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Società partecipate: stop al blocco stipendiale

Una ex dipendente di un’azienda a controllo pubblico ha richiesto il pagamento di differenze retributive derivanti dal rinnovo del CCNL. L’azienda si è opposta, invocando il blocco stipendiale applicato al settore pubblico. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda, affermando che il rapporto di lavoro nelle società partecipate è di natura privatistica. Di conseguenza, il blocco stipendiale pubblico non si estende automaticamente e qualsiasi modifica dei trattamenti economici deve passare attraverso la contrattazione di secondo livello, non potendo essere imposta unilateralmente.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Società Partecipate e Stipendi: la Cassazione esclude il Blocco Automatico

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26344/2025, ha affrontato un tema cruciale per i dipendenti delle società partecipate da enti pubblici: l’applicabilità del blocco stipendiale previsto per il settore pubblico. La pronuncia stabilisce un principio fondamentale: il rapporto di lavoro in queste società è di natura privatistica e, pertanto, non soggetto automaticamente ai vincoli del pubblico impiego. Eventuali misure di contenimento dei costi devono essere negoziate tramite la contrattazione di secondo livello.

Il Caso: Aumenti Contrattuali Negati in una Società a Controllo Pubblico

Una lavoratrice, già dipendente di una società interamente partecipata dalla Città Metropolitana, ha richiesto il pagamento delle differenze retributive maturate tra il 2015 e il 2018, a seguito del rinnovo del CCNL del settore terziario. La società datrice di lavoro si era rifiutata di corrispondere gli aumenti, sostenendo di dover rispettare le normative sul contenimento della spesa pubblica, inclusi i blocchi stipendiali imposti al pubblico impiego.

Mentre il Tribunale aveva dato ragione all’azienda, la Corte d’Appello aveva parzialmente accolto la domanda della lavoratrice, riconoscendo gli aumenti solo a partire dal 1° gennaio 2016. La questione è quindi giunta dinanzi alla Corte di Cassazione, su ricorso della società, che insisteva sulla legittimità del mancato adeguamento retributivo.

La Questione Giuridica: Diritto Privato vs. Vincoli Pubblici nelle società partecipate

Il cuore della controversia risiede nella natura del rapporto di lavoro all’interno delle società partecipate. Queste entità, pur essendo controllate da enti pubblici, operano sul mercato come soggetti di diritto privato. La Corte doveva quindi stabilire se le norme restrittive sulla spesa per il personale, come il blocco degli stipendi, pensate per le pubbliche amministrazioni, potessero essere estese in modo diretto a queste società.

La società ricorrente sosteneva che il controllo pubblico e la necessità di rispettare i vincoli di bilancio giustificassero il mancato adeguamento automatico degli stipendi, anche in presenza di un rinnovo del CCNL di diritto privato. La Cassazione, tuttavia, ha seguito un percorso argomentativo diverso, ricostruendo l’evoluzione normativa in materia.

La Disciplina delle Società Partecipate: Un Quadro Normativo in Evoluzione

La Corte Suprema ha ribadito un principio consolidato: la partecipazione pubblica non altera la natura privata della società. Il rapporto di lavoro dei suoi dipendenti è disciplinato dal Codice Civile, dalle leggi sul lavoro privato e dalla contrattazione collettiva di settore, non dalle norme sul pubblico impiego (D.Lgs. 165/2001).

Sebbene in passato la legislazione abbia imposto alle società partecipate di adeguare le politiche del personale ai principi di contenimento dei costi delle amministrazioni controllanti, l’evoluzione normativa, in particolare a partire dalla legge n. 147 del 2013 e confluita poi nel Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica (D.Lgs. 175/2016), ha delineato un percorso specifico.

Il Ruolo Cruciale della Contrattazione di Secondo Livello

La normativa attuale, come interpretata dalla Cassazione, prevede che gli obiettivi di contenimento dei costi del personale debbano essere perseguiti attraverso la contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale o territoriale). Questo significa che l’azienda non può unilateralmente decidere di disapplicare gli aumenti previsti dal contratto nazionale. Deve, invece, avviare un negoziato con le organizzazioni sindacali per trovare un accordo che, eventualmente, possa derogare in senso peggiorativo ai diritti dei lavoratori, ma solo per salvaguardare la stabilità aziendale e i livelli occupazionali. L’inciso “ove possibile”, presente nella legge, non autorizza un’azione unilaterale, ma impone agli amministratori di tentare la via dell’accordo, senza essere ritenuti responsabili in caso di fallimento del negoziato.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di ricorso della società. I giudici hanno chiarito che il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 178/2015 era errato, poiché quella pronuncia riguardava specificamente il blocco della contrattazione per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, un contesto giuridico diverso da quello dei dipendenti delle società partecipate. Il sistema normativo per queste ultime si è evoluto in una direzione che pone al centro l’autonomia negoziale delle parti attraverso la contrattazione di secondo livello.

Di conseguenza, la mancata applicazione degli aumenti previsti dal CCNL, in assenza di un accordo sindacale specifico, costituisce un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro. Le direttive dell’ente pubblico controllante o le decisioni unilaterali degli amministratori non sono sufficienti a derogare ai diritti economici che derivano dalle fonti regolative del rapporto di lavoro privato.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un importante principio di tutela per i lavoratori delle società partecipate. Afferma che la natura privatistica del loro rapporto di lavoro prevale sui tentativi di estensione automatica dei vincoli del pubblico impiego. Per le aziende, la decisione chiarisce che la gestione dei costi del personale non può passare da decisioni unilaterali, ma deve essere affidata al dialogo sociale e agli strumenti della contrattazione collettiva. Questo garantisce un equilibrio tra le esigenze di bilancio dell’ente pubblico e la salvaguardia dei diritti retributivi dei dipendenti, in linea con i principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione sanciti dall’art. 36 della Costituzione.

Il blocco stipendiale previsto per il pubblico impiego si applica automaticamente ai dipendenti delle società partecipate?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle società partecipate sono regolati dal diritto privato. Pertanto, il blocco stipendiale valido per le pubbliche amministrazioni non si estende automaticamente a loro.

Come può una società partecipata contenere il costo del lavoro e limitare gli aumenti salariali?
Secondo la sentenza, l’unico strumento legittimo per modificare i trattamenti economici previsti dal CCNL è la contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale o territoriale). L’azienda non può decidere unilateralmente di non applicare gli aumenti contrattuali.

La decisione della Corte Costituzionale n. 178/2015 sul blocco della contrattazione pubblica è rilevante per le società partecipate?
No. La Corte ha chiarito che quella pronuncia riguardava esclusivamente il blocco della contrattazione per il personale delle pubbliche amministrazioni (soggetto al D.Lgs. 165/2001) e non può essere estesa ai rapporti di lavoro di diritto privato, come quelli nelle società partecipate.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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