Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11031 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11031 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/04/2025
Oggetto: marchio
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21827/2023 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv. NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 5810/2020, depositata il 15 settembre 2023.
Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del quinto motivo del ricorso e il rigetto dei restanti.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 marzo 2025
dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, depositata il 15 settembre 2023, che, in riforma della sentenza del locale Tribunale, ha accertato che la medesima RAGIONE_SOCIALE, attraverso la commercializzazione e pubblicizzazione dei gioielli della linea «RAGIONE_SOCIALE», si era resa responsabile della contraffazione del marchio «Gancini», nazionale (n. 1540130) e dell’Unione Europea (n. 103432), di titolarità della RAGIONE_SOCIALE, nonché del compimento di atti di concorrenza sleale ai danni di quest’ultima , disponendo le conseguenziali pronunce inibitorie, di fissazione di penale per ogni inosservanza della sua decisione e di ordine del ritiro dal commercio e distruzione dei beni in contraffazione e del relativo materiale pubblicitario, e la ha condannata alla restituzione in favore della RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE degli utili realizzati con gli accertati illeciti, nella misura di euro 14.735,58, e al risarcimento dei danni derivanti dagli illeciti, liquidati in euro 2.869,42, il tutto oltre rivalutazione monetaria dalla data di deposito della c onsulenza tecnica d’ufficio e interessi;
la Corte di appello ha riferito che il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda della RAGIONE_SOCIALE aveva accertato che la produzione e commercializzazione dei prodotti della linea marchio RAGIONE_SOCIALE della linea di gioielli RAGIONE_SOCIALE non costituiva contraffazione del marchio «Gancini», né atto di concorrenza sleale nei confronti della medesima società convenuta e, conseguenzialmente, aveva respinto le domande riconvenzionali formulate da quest’ultima di contraffazione dei predetti marchi e di concorrenza sleale;
ha, quindi, accolto il gravame della RAGIONE_SOCIALE evidenziando che la valutazione comparativa dei segni in conflitto conduceva a ritenere sussistente il dedotto rischio di confusione, avuto inoltre riguardo al carattere «forte» dei marchi vantati dalla società,
oltre che della loro rinomanza;
ha, quindi, condannato la odierna ricorrente sia alla restituzione degli utili conseguiti dalla vendita dei gioielli in contraffazione di tali marchi, sia al pagamento di un importo pari al valore delle royalties per la concessione della facoltà di utilizzo dei segni protetti;
il ricorso è affidato a cinque motivi;
resiste la RAGIONE_SOCIALE;
le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell ‘art. 20 c.p.i., per aver la Corte di appello ritenuto sussistente la contraffazione dei marchi dedotti in giudizio a causa del ricorso a una particolare forma dei beni commercializzati (gioielli della linea «RAGIONE_SOCIALE») priva di carattere distintivo essendo volta unicamente a conferire al prodotto un valore estetico;
sottolinea che, in ogni caso, nel condurre il giudizio di somiglianza tra un marchio registrato e la forma di un prodotto altrui il giudice di appello non avrebbe dovuto tener conto della forma (o della parte di forma) del prodotto intrinsecamente funzionale alla sua natura e alla sua utilizzazione;
infatti, i marchi non sarebbero proteggibili nella parte in cui si risolvono nella rappresentazione di forme che danno valore sostanziale al prodotto, per cui il giudizio di confondibilità andrebbe svolto tenendo conto dei soli elementi distintivi dei segni in conflitto, senza valutare gli elementi estetici o necessitati;
il motivo è inammissibile;
va premesso, al fine di fugare il dubbio espresso dalla ricorrente, che la sentenza di appello ha ritenuto sussistenza la contraffazione denunciata in ragione della violazione del diritto esclusivo di cui agli artt. 20, lett. b), c.p.i. e 9, par. 2, R.M.U.E.;
una siffatta conclusione si impone sia dal contenuto della domanda
della RAGIONE_SOCIALE così come riportata dalla Corte di appello, cui è estraneo il riferimento ad altre disposizioni che riconoscono diritti esclusivi al titolare del marchio, sia dal contenuto della stessa decisione nella parte in cui pone a suo fondamento, accertandolo, il rischio di confusione per il pubblico che, come noto, costituisce un elemento delle fattispecie di cui ai predetti artt. 20, lett. b), c.p.i. e 9, par. 2, R.M.U.E.;
ciò posto, si rileva che la ricorrente allega la mancata considerazione del fatto che l’uso del marchio altrui era avvenuto in funzione non distintiva, risolvendosi nella ripresa di elementi estetici o necessitati e, conseguentemente, contesta la correttezza della valutazione di confondibilità operata dalla Corte territoriale che avrebbe ignorato tale aspetto;
orbene, si osserva che la doglianza si fonda su un assunto, consistente nel fatto che l’uso del marchio altrui era avvenuto in funzione non distintiva, limitandosi alla ripresa di forme estetiche o necessitate, di cui non vi è alcun riscontro nella sentenza impugnata;
il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile, dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente, si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, a esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass. 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715);
la censura in esame non rispetta, dunque, tale limite;
può, in ogni caso, aggiungersi che la percezione da parte del pubblico di un segno come ornamento non rappresenta un ostacolo alla protezione conferita dagli artt. 20, lett. b), c.p.i. e 9, par. 2, R.M.U.E. allorché, nonostante il suo carattere decorativo, il detto segno presenta una somiglianza con il marchio registrato tale che il pubblico
interessato può credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o, eventualmente, da imprese collegate economicamente (così, Corte Giust. UE 10 aprile 2008, causa C-102/07, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE ; Corte Giust. UE 23 ottobre 2003, causa C-408/01, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE tra la giurisprudenza nazionale, Cass. 17 ottobre 2018, n. 26601);
più, in generale, non si può tener conto dell’imperativo di disponibilità -apparentemente invocato, sia pure implicitamente, dalla ricorrente con la deduzione della forma necessitata dei suoi prodotti -all’atto della valutazione dell’estensione del diritto esclusivo del titolare d i un marchio, salvo nella misura in cui trova applicazione la limitazione degli effetti del marchio definita dagli artt. 21 c.p.i. e 14 R.M.U.E. (cfr. la menzionata Corte Giust. UE 10 aprile 2008, causa C-102/07, Adidas e adidas Benelux );
la questione dell ‘applicabilità di tali ultime disposizioni al caso in esame, tuttavia, non risulta essere introdotta nel giudizio di merito, né, tanto meno, in questa sede;
con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell ‘art. 20 c.p.i., l’omessa motivazione, nonché l’omesso esame di fatti decisivi e controversi del giudizio, nella parte in cui non ha considerato che i diritti esclusivi riconosciuti al titolare del marchio dall’art. 20, primo comma, lett. c), c.p.i. richiedono che l’accertamento dell’assenza di un giusto motivo nell’uso del segno identico o simile da parte del terzo e che, nel caso in esame, la forma necessitata dalla specifica funzione di gioiello costituiva un siffatto giusto motivo;
il motivo è inammissibile;
la doglianza pone a suo fondamento il fatto che la sentenza abbia ritenuto applicabile la fattispecie di cui all’art. 20, primo comma, lett. c), c.p.i. e conseguentemente riconosciuto ai marchi la tutela propria dei marchi che godono di rinomanza;
come rilevato in precedenza, tuttavia, la decisione impugnata ha fatto
applicazione della diversa fattispecie di cui all’art. 20, primo comma, lett. b), c.p.i., per cui la censura si rivela priva della necessaria concludenza;
con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c od. c iv., nonché l’omessa motivazione o, in subordine, l’omesso esame di fatti decisivi e controversi del giudizio, nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto sussistente l’illecito concorrenziale senza specificare di quale delle fattispecie normativamente previste fossero stati ritenuti sussistenti i relativi elementi costitutivi;
-lamenta, altresì, l’apoditticità della affermazione secondo la quale la odierna ricorrente avrebbe tratto vantaggi indebiti dall’agganciamento al marchio della controricorrente , nonché l’omessa considerazione del fatto che ogni anno la ricorrente commercializzava nuove linee di gioielli, che il periodo di coesistenza dei suoi prodotti con quelli tutelati dai marchi della controricorrente è stato circoscritto a tre anni (tra il 2015 e il 2017) e che la sua attività di vendita (che ha interessato, nel periodo in osservazione, 109 pezzi) avveniva esclusivamente in boutique monomarca a prezzi significativamente diversi da quelli ai quali erano venduti, nelle rispettive boutique monomarca, i prodotti della controricorrente;
il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile;
-la Corte di appello ha ritenuto che l’accertata contraffazione dei marchi della controricorrente assumesse rilevanza anche quale atto di concorrenza sleale, «non essendovi dubbio alcuno sui vantaggi indebiti che RAGIONE_SOCIALE ha ricavato nell’agganciarsi al ben più noto marchio RAGIONE_SOCIALE»;
-una siffatta motivazione consente di individuare l’ iter argomentativo seguito dal giudice, per cui si sottrae alla censura di apparenza della motivazione, avuto riguardo al ribadito principio secondo cui il sindacato di legittimità sulla motivazione si è ormai ridotto alla verifica
del rispetto del cd. minimo costituzionale che nel caso in esame risulta essere presente (cfr. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; nello stesso senso, più recentemente, Cass. 16 maggio 2024, n. 13621; Cass. 11 aprile 2024, n. 9807; Cass. 7 marzo 2024, n. 6127);
inammissibile è, poi, la doglianza in relazione alla prospettata violazione del paradigma di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., avuto riguardo sia alla mancata indicazione della loro avvenuta allegazione nel corso del giudizio di merito, tale da non consentire l’apprezzamento in ordine al loro carattere controverso, sia, comunque, alla non decisività dei fatti asseritamente omessi, in quanto inidonei a condurre, anche laddove dimostrati, a un diverso esito del giudizio;
inammissibile è, infine, il motivo in relazione al profilo attinente alla violazione di legge, in quanto non si confronta con la ratio decidendi , consistente nel compimento di condotte confusorie e, nella parte in cui contesta l’accertamento della Corte territoriale in ordine all’agganciamento al marchio della controricorrente, in quanto si risolve in una critica alla accertamento dei fatti operata dal giudice di merito che, essendo a questa riservata, non può essere sindacata in questa sede in relazione al paradigma della violazione o falsa applicazione della legge;
con il quarto motivo la ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 126 c.p.i., nella parte in cui ha disposto la pubblicazione del dispositivo, in termini più ampi di quelli indicati nel corrispondente provvedimento emesso in sede cautelare ( all’esito del reclamo della controricorrente), benché nessuna modifica nei fatti fosse sopravvenuta, non assumendo rilevanza il fatto che il precedente ordine era rimasto inevaso;
il motivo è inammissibile;
la pubblicazione in uno o più giornali della sentenza che accerti la violazione dei diritti di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 126, primo
comma, c.p.i., costituisce una misura discrezionale non collegata all’accertamento del danno, trattandosi di una sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso, analogamente a quanto previsto dall’art. 2600 c.c. in materia di concorrenza sleale, con la conseguenza che la decisione in ordine alla sua adozione e, eventualmente, delle modalità con le quali esso deve essere eseguito, non è sindacabile in questa sede (cfr. Cass. 25 marzo 2024, n. 7972; Cass. 7 aprile 2022, n. 11362; Cass. 22 luglio 2015, n. 18692; Cass. 12 marzo 2014, n. 5722);
-con l’ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell ‘art. 125 c.p.i., per aver il giudice di appello disposto la condanna della ricorrente sia alla restituzione degli utili conseguiti a seguito dell’attività asseritamente contraffattoria, sia al pagamento di una somma pari al valore delle royalties relative all’acquisto della facoltà di usare i marchi contraffatti;
il motivo è fondato;
-giova rammentare che l’art. 125 , primo comma, c.p.i., nel dettare i criteri per il risarcimento dovuto al danneggiato conseguente alla violazione dei diritti di proprietà industriale, richiama, al primo comma, in linea generale la disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, ossia gli art. 1223, 1226 e 1227 cod. civ., specificando che il giudice, nel liquidare il danno secondo tali criteri, deve tener conto «di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione»;
il secondo comma prevede che la liquidazione del danno può essere effettuata anche «in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano», aggiungendo che in questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non
inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso;
-questa disposizione contempla una valutazione del danno semplificata, anche rispetto all’ammissibile valutazione equitativa dello stesso, che pone il giusto prezzo del consenso come limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, alla quale, però, il giudice non può fare ricorso in via esclusiva a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, ostandovi l’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (cfr. Cass. 2 marzo 2021, n. 5666);
-il terzo comma dell’art. 125 stabilisce, infine, che «In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento»;
tale disposizione introduce un criterio di liquidazione alternativo o complementare al lucro cessante che risponde a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva e deterrente, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato, nella parte in cui consente al titolare del diritto di chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, in quanto non (ancora) dedito allo sfruttamento della privativa ovvero meno efficiente, meno attrezzato o meno dimensionato del contraffattore (cfr. Cass. 29 luglio 2021, n. 21832);
una siffatta logica non è ontologicamente incompatibile con la funzione assegnata dal nostro ordinamento alla responsabilità civile, cui non è affidato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile (cfr., sulla concezione polifunzionale della responsabilità civile nel
nostro ordinamento, Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601);
dal riferito quadro normativo si evince che l’art. 125 c.p.i. prevede tre criteri di liquidazione del lucro cessante, distinti tra loro sia nei presupposti, sia nelle funzioni, in rapporto di alternatività l’uno con l’altro , in quanto preordinati a riparare il medesimo pregiudizio, consistente nella impossibilità per il titolare della privativa di trarre i profitti derivanti dallo sfruttamento della stessa a causa della contraffazione (cfr. Cass. 9 novembre 2023, n. 31170);
-da ciò consegue che la Corte di appello, nel riconoscere cumulativamente sia il risarcimento del danno liquidato secondo il criterio della retroversione degli utili, sia il risarcimento del danno liquidato secondo il criterio della giusta royalty , non ha fatto corretta applicazione delle richiamate norme di diritto, dando ingresso a una potenziale duplicazione degli importi risarcitori per il lucro cessante complessivamente considerato;
peraltro, il giudice del rinvio potrà considerare che con rifermento al criterio della giusta royalty l’alternatività dei criteri è temperata dalla previsione per cui tale criterio segna solo il limite inferiore del lucro cessante, per cui il giudice, nel rispetto del limite del divieto della duplicazione di liquidazione del danno in relazione al medesimo pregiudizio, può incrementare il valore risultante dall’applicazione di tale criterio qualora ciò sia giustificato dalle risultanze degli atti di causa e delle presunzioni che ne derivano;
in tal senso, può ipotizzarsi che una maggiorazione di tale importo possa derivare dalla necessità, oltre che di evitare che una indebita parificazione della posizione del contraffattore a quella del legittimo licenziatario, di prendere in considerazione eventuali maggiori oneri e rischi gravanti sul licenziatario, con particolare riferimento a eventuali sopravvenienze contrattuali a lui sfavorevoli;
la sentenza impugnata va, dunque, cassata con riferimento al motivo accolto e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in