Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16677 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 16677 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15453-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, ERNESTO NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4841/2022 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 15/01/2023 R.G.N. 2522/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/04/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte di appello di Napoli aveva accolto l’appello proposto da NOME avverso la decisione con cui il tribunale locale
Rep.
Ud. 03/04/2024
CC
aveva parzialmente accolto la sua domanda diretta all’accertamento della illegittimità della condotta aziendale di RAGIONE_SOCIALE in relazione all’applicazione della clausola del CCNL 27.3.2013 in cui era stabilito un diverso orario di lavoro. La corte di merito premetteva che il lavoratore svolgeva attività di tecnico di rete, dotato di auto aziendale e di un terminale di servizio su cui è montato un applicativo chiamato FAS che si interfaccia con un sistema informatico denominato WFM nel quale sono ricompresi gli interventi e le prestazioni da effettuare presso i clienti. Precisava che il terminale FAS costituisce il sistema attraverso cui il tecnico comunica all’azienda sia in ordine al luogo che al tipo di prestazione. Durante gli spostamenti il lavoratore non può recarsi dove vuole, ma solo dal cliente indicato ed in tal modo lo spostamento è connaturato al tipo di prestazione fornita. Il giudice d’appello rilevava che il ccnl del settore sino al 2013 prevedeva che l’orario di lavoro settimanale foss e di 38,10 ore su cinque giorni lavorativi con un orario giornaliero di 7,38, comprensivo dei tempi di spostamento dal luogo di lavoro dove era custodita l’auto aziendale al luogo di primo intervento e dal luogo dell’ultimo intervento alla sede aziendale dove era custodita l’autovettura. Con successivo accordo aziendale del 27.3.2013 l’orario di lavoro settimanale e giornaliero restava immutato, mentre veniva introdotta per i tecnici di rete una ‘franchigia’ di 30 minuti giornalieri per garantire un aumento della produttività aziendale. La ‘franchigia’ si identificava con il tempo utilizzato dal lavoratore per spostarsi dal luogo ove era ricoverata l’autovettura aziendale sino al luogo del primo intervento di lavoro prestato, ovvero il tempo utilizzato dall’ultimo intervento della giornata sino al ricovero dell’auto. In tale lasso temporale il tecnico di rete non veniva pagato, con la precisazione contrattuale che l’auto aziendale poteva essere anche parcheggiata presso l’abitazione del lavoratore o presso la sede sociale più vicina al domicilio dello stesso. Nel primo caso la franchigia era di 15 minuti, nel secondo di trenta minuti.
La corte territoriale, per quel che rileva in questa sede, aveva ritenuto che, dal momento in cui il lavoratore entrava in auto e si connetteva al sistema operativo FAS, iniziasse la prestazione di lavoro, non potendo, il lavoratore, da quel momento, svolgere
attività proprie. Riteneva pertanto fondate le doglianze del ricorso dell’COGNOME valutando il disposto del Dlgs n. 66/2003, attuativo della Direttiva comunitaria 94/104/ CE, che considera tempo di lavoro ‘qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro o nell’esercizio delle sue attività o funz ioni’. Richiamava l’attuale nozione di orario di lavoro comprensivo anche dei tempi funzionali alla prestazione, e dunque il tempo trascorso per raggiungere il luogo effettivo del servizio prestato , a meno che non venga data la prova, dal datore di lavoro, della libera autodeterminazione, in tali lassi temporali, del lavoratore e, dunque, dell’assenza di soggezione al potere datoriale.
Avverso detta decisione RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso cui resisteva con controricorso NOME NOME.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con primo motivo, richiamato l’art. 360, co.1 n.3 c.p.c., è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1419 c.c. con riferimento alla valutazione degli accordi e della clausola di inscindibilità;
Con secondo motivo (ex art. 360, co.1 n. 3 c.p.c.) è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66/2003, nonché dell’art. 2697 c.c., con riferimento al riconoscimento della c.d. franchigia come tempo di lavoro e del relativo onere della prova circa l’effettiva prestazione svolta in tale lasso temporale.
Si osserva preliminarmente che questa Corte ha già esaminato e valutato controversie afferenti alle medesime questioni ed ai medesimi principi, (Cass.n. 27920/2021; 37286/2021; seguita da Cass.n. 14845/2024, pur riferita ad altra figura professionale) che richiama e da cui non ha motivo di discostarsi con riguardo alle ragioni espresse.
3). Il primo motivo è infondato. la Corte di appello ha esaminato l’eccezione di inscindibilità sollevata dalla società, ritenendo che la tesi della inscindibilità della clausola contrattuale sull’orario di lavoro, rispetto al resto dell’accordo sindacale, non era stata provata perché la società non aveva fornito alcuna prova che senza detta clausola non avrebbe sottoscritto l’accordo.
Con l’attuale censura la ricorrente sostiene il contrario.
4). Si osserva preliminarmente che la società non ha impugnato la prima ratio decidendi affermata dalla Corte relativa al fatto che la società non abbia fornito alcuna prova che senza detta clausola non avrebbe sottoscritto l’accordo. In secondo luogo, la ricorrente RAGIONE_SOCIALE si limita a dedurre come significativa la presenza in ciascuno degli accordi sottoscritti in data 27 marzo 2013 di una specifica clausola di inscindibilità secondo cui ‘il presente accordo costituisce un corpo unico ed inscindibile con gli accordi sottoscritti in pari data’
Secondo la ricorrente tanto varrebbe a dimostrare la inscindibilità della clausola in questione. L’assunto non è accoglibile, intanto, perché non supportato dalla produzione dell’intero accordo contrattuale che sarebbe stato necessario al fine di valutare l’effettivo carattere inscindibile di una clausola contrattuale. Sarebbe stato onere del ricorrente riprodurre e riportare non solo la singola clausola di inscindibilità di cui sopra, bensì allegare e riprodurre per intero le clausole dell’accordo azienda le atte a consentire un corretto sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 22726/2011; Cass. n. 195/2016).
5 ).In ogni caso il carattere di inscindibilità della clausola sull’orario di lavoro non potrebbe essere desunta dalla previsione sopra indicata, che si riferisce alla connessione tra i diversi ‘accordi sottoscritti in pari data’. Inoltre, dal carattere insc indibile di vari accordi -a cui è riferita la clausola sopra citata – ma anche delle clausole di un accordo tra di loro, non si deduce direttamente il carattere essenziale e determinante di una singola clausola rispetto al testo complessivo di uno specifico accordo che la contenga. Ai fini dell’art. 1419, 1 comma c.c. – secondo cui la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che il contraente non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità – non è sufficiente che la singola clausola sia interconnessa ovvero costituisca un corpo unico ed inscindibile col resto dell’accordo. Occorre altresì che il suo contenuto abbia anche carattere determ inante dell’accordo aziendale, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza di essa.
5.a) Pertanto al fine di stabilire se la nullità di una clausola contrattuale importi la nullità dell’intero contratto, la scindibilità del
contenuto del contratto deve essere accertata soprattutto attraverso la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’ipotesi che nel contratto fosse stata inserita la clausola nulla (Cass. n. 23950 del 10/11/2014). La nullità della singola clausola contrattuale comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio “utile per inutile non vitiatur”, la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dallo stesso perseguito (Cass. n. 2314 del 05/02/2016).
La nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende all’intero contratto, o a tutta la clausola, ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
5.b) Nel caso in esame tale valutazione di inscindibilità non essendo desumibile dal contratto aziendale doveva essere addotta e provata dalla parte interessata ad ottenere l’annullamento dell’intero contratto che sarebbe divenuto privo di interesse senza la clausola dichiarata nulla. Ed invero il concetto di nullità parziale, di cui all’art. 1419, comma 1, c.c., esprime il generale favore dell’ordinamento per la conservazione, ove possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, ed il carattere eccezionale dell’estensione all’intero contratto della nullità che ne colpisce una parte o una clausola; conseguentemente, spetta a chi ha interesse alla totale caducazione dell’assetto di interessi programmato l’onere di provare l’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre è precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto ( Cass. n. 18794 del 04/07/2023).
Nel caso di specie, però, secondo l’accertamento di fatto non censurabile effettuato dal giudice d’appello, RAGIONE_SOCIALE non ha assolto in alcun modo all’onere di allegazione e prova che le
competeva e tale affermazione non può pertanto ritenersi in contrasto con l’art. 1419 c.c. nei termini appena indicati; posto che il tale carattere non era nemmeno desumibile dal contratto. In ogni caso, secondo il secondo comma dell’art.1419 c.c., la nullità della singola clausola non importa la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.
5.c) Pertanto, neppure nel caso in cui la clausola fosse stata determinante ai fini del regolamento contrattuale ai sensi dell’art.1419, 1 comma c.c. sarebbe possibile pronunciare la nullità dell’intero contratto quando sia possibile sostituire la clausola nulla con norma imperativa di legge ( 2 comma); tanto, in base al principio di conservazione del contratto, siccome si evince anche dall’art 1339 c.c. secondo cui le clausole imposte dalla legge sono di diritto inserite nel contratto anche in sostituzione della clausola difforme apposta dalle parti. Tutto ciò vale a prescindere dal giudizio delle parti sulla essenzialità della clausola nulla di cui all’art. 1419, 1 comma; ed a maggior ragione vale nella materia del lavoro connotata da esigenze superiori di protezione del lavoratore e nel rapporto tra legge, contrattazione collettiva e contrattazione individuale, ispirata dalla regola dell’inderogabilità in peius del regolamento stabilito dalla legge.
5 .d) Va infine rilevato che non ha alcun rilievo l’ordine con cui sono state esaminate la questione della nullità e della inscindibilità della clausola contrattuale in questione. Avendo la Corte disatteso la questione di inscindibilità della clausola, non ha autonomo rilievo il fatto che la Corte abbia valutato la stessa questione, ritenuta pregiudiziale, dopo aver esaminato il merito sulla sua nullità. La censura è da disattendere.
6) Col secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2, lettera a) d.lgs. n. 66/2003 e dell’art. 2697 c.c. , con riferimento alla c.d. franchigia come tempo di lavoro e del relativo onere della prova circa l’effettiva prestazione svolta in tale lasso temporale (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.).
La sentenza resa dalla Corte d’appello sarebbe censurabile nella parte in cui ha riconosciuto che il tempo impiegato dal lavoratore per lo spostamento dal luogo di ricovero dell’autovettura aziendale al luogo di primo intervento e viceversa, dal luogo dell’ultimo intervento al luogo di ricovero dell’automezzo, sia qualificabile
come orario di lavoro. Secondo lo stesso motivo di ricorso la sentenza sarebbe censurabile anzitutto per non aver correttamente valutato le circostanze di fatto, ampiamente contestate in memoria difensiva dalla società per aver ritenuto provati i fatti posti alla base della motivazione della sentenza, senza che, peraltro, su tali fatti fosse stata svolta alcuna attività istruttoria nel giudizio di prime cure. In secondo luogo, la Corte territoriale avrebbe ribaltato l’onere probatorio ponendo in capo a RAGIONE_SOCIALE l’onere di provare che il prestatore di lavoro, nell’arco temporale in esame, fosse libero di autodeterminarsi o, comunque, non assoggettato il potere gerarchico. Inoltre, il giudice d’appello non avrebbe considerato che RAGIONE_SOCIALE, a fronte della genericità delle allegazioni avversarie, aveva, in sede di memoria difensiva specificamente dedotto le varie operazioni che il lavoratore deve effettuare dal momento dell’entrata all’uscita e viceversa. Di conseguenza sotto un primo profilo il collegio avrebbe errato nella parte della sentenza in cui ha ritenuto pacifici e dunque provati dei fatti ampiamente contestati dalla società, e così facendo il collegio era giunto a ritenere provate le circostanze dedotte dalle lavoratrici ricorrenti in primo grado.
Sotto ulteriore profilo la ricorrente ha evidenziato come la motivazione fornita dalla Corte d’appello tradirebbe una erronea e contraddittoria interpretazione dell’art.1, comma 2 lett. A) del d.lgs. 66/2003 con specifico riferimento ai presupposti che, ai sensi della disposizione invocata, consentono di definire il tempo che il dipendente mette a disposizione dell’azienda come orario di lavoro; posto che nel caso di specie non sussisteva nessun potere direttivo e/o gerarchico e/o eterodirettivo esercitato dalla società datrice di lavoro sulle dipendenti.
6.a) Il motivo di ricorso presenta profili di inammissibilità e profili di infondatezza. In primo luogo, il motivo viola il principio di specificità del ricorso per cassazione, promuovendo censure eterogenee, di fatto e di diritto, processuali e sostanziali, promiscuamente accorpate (v. Cass n. 7009/2017) In secondo luogo, il motivo deduce per buona parte censure che attengono agli accertamenti di fatto ed alla valutazione delle prove come tali non deferibili a questa Corte di legittimità (v. Cass n. 30577/2019).
Sul piano logico e giuridico, nella sentenza impugnata non si rinviene, in ogni caso, alcuna violazione di legge, perché la Corte d’appello si è adeguata a quella che è l’interpretazione corrente e consolidata della normativa sull’orario di lavoro ai sensi del d.lgs. n. 66/2003 e delle direttive comunitarie nn. 93/104 e 203/88. Avendo la Corte fondato la propria pronuncia sul medesimo principio di diritto richiamato nel ricorso da RAGIONE_SOCIALE ovvero quello secondo cui il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie. In tal senso è orientata la giurisprudenza consolidata di questa Corte, con orientamento di recente ribadito proprio in relazione a vertenze promosse da lavoratori RAGIONE_SOCIALE ai fini della computabilità del tempo per raggiungere il luogo di lavoro, il quale rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va quindi sommato al normale orario di lavoro) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione lavorativa (Cass. 27008/2023).
6.b) La stessa soluzione è da sempre estesa nella giurisprudenza di legittimità a tutte le attività preparatorie e preliminari alla prestazione lavorativa (ordinanza 27799/2017, ordinanza n. 12935/2018). In termini specificamente aderenti al tema oggetto della presente causa è stato pure affermato (sentenza n. 13466 del 29/05/2017) il principio secondo cui ‘ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; ne consegue che è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico.
6.c) La Corte territoriale non ha affermato nulla di diverso rispetto a tali principi ( si veda a riguardo Cass.n. 37286/2021 e Cass.n.27920/2021); nella specie la Corte di merito ha accertato che, in base alla nuova organizzazione scaturente dai menzionati accordi collettivi, l’auto aziendale è utilizzabile solo per recarsi
presso il richiesto luogo dell’intervento (o tornare da esso alla loro abitazione) e che compete alla società stabilire (o modificare) il luogo del primo e dell’ultimo intervento, sicché non si comprenderebbe perché tale tempo non debba essere considerato tempo di lavoro. La società, come evidenziato dalla sentenza impugnata, ha acquisito il vantaggio (rispetto alla precedente organizzazione secondo cui i dipendenti si recavano dapprima in RAGIONE_SOCIALE per timbrare il cartellino orario e poi uscivano per recarsi sui luoghi degli interventi così come rientravano in RAGIONE_SOCIALE alla fine di questi ultimi per timbrare nuovamente il cartellino), di disporre di lavoratori che si recano direttamente sul luogo dell’intervento e non si vede perché questo tempo non debba essere considerato di lavoro così come era (pacificamente) considerato quello impiegato per raggiungere il luogo dell’intervento dopo aver timbrato il cartellino in azienda. In sostanza, a ben vedere, il mutamento in pejus per i lavoratori è dato dalla franchigia di 15 o 30 minuti previsti dagli accordi sindacali: mentre col precedente sistema i tecnici on field lavoravano 7 ore e 38 minuti, compreso il tempo impiegato per recarsi dalla sede RAGIONE_SOCIALE al luogo dell’intervento (e viceversa), col nuovo sistema lavorano invece 7 ore e 38′ effettivi, e cioè al netto degli spostamenti, non essendo essi retribuiti, almeno nei limiti della franchigia. La Corte ha inoltre accertato che i lavoratori in auto sono muniti di terminale aziendale (FAS) con cui visualizzano i luoghi degli interventi stabiliti dall’azienda, ‘timbrano’ l’orario di inizio del lavoro (geolocalizzazione a parte) e ricevono le disposizioni della RAGIONE_SOCIALE: ciò rafforza il concetto che in tali tempi sono etero diretti dall’azienda. Deve d’altro canto precisarsi che per pacifica giurisprudenza di legittimità i tempi preparatori della prestazione (ad es. quello impiegato per indossare la tuta o divisa aziendale, v. Cass. n.2071413, nn. 1819-184112) rientrano nell’orario di lavoro se svoltisi sotto la direzione ed il controllo del datore di lavoro.
6.d) Inammissibile è da considerarsi la doglianza relativa alla violazione dell’art. 2697 c.c., essendo incentrata sul tema dell’accertamento dei fatti ed è comunque priv a di autosufficienza. Le stesse censure proposte nel motivo di ricorso violano infatti l’onere di specificità e di autosufficienza del ricorso, di cui agli artt.
366 n. 6 e 369 n. 4 c.p.c., pur nella versione dell’onere di specificazione modulata in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/RAGIONE_SOCIALE), secondo i criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti per la parte d’interesse ( in particolare del ricorso dei lavoratori che si dice carente e generico) in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (cfr. Cass. 04/02/2022 n. 3612).
La censura è dunque da disattendere.
Il ricorso, per quanto detto, deve essere rigettato.
Le spese seguono il principio di soccombenza, con distrazione in favore dei procuratori distrattari del controricorrente.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E. 4.000,00 per compensi ed E. 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, con distrazione.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Cosi’ deciso in Roma il 3 aprile 2024.
La Presidente NOME COGNOME
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