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Risarcimento danno da mobbing: quando è inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un insegnante che chiedeva un risarcimento danno da mobbing. La Corte ha stabilito che un generico clima di conflittualità non è sufficiente a provare il mobbing, per il quale è necessario dimostrare un intento persecutorio sistematico e reiterato. Inoltre, ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti, ma di verificare la corretta applicazione della legge.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Risarcimento danno da mobbing: la Cassazione chiarisce i limiti della prova

L’ordinanza in esame offre importanti chiarimenti sulla distinzione tra un ambiente di lavoro conflittuale e una vera e propria condotta di mobbing, delineando i presupposti necessari per ottenere un risarcimento danno da mobbing. La Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso di un docente, ha ribadito principi fondamentali sul riparto delle prove e sui limiti del proprio giudizio.

I fatti del caso: un insegnante contro l’amministrazione scolastica

Un insegnante di un istituto tecnico statale aveva intentato una causa contro il Ministero dell’Istruzione e la propria scuola, chiedendo il risarcimento per i danni biologici e morali subiti. A suo dire, questi danni erano la conseguenza di un comportamento illegittimo, vessatorio, persecutorio e discriminatorio da parte dell’amministrazione scolastica.

Sia il Tribunale in primo grado sia la Corte d’Appello avevano respinto la sua domanda. Secondo i giudici di merito, sebbene fosse emersa una situazione di conflittualità interpersonale, non erano state provate la sistematicità, la reiterazione e la persecutorietà delle condotte, elementi indispensabili per configurare il mobbing. In sostanza, il contrasto esistente non era sufficiente a dimostrare un preciso intento vessatorio da parte del datore di lavoro.

I motivi del ricorso e il giudizio sul risarcimento danno da mobbing

L’insegnante ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. Omesso esame di un fatto decisivo: Il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello non avesse considerato adeguatamente tutti gli episodi denunciati, la cui valutazione complessiva sarebbe stata essenziale per comprendere la reale portata persecutoria delle condotte.
2. Violazione di legge: Collegato al primo motivo, il docente denunciava la violazione delle norme a tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore (come l’art. 2087 c.c.), sostenendo che la conflittualità accertata non potesse giustificare un comportamento deliberatamente volto a danneggiarlo.

La Corte di Cassazione ha trattato congiuntamente i due motivi, ritenendoli strettamente connessi, e li ha dichiarati entrambi inammissibili. La decisione sottolinea un punto cruciale: il ricorso non denunciava un vero errore di diritto, ma mirava a ottenere una nuova e diversa valutazione dei fatti e delle prove, un’attività che non rientra nelle competenze della Corte di Cassazione.

Le motivazioni della decisione

La Suprema Corte ha spiegato che la Corte d’Appello non aveva affatto ignorato gli episodi denunciati. Al contrario, li aveva esaminati sia singolarmente sia nel loro insieme, concludendo che non integravano gli elementi costitutivi del mobbing, né una violazione più generale dell’obbligo di protezione del lavoratore previsto dall’art. 2087 del codice civile.

In particolare, i giudici di merito avevano evidenziato che:
– Nessuno degli episodi era stato “creato ad arte” al solo scopo di danneggiare il docente.
– Esisteva un “clima teso”, alimentato anche da numerosi esposti di alunni e genitori nei confronti dell’insegnante.
– Le decisioni prese dai dirigenti scolastici, pur avvenendo in questo contesto, non assumevano una connotazione di “complessiva persecutorietà” o di “singolare ingiustificatezza”.

Di conseguenza, il tentativo del ricorrente di presentare una propria interpretazione del materiale probatorio si è scontrato con il limite del giudizio di legittimità. La valutazione della rilevanza delle prove e la ricostruzione dei fatti sono compiti rimessi alla discrezionalità del giudice di merito, e il suo operato non è sindacabile in Cassazione se, come in questo caso, la motivazione è logica e coerente.

Le conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio consolidato in materia di risarcimento danno da mobbing: non basta provare l’esistenza di un ambiente di lavoro ostile o di episodi di conflitto per ottenere tutela. È onere del lavoratore dimostrare un disegno persecutorio unitario, caratterizzato da condotte sistematiche e reiterate nel tempo, finalizzate a ledere la sua dignità e la sua professionalità.

La decisione conferma, inoltre, che la Corte di Cassazione non è un “terzo grado di giudizio” dove poter ridiscutere i fatti. Il ricorso è ammissibile solo se si denunciano vizi specifici della sentenza impugnata, come la violazione di norme di diritto o un’anomalia motivazionale grave, e non quando ci si limita a contestare l’apprezzamento delle prove operato dal giudice di merito.

Una situazione di conflittualità sul lavoro è sufficiente per ottenere un risarcimento per mobbing?
No. Secondo l’ordinanza, una semplice situazione di conflittualità interpersonale non è sufficiente. Per configurare il mobbing e ottenere il risarcimento, è necessario provare la sistematicità, la reiterazione nel tempo e l’intento persecutorio da parte del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove e i fatti di una causa?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che non può compiere una nuova valutazione dei fatti o del materiale istruttorio. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata, non giudicare nuovamente il merito della vicenda.

Cosa deve dimostrare un lavoratore per provare di aver subito un danno da comportamento vessatorio?
Il lavoratore deve dimostrare che gli episodi denunciati non sono semplici manifestazioni di un clima teso o di conflitti, ma costituiscono un insieme di condotte con un’unica finalità persecutoria, mirate a danneggiarlo e isolarlo. Deve provare l’esistenza di un preciso intento vessatorio da parte del datore di lavoro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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