rigettato la richiesta di pagamento, ritenendo che i lavoratori non avessero provato che i loro spostamenti superassero la franchigia di 30 minuti.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha ribaltato la decisione di secondo grado sulla questione del pagamento, accogliendo il ricorso dei lavoratori. Ha inoltre respinto il ricorso incidentale dell’azienda, che sosteneva la validità della clausola e, in subordine, la nullità dell’intero accordo.

I giudici di legittimità hanno chiarito due principi fondamentali:
1. Il tempo di viaggio è orario di lavoro: Il tempo necessario per lo spostamento dalla sede aziendale al primo cliente (e viceversa) con un veicolo fornito dall’azienda è funzionale alla prestazione lavorativa. Il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e sotto il suo controllo (attività eterodiretta), come dimostrato anche dai sistemi di geolocalizzazione installati sui mezzi. Pertanto, questo tempo deve essere retribuito.
2. L’onere della prova: Una volta accertato il diritto del lavoratore alla retribuzione per quel tempo, il giudice non può rigettare la domanda solo perché il dipendente non ha fornito la prova esatta della durata di ogni singolo viaggio. Spetta al giudice di merito procedere alla quantificazione delle somme dovute, utilizzando gli strumenti a sua disposizione, come la consulenza tecnica d’ufficio (CTU) basata sui dati aziendali (es. geolocalizzazione).

Le Motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che la clausola dell’accordo aziendale era in palese contrasto con una norma imperativa (l’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 66/2003). In questi casi, opera il meccanismo della “sostituzione automatica” previsto dall’art. 1419 del Codice Civile: la clausola nulla viene sostituita di diritto dalla norma di legge, senza invalidare l’intero contratto. L’argomento dell’azienda sull’inscindibilità dell’accordo è stato quindi respinto, poiché la legge stessa impone la conservazione del contratto, emendato dalla clausola illegittima.

Sul piano processuale, la Corte ha censurato l’errore della Corte d’Appello nel confondere il diritto alla prestazione (l’an debeatur) con la sua quantificazione (il quantum debeatur). Stabilito che i lavoratori avevano diritto a essere pagati per il tempo di viaggio, il giudice non poteva sottrarsi al compito di determinarne l’importo, anche se questo richiedeva un accertamento tecnico basato su dati in possesso dell’azienda.

Conclusioni

Questa ordinanza consolida un principio di fondamentale importanza per la tutela dei lavoratori itineranti. Viene ribadito che il tempo in cui il lavoratore è soggetto alle direttive del datore di lavoro, anche se non sta compiendo l’attività tecnica in senso stretto, fa parte dell’orario di lavoro e come tale deve essere compensato. La decisione chiarisce che gli accordi collettivi non possono derogare in peius a norme di legge imperative e sposta l’onere della quantificazione sul processo stesso, impedendo che un diritto accertato venga vanificato da difficoltà probatorie che possono essere superate con gli strumenti processuali a disposizione del giudice.

Il tempo di viaggio dal deposito aziendale al primo cliente per un tecnico itinerante è considerato orario di lavoro?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che questo tempo è a tutti gli effetti orario di lavoro, in quanto il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro, sotto il suo controllo e nell’esercizio delle sue funzioni, anche se si tratta di un’attività preparatoria alla prestazione principale.

Un accordo aziendale può stabilire che una parte del tempo di viaggio non sia retribuita tramite una ‘franchigia’?
No, una clausola di questo tipo è nulla perché si pone in contrasto con la norma imperativa del D.Lgs. 66/2003 che definisce l’orario di lavoro. La clausola nulla viene automaticamente sostituita dalla previsione di legge, garantendo al lavoratore la retribuzione per l’intero periodo.

Se un lavoratore chiede il pagamento del tempo di viaggio, deve provare fin da subito la durata esatta di ogni singolo tragitto?
No. Una volta che il giudice riconosce il diritto del lavoratore a essere retribuito per quel tempo, non può rigettare la domanda per mancata prova della durata esatta. Spetta al giudice procedere all’accertamento della somma dovuta, anche utilizzando i sistemi di geolocalizzazione aziendali o una consulenza tecnica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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