Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 5332 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 5332 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/02/2025
SENTENZA
sul ricorso 16905-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, COGNOME BRESCIA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 476/2021 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/04/2021 R.G.N. 970/2020;
R.G.N. 16905/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 04/12//2024
PU
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/12/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
La Corte d’appello di Milano ha respinto l’appello della RAGIONE_SOCIALE e confermato la pronuncia di primo grado che, accogliendo la domanda proposta da NOME COGNOME e da NOME COGNOME, aveva dichiarato costituito tra ciascuno di essi e la RAGIONE_SOCIALE un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dal 14 luglio 2018; la decisione di primo grado poggiava sul presupposto dell’illegittimità dei contratti di somministrazione a tempo determinato sottoscritti con la Adecco e delle relative proroghe per superamento del limite massimo di 24 mesi previsto dall’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015, come modificato dal decreto-legge 87/2018 (cd. decreto dignità), cui rinvia l’art. 34, comma 2, del medesimo decreto legislativo, oltre che per difetto delle esigenze legittimanti il superamento del termine di dodici mesi, ai sensi del novellato art. 19, comma 1; il tribunale aveva, inoltre, condannato la società al pagamento dell’indennità di cui all’art. 32, della legge n. 183/2010, liquidata nella misura di otto mensilità della retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale ha interpretato l’art. 1, comma 2, del decretolegge 87/2018 (secondo cui ‘le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto nonché ai rinnovi e alle
proroghe dei contratti in corso alla medesima data’) nel senso che, ai fini del computo del tetto dei 24 mesi, dovesse tenersi conto anche dei contratti e delle proroghe o rinnovi conclusi prima dell’entrata in vigore del decreto legge, di cui altrimenti sarebbe vanificata la ratio, consentendosi di fatto rapporti di somministrazione a tempo determinato di durata superiore perfino al precedente limite dei 36 mesi; ha escluso che tale interpretazione comportasse un’applicazione retroattiva della legge sopravvenuta avendo il tribunale dichiarato costituito il rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data da luglio 2018, sul rilievo di illegittimità dei contratti prorogati o conclusi sotto il vigore della nuova normativa; ha negato rilievo al diverso inquadramento dei lavoratori, relativo ad una ristretta fase del rapporto, poiché ‘non è nemmeno contestato da RAGIONE_SOCIALE che al diverso livello di inquadramento corrispondessero le stesse identiche mansioni svolte nei due anni precedenti’ (sentenza, p. 9, ultimo cpv.); ha giudicato infondata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla società poiché dall’illegittimità dei contratti di somministrazione a termine discende la conversione del rapporto a tempo indeterminato in capo all’effettivo ut ilizzatore della prestazione.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso.
Il Sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione o
falsa applicazione dell’art. 19 del d.lgs. 81/2015 per avere la Corte d’appello ritenuto applicabile al rapporto di somministrazione che riguardava i signori COGNOME il limite di durata di 24 mesi, di cui all’art. 19 del d.lgs. 81/2015, come modificato dal decreto-legge 87/2018, convertito dalla legge 97/2018.
Osserva, in particolare, la ricorrente che il d.lgs. 81/2015, nel testo originario, non fissava alcun tetto di durata massima ai contratti di somministrazione di lavoro a termine. L’unico limite temporale previsto era quello di 36 mesi in caso di successione tra contratti di lavoro a termine e contratti di somministrazione a termine, ma nulla era sancito per il caso di successione di soli contratti di somministrazione a tempo determinato. Non solo, per questi ultimi non era neppure imposto l’obbligo di i ndicazione delle causali giustificative dell’apposizione del termine.
La ricorrente aggiunge che il decreto-legge 87/2018, entrato in vigore il 14 luglio 2018 ( rectius , 12.7.2018), ha (tra l’altro) esteso la disciplina (come modificata) dei contratti a termine ai contratti di somministrazione di lavoro a termine (eccetto le disposizioni di cui agli artt. 21, 23 e 24) ma afferma che tale estensione riguarda il rapporto t ra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore e non il distinto rapporto commerciale di somministrazione tra l’agenzia per il lavoro e l’azienda utilizzatrice, che sarebbe rimasto libero da qualsiasi limite di durata. Sostiene che, per quanto concerne le imprese utilizzatrici, il limite di 24 mesi opera esclusivamente nell’ipotesi in cui quest’ultima impieghi il medesimo lavoratore con una successione di contratti a termine e di somministrazione a termine.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti concernente l’intervenuta contestazione della durata complessiva, per oltre 24 mesi, del rapporto di lavoro a termine tra la RAGIONE_SOCIALE e i signori COGNOME e della corrispondente somministrazione a termine dei predetti in favore della RAGIONE_SOCIALE. La società (rimasta contumace in primo grado) allega di avere ampiamente contestato nel ricorso in appello (pagine 13-15) la durata complessiva del rapporto di somministrazione indicata dai lavoratori e di aver dedotto, in base ai documenti allegati dai ricorrenti in primo grado, che il rapporto del Conti con RAGIONE_SOCIALE era durato complessivamente 700 giorni, corrispondenti a 23,3 mesi e il rapporto del RAGIONE_SOCIALE era durato complessivamente 253 giorni, corrispondenti a 8,43 mesi. Addebita alla Corte d’appello l’errata applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 cod. proc. civ., sottolineando come la contumacia della società in primo grado non potesse assumere alcuna valenza probatoria favorevole per la parte costituita, rendendo anzi più rigoroso l’onere di prova di quest’ultima.
Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 38, d.lgs. 81/2015 per avere la Corte d’appello ritenuto che dal superamento della (asserita) durata massima di 24 mesi dei contratti di somministrazione e/o dalla mancata apposizione della causale potesse conseguire la costituzione ex tunc di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’utilizzatore. La società espone che l’art. 38 del citato decreto legislativo, nel riscrivere la fattispecie della somministrazione irregolare, ha previsto alcune ipotesi tassative al ricorrere delle quali il lavoratore ha diritto di
chiedere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore; che tali ipotesi tassative, individuate come violazione ‘dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lett. a), b), c), d)’, non comprendono la violazione dell’art. 34, comma 2, novellato; che è pertanto viziata la sentenza d’appello nella parte in cui ha disposto la costituzione dei rapporti di lavoro in capo alla società ed ha condannato la stessa al pagamento dell’indennità risarcitoria.
10. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 34, d.lgs. 81/2015 (nel testo anteriore al decretolegge 87/2018), dell’art. 2, comma 1, del decreto-legge 87/2018, come modificato dalla legge 96/2018, nonché degli artt. 19 e 34 del d.lgs. 81/2015, nel testo risultante dalle modifiche di cui alla legge 96/2018. La società censura la sentenza d’appello per l’integrale disapplicazione del regime transitorio introdotto dalla legge 96/2018, che esclude dalla sfera di disciplina del cd. decreto dignità, in particolare quanto al limite massimo di durata di 24 mesi e all’onere di apposizione della causale, le proroghe e i rinnovi dei contratti a termine intervenuti dal 14 luglio al 31 ottobre 2018. La ricorrente osserva che, in base all’art. 1, comma 2, decreto-legge 87/2018, la nuova disciplina avrebbe dovuto applicarsi ai ‘contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data’; che in data 12 agosto 2018 è entrata in vigore la legge 96/2018 la quale, nel convertire il decreto legge, ha modificato l’articolo 1, comma 2, relativo al regime tran sitorio, inserendo la seguente previsione: ‘le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di
lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018’; che la circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018 ha precisato che fino al 31 ottobre 2018 ‘le proroghe e i rinnovi restano disciplinati dalle disposizioni del d.lgs. 81/2015, nella formulazione antecedente al decreto legge numero 87 …. (e) si può ritenere – in base ad una lettura sistematica – che tale periodo transitorio trovi applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a tempo determinato’; che, alla luce della complessa disciplina normativa, deve ritenersi il limite di 24 mesi non applicabile per tutti i contratti, le proroghe e i rinnovi intervenuti nel corso del periodo transitorio indicato dalla legge di conversione del cd. decreto dignità.
11. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto pone la questione dell’inapplicabilità al rapporto di somministrazione dei signori COGNOME e COGNOME del limite di durata di 24 mesi, di cui all’art. 19 del d.lgs. 81/2015, come modificato dal decreto-legge 87/2018, convertito dalla legge 97/2018, sebbene tale questione non sia stata sollevata dinanzi alla Corte d’appello. Come emerge dai motivi di impugnazione riassunti nella sentenza d’appello (p. 4 e 5), la società aveva dedotto che ‘il limite di 24 mesi (andava) applicato solo a decorrere dall’entrata in vigore della nuova disciplina. Per i contratti (e proroghe) stipulati precedentemente, doveva ritenersi applicabile il limite di 36 mesi’. Indicazioni di segno diverso non si traggono dai motivi di appello riportati dalla società nel ricorso per cassazione (p. 3, § 2.2.), con i quali la stessa ha essenzialmente contestato l’effettivo superamento del
limite di 24 mesi e l’errata applicazione del regime transitorio.
La mancata impugnazione della decisione di primo grado nella parte in cui ha ritenuto applicabile, alla fattispecie oggetto di causa, il limite legale di durata di 24 mesi di cui al decreto-legge 87/2018 ha determinato il formarsi del giudicato sul punto, trattandosi di statuizione costituente ‘minima unità’, comprensiva della sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato: ciò prelude l’esame della questione nella present e sede.
A prescindere dalla vincolatività, anche per il contratto di somministrazione a termine, del limite di durata di 24 mesi introdotto dal decreto-legge n. 87/2018, questione inammissibilmente posta col ricorso in esame e che involge l’interpretazione dell’art. 2, comma 1 ter, della legge di conversione n. 96/2018, su cui si registrano divergenti opinioni dottrinali, deve, comunque, ribadirsi, in accordo con i precedenti di legittimità (sentenze n. 22861 del 2022; n. 23531 del 2022; n. 23499 del 2022, n. 23497 del 2022) concernenti la disciplina dettata dal d.lgs. n. 81/2015, prima delle modifiche introdotte dal decretolegge 87/2018, che il requisito della temporaneità della somministrazione, cioè delle missioni presso lo stesso datore di lavoro, è implic ito e immanente all’istituto in esame, secondo una interpretazione conforme al diritto dell’Unione. Nei precedenti citati questa Corte ha richiamato quanto osservato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 14 ottobre 2020, JH c. KG , C-681/2018 (punto 61) e nella successiva sentenza del 17 marzo 2022, RAGIONE_SOCIALE Mercedes-Benz Werk Berlin , C-232/20 (punti 31, 34), da cui emerge come il termine ‘temporaneamente’ adoperato nella direttiva 2008/104
caratterizza non il posto di lavoro che deve essere occupato all’interno dell’impresa utilizzatrice, bensì le modalità della messa a disposizione di un lavoratore presso tale impresa. È il rapporto di lavoro con un’impresa utilizzatrice ad avere, per sua natura, carattere temporaneo. (Cass. cit. p. 8 § 11.1). Se è vero, in base a quanto detto, che le disposizioni della direttiva 2008/104 non impongono agli Stati membri l’adozione di una determinata normativa in materia, resta il fatto che, come ricordato da lla Corte di Giustizia, l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, impone agli Stati membri, in termini chiari, precisi ed incondizionati, di adottare le misure necessarie per prevenire l’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale aventi lo scopo di eludere le disposizioni di tale direttiva nel suo insieme. Ciò comporta che gli Stati membri debbano adoperarsi affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per un lavoratore tramite agenzia interinale (v. Corte di Giustizia, C-681/18 cit., punti 55, 60).
14. Nel caso di specie, la Corte di merito, sul presupposto della vincolatività del limite legale dei 24 mesi, ha ritenuto tale tetto operante per i contratti successivi al 14.7.2018 ( rectius 12.7.2018) e per le proroghe e rinnovi di contratti in corso a quella data, ciò in base alla norma transitoria dettata dall’art. art. 1, comma 2, decreto -legge 86/2018, nel testo anteriore alla modifica apportata dalla legge di conversione che ha fatto slittare il termine, per le proroghe e rinnovi, al 31 ottobre 2018. In particolare, la sentenza d’appello ha accertato che dopo il 12 luglio 2018 la RAGIONE_SOCIALE ha proseguito nei rapporti prorogati e poi ne ha posto in essere di nuovi’ (sentenza appello, p. 9 primo cpv.). Al fine di verificare il rispetto o meno del tetto di 24 mesi, i giudici
di appello hanno tenuto conto anche dei contratti legittimamente stipulati in epoca anteriore al decreto-legge 87/2018. Ciò in accordo con i principi espressi da questa S.C. nella sentenza n. 22861 del 2022 cit., secondo cui ‘In tema di successione di contratti di lavoro in somministrazione a termine, ove l’impugnazione stragiudiziale venga rivolta solo nei confronti dell’ultimo contratto della serie, il giudicato sull’intervenuta decadenza dall’impugnativa dei contratti precedenti non preclude l’accertamento dell’abusiva reiterazione, atteso che la vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta nei confronti dell’utilizzatore per la intervenuta decadenza, può rilevare come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, sì da realizzare una elusione degli obiettivi della Direttiva 2008/104, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenze del 14 ottobre 2020 in causa C681/18 e del 17 marzo 2022 in causa C232/20’.
15. Con specifico riferimento alla disciplina transitoria, la lettura adottata dai giudici di appello si impone quale effetto di una interpretazione conforme alla luce della sentenza della sentenza CGUE del 17.3.2022, nella causa C 232/20, N .P. c. Daimler AG, Mercedes-Benz Werk Berlin che, proprio in tema di disciplina transitoria, ha statuito al punto 3): ‘La direttiva 2008/104 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale che stabilisce una durata massima di messa a disposizione del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui tale
normativa escluda, mediante una disposizione transitoria, ai fini del calcolo di tale durata, il computo dei periodi precedenti l’entrata in vigore di una siffatta normativa, non consentendo al giudice nazionale di prendere in considerazione la durata effettiva della messa a disposizione di un lavoratore tramite agenzia interinale al fine di determinare se tale messa a disposizione abbia avuto luogo «temporaneamente», ai sensi di tale direttiva, circostanza che spetta a detto giudice determinare’.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per più profili.
La società impropriamente lamenta una violazione dell’art. 115 c.p.c. adducendo di avere contestato nel ricorso in appello l’allegazione avversaria sulla durata complessiva dei rapporti di lavoro. Come è noto, nel rito del lavoro, che si caratterizza per la circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed onere di prova (v. Cass. S.U. n. 11353/2004; Cass. n. 25148/2017), le parti concorrono a delineare fin dal subito la materia controversa. A tal fine, l’art. 416 c.p.c. impone al convenut o l’onere di prendere posizione in maniera specifica sui fatti allegati dall’attore, eventualmente contestandoli, nella memoria di costituzione in primo grado. Nel caso di specie, la pacifica contumacia della società nel giudizio di primo grado ha precluso alla stessa la facoltà di contestare i fatti allegati dall’attore. Col ricorso in appello la società non poteva limitarsi a contestare le allegazioni di controparte, ma avrebbe dovuto censurare l’accertamento compiuto dal tribunale e la decisione dallo st esso assunta, mettendone in evidenza l’erroneità in fatto e/o in diritto. La censura formulata ai sensi dell’art. 115 c.p.c. non può quindi trovare accoglimento.
18. Sotto un diverso profilo, il motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della decisione impugnata. La Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado che ‘sulla base della documentazione in atti, ha ricostruito in modo puntuale la cronologia di tutti i contratti, proroghe comprese, rilevando che, per entrambi i lavoratori la durata complessiva del rapporto aveva superato il limite massimo di 24 mesi di cui al decreto dignità’ (sentenza, p. 3, secondo cpv.). L’accertam ento svolto dal tribunale e fatto proprio dai giudici di appello non si è basato sul principio di non contestazione (né poteva basarsi su tale principio data la contumacia della società), bensì sulla documentazione prodotta dai lavoratori ricorrenti. La censura mossa ai sensi dell’art. 115 c.p.c. non tiene conto del contenuto di tale accertamento. Il motivo è, infine, inammissibile nella parte in cui critica, in riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., la valutazione delle risultanze istruttorie (documentazione prodotta dai lavoratori) compiuta dai giudici di appello data la preclusione imposta dalla disciplina della cd. doppia conforme.
19. Il terzo motivo pone il problema delle conseguenze della violazione dei limiti e delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, e rileva che l’art. 38, nel descrivere le ipotesi tassative al ricorrere delle quali il lavoratore ha diritto di chiedere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, richiama esclusivamente gli artt. 31, 32 e 33 e non anche l’art. 34, come integrato dall’art. 2, comma 1 ter del decreto-legge convertito.
20. La Corte d’appello fonda la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore sull’art. 34 d.lgs. 81/2015, come modificato dal cd. decreto dignità, che estende al lavoro somministrato le norme del capo III,
ora interamente richiamato con la sola ‘esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24’. Tra le norme del capo III, a cui fa espresso rinvio l’art. 34, secondo comma, è compreso l’articolo 19 nella sua interezza ed anche, quindi, nel secondo comma, ultimo periodo, ai sensi del quale ‘qualora il limite dei ventiquattro mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento’.
Occorre tuttavia rilevare che l’art. 34, secondo comma, contempla unicamente il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore. Non solo, l’art. 38, d.lgs. 81 del 2015, deputato a disciplinare le ipotesi tassative di ‘somministrazione irregolare’ e non modificato dal decreto-legge dignità, contempla la facoltà del lavoratore di agire nei confronti dell’utilizzatore solo nei casi in cui la somministrazione avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) d), senza alcun richiamo, neanche indiretto ai limiti e alle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, novellato.
Appare dirimente, anche in tal caso, il richiamo dei precedenti di legittimità (sentenze n. 22861 del 2022; n. 23531 del 2022; n. 23499 del 2022, n. 23497 del 2022) che, nell’esaminare l’art. 38 del d.lgs. n. 81/2015, nel testo originario e tuttora vigente, considerato il requisito di temporaneità come immanente alla somministrazione di lavoro, hanno individuato la possibilità di una interpretazione conforme delle disposizioni nazionali in grado di garantire l’effetto utile alle disposizioni del diritto dell’Unione facendo leva sulle previsioni di diritto interno che disciplinano gli effetti di condotte elusive di norme
imperative, e tra queste l’art. 1344 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1418 cod. civ.
23. Nei precedenti richiamati si è statuito che: ‘… l’obbligo imposto agli Stati membri dall’art. 5, par. 5, prima frase, di adottare le misure necessarie per impedire il ricorso abusivo ad una successione di missioni di lavoro tramite agenzia interinale, in contrasto con le finalità della Direttiva, è chiaro, preciso e incondizionato. Posto che l’art. 5, par. 5, cit. non può essere direttamente invocato dal lavoratore in rapporti orizzontali, cioè tra soggetti privati, la possibilità di una interpretazione conforme delle disposizioni nazionali in grado di garantire l’effetto utile alle disposizioni del diritto dell’Unione deve basarsi anche sulle disposizioni interne che disciplinano gli effetti di condotte elusive di norme imperative, e tra queste l’art. 1344 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1418 cod. civ. Non vi è dubbio che le disposizioni della Direttiva assumano carattere di norme precettive e che le stesse, come interpretate dalla Corte di Giustizia con le citate sentenze del 2020 e del 2022, contemplino quale requisito immanente e strutturale del lavoro tramite agenzia interinale la temporaneità della prestazione presso l’utilizzatore, intesa nel senso di durata complessiva delle missioni per un tempo che possa ragionevolmente considerarsi temporaneo, tenuto conto anche delle caratteristiche del settore produttivo. Già in passato questa Corte, nell’interpretare le disposizioni di cui alla legge n. 196 del 1997 in materia di fornitura di lavoro temporaneo, ha avuto modo di affermare che, poiché la regola della temporaneità dell’occasione di lavoro connota la disciplina del rapporto di lavoro interinale di cui alla citata legge, deve configurarsi un’ipotesi di contratto in frode alla legge allorché la reiterazione dei contratti interinali costituisca il
mezzo, anche attraverso intese, esplicite o implicite, tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice concernenti la medesima persona del prestatore, per eludere la regola della temporaneità (v. in tal senso Cass. n. 7702 del 2018; Cass. n. 23684 del 2010; Cass. n. 15515 del 2009; v. anche Cass. n. 13982 del 2022 riferita all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001). Inoltre l’art. 1344 c.c. è già stato evocato come strumento utile per evitare che, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia possibile porre in essere una condotta che integri una frode alla legge, e quindi quale misura adeguata e idonea a prevenire abusi nel susseguirsi di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, affidando al giudice del merito il compito di desumere da “elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l’arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti, l’uso deviato e fraudolento del contratto a termine” (v. Cass. n. 59 del 2015; Cass. n. 14828 del 2018).
24. Nella fattispecie oggetto di causa, la sentenza d’appello contiene un accertamento in fatto non solo sull’avvenuto superamento del limite di 24 mesi, in epoca successiva all’entrata in vigore del decreto -legge 87/2018, ma anche sul carattere elusivo della reiterazione dei contratti, finalizzata unicamente ad aggirare il requisito della temporaneità, (‘Synlab ha continuato un rapporto che, è pacifico, alla fine ha superato il termine massimo di legge, così eludendo la disciplina stessa’; ‘Non è neanche contestato da RAGIONE_SOCIALE che al diverso livello di inquadramento corrispondessero le stesse identiche mansioni svolte nei due anni precedenti, con le stesse modalità…In tale ottica, il preteso diverso inquadramento potrebbe anche rilevare più sotto il profilo d ell’intento di
non incorrere nei rigori della nuova disciplina, che sotto quello della effettiva diversa collocazione del lavoratore nella compagine aziendale’, sentenza, p. 9, primo e ultimo cpv.).
La sentenza d’appello è giunta ad una decisione di merito conforme ai principi di diritto enunciati da questa Corte, dovendosi unicamente correggere la motivazione in diritto, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma c.p.c.., nel senso della declaratoria di nullità del contratto di somministrazione per elusione di norme imperative in punto di temporaneità della somministrazione, confermandosi le rimanenti statuizioni di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in capo alla società utilizzatrice e condanna della stessa al risarcimento del danno, come già liquidato.
Il quarto motivo di ricorso che investe la disciplina transitoria è inammissibile per difetto di specificità perché non indica in alcun modo quali contratti, quali proroghe e rinnovi e in quali date sarebbero stati conclusi.
Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 6.000,00 per compensi professionali, euro 200,00
per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio dell’udienza pubblica