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Risoluzione per mutuo consenso: la Cassazione decide

Un musicista, assunto con contratti a termine da una fondazione teatrale, ha contestato l’illegittimità della clausola del termine. La Corte d’Appello ha respinto la sua domanda, ritenendo che il rapporto di lavoro si fosse risolto per mutuo consenso, data la prolungata inattività del lavoratore per sette anni e la percezione del TFR. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, dichiarando il ricorso inammissibile. Ha stabilito che l’accertamento della volontà delle parti di sciogliere il contratto è una valutazione di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizi specifici non riscontrati nel caso.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Risoluzione per Mutuo Consenso: Quando il Silenzio Vale Più di Mille Parole

La fine di un rapporto di lavoro non sempre avviene tramite licenziamento o dimissioni formali. Esiste una terza via, la risoluzione per mutuo consenso, che si verifica quando datore di lavoro e dipendente concordano di interrompere il contratto. Ma cosa succede se questo accordo non è scritto? Un’ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su come comportamenti concludenti, come una lunga inattività, possano significare la volontà comune di chiudere un rapporto, anche in assenza di comunicazioni esplicite.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda un musicista, impiegato come “professore d’orchestra”, assunto da una nota fondazione teatrale attraverso una serie di contratti a tempo determinato. Il lavoratore sosteneva che tali contratti fossero illegittimi, in quanto miravano a coprire esigenze stabili e strutturali dell’orchestra, e non eventi specifici. Per questo motivo, ha chiesto al Tribunale di dichiarare l’illegittimità della clausola del termine, con la conseguente conversione del rapporto in un contratto a tempo indeterminato e il relativo risarcimento dei danni.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, tuttavia, hanno respinto le sue richieste. La decisione dei giudici di merito si è basata su un punto cruciale: dopo la fine dell’ultimo contratto, il lavoratore era rimasto completamente inerte per ben sette anni, senza mai offrire la propria prestazione lavorativa alla fondazione. Questo lungo silenzio, unito alla percezione del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), è stato interpretato come un chiaro segnale della volontà di entrambe le parti di considerare concluso il rapporto di lavoro.

La Decisione della Corte: la Risoluzione per Mutuo Consenso Implicita

Di fronte al rigetto in appello, il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando una violazione delle norme sull’interpretazione del contratto (artt. 1362 e 1372 c.c.) e sostenendo che i giudici non avessero adeguatamente verificato l’esistenza di una “chiara e certa comune volontà delle parti di porre fine al rapporto”.

La Corte di Cassazione, con la sua ordinanza, ha dichiarato il ricorso inammissibile. Gli Ermellini hanno ribadito un principio consolidato: l’accertamento della sussistenza di una volontà concorde delle parti di sciogliere il contratto è un’indagine di fatto, che spetta esclusivamente al giudice di merito. Questa valutazione non può essere messa in discussione in sede di legittimità, a meno che non si denunci un vizio di motivazione nei ristretti limiti previsti dal codice di procedura civile.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che il ricorrente, pur invocando formalmente una violazione di legge, stava in realtà cercando di ottenere una nuova e diversa valutazione dei fatti, cosa non consentita in Cassazione. I giudici di merito avevano fondato la loro decisione non solo sul lungo lasso di tempo trascorso (il “fattore temporale”), ma anche su altri “elementi fattuali” significativi.

Tra questi, la percezione del TFR e la breve durata complessiva dei contratti (quattro rapporti nell’arco di sei mesi) sono stati considerati elementi sintomatici, che rafforzavano l’idea che non vi fossero aspettative di prosecuzione del rapporto. La Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto che l’inerzia prolungata per sette anni, sommata a questi altri indizi, costituisse un comportamento concludente inequivocabile, dal quale desumere la volontà implicita di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro.

Inoltre, la Cassazione ha dichiarato inammissibile anche il motivo con cui il lavoratore si doleva della mancata ammissione di una prova testimoniale, poiché la valutazione sulla rilevanza e decisività delle prove spetta all’apprezzamento discrezionale del giudice del merito.

Conclusioni

Questa ordinanza offre importanti spunti pratici. In primo luogo, conferma che la risoluzione per mutuo consenso di un rapporto di lavoro non necessita obbligatoriamente di un accordo scritto. Può essere desunta da comportamenti concludenti delle parti, a condizione che siano chiari, univoci e incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto.

In secondo luogo, il fattore tempo è determinante: un’inerzia prolungata e ingiustificata da parte del lavoratore dopo la scadenza di un contratto a termine può essere interpretata come accettazione della fine del rapporto. Infine, la decisione ribadisce i limiti del giudizio in Cassazione: la Suprema Corte non è un terzo grado di merito e non può rivalutare le prove o i fatti già esaminati dai giudici delle istanze precedenti, ma si limita a verificare la corretta applicazione della legge e la coerenza logica della motivazione.

Un rapporto di lavoro può terminare per mutuo consenso anche senza un accordo scritto?
Sì. Secondo la Corte, la volontà comune delle parti di porre fine al rapporto può essere desunta anche da comportamenti concludenti, come una prolungata e significativa inattività del lavoratore, che siano incompatibili con l’intenzione di continuare il rapporto lavorativo.

La lunga inattività di un lavoratore dopo la fine di un contratto ha valore legale?
Sì, può avere un valore decisivo. Nel caso esaminato, un’inerzia di sette anni, durante i quali il lavoratore non ha mai offerto la propria prestazione, è stata considerata un elemento fondamentale per ritenere intervenuta la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, specialmente se unita ad altri indizi come la percezione del TFR.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare i fatti di una causa?
No. La Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito non è quello di riesaminare i fatti o le prove, ma di verificare che i giudici dei gradi precedenti abbiano applicato correttamente le norme di legge e abbiano motivato la loro decisione in modo logico e non contraddittorio. La valutazione dei fatti spetta esclusivamente ai tribunali di primo e secondo grado.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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