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Risarcimento danni: incarico dirigenziale illegittimo

Una dipendente pubblica ha ottenuto il risarcimento danni per il mancato conferimento di un incarico dirigenziale. La Corte di Cassazione ha stabilito che, anche se la procedura si basava su una legge poi dichiarata incostituzionale, il danno era derivato dalla violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte dell’Amministrazione, che non aveva effettuato una reale valutazione comparativa tra i candidati. La condotta illegittima dell’ente pubblico fonda autonomamente il diritto al risarcimento.

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Pubblicato il 23 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Risarcimento Danni per Incarico Dirigenziale Negato: La Buona Fede della P.A. è Decisiva

Il diritto al risarcimento danni per il mancato conferimento di un incarico dirigenziale non viene meno neppure se la procedura di selezione si basa su una norma successivamente dichiarata incostituzionale. Ciò che conta è la condotta concreta dell’amministrazione: se questa viola i principi di correttezza e buona fede, omettendo una reale valutazione comparativa, il candidato escluso ha diritto a essere risarcito. È questo il principio chiave ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 26844/2024.

I fatti del caso

Una dipendente di un’importante Amministrazione Pubblica aveva citato in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del mancato conferimento di un incarico dirigenziale. Tale posizione era stata assegnata a una collega sulla base di una normativa che, in seguito, la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittima.

Inizialmente, il Tribunale di primo grado aveva respinto la domanda della lavoratrice. Il ragionamento del giudice era stato che, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, l’intera procedura di selezione era da considerarsi invalida ex tunc (cioè, fin dall’origine). Di conseguenza, secondo il Tribunale, neanche la ricorrente avrebbe mai potuto aspirare a quell’incarico, facendo così venir meno il suo interesse al giudizio e il diritto a un risarcimento.

La decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello, tuttavia, ha ribaltato la decisione di primo grado. I giudici di secondo grado hanno sottolineato che, sebbene la normativa di base fosse stata annullata, un fatto concreto e dannoso si era comunque verificato: la collega della ricorrente aveva effettivamente svolto l’incarico per un certo periodo, godendo dei relativi benefici economici e di prestigio professionale. Questo aveva creato un danno per la lavoratrice esclusa.

La Corte territoriale ha quindi accertato che l’Amministrazione aveva agito in modo illegittimo, non per aver applicato una norma poi rivelatasi incostituzionale, ma per averlo fatto violando i principi fondamentali di correttezza e buona fede. Nello specifico, la nomina era avvenuta senza alcun esame comparativo tra i candidati e senza una motivazione adeguata, ledendo così l’interesse legittimo della lavoratrice a una selezione trasparente e compromettendo le sue elevate probabilità (chance) di ottenere l’incarico. Di conseguenza, la Corte d’Appello ha liquidato un danno in via equitativa a favore della dipendente.

L’appello e la conferma del risarcimento danni

L’Amministrazione Pubblica ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo principalmente che la declaratoria di incostituzionalità avesse travolto ogni pretesa, eliminando alla radice l’esistenza di un danno ingiusto. Secondo l’ente, se la procedura era illegittima per tutti, nessuno poteva vantare un diritto a quell’incarico e, quindi, a un risarcimento.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza d’appello e il diritto della lavoratrice al risarcimento danni.

Le motivazioni della Cassazione

I giudici supremi hanno chiarito un punto fondamentale: la questione non riguardava gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale, ma la condotta specifica e autonoma dell’Amministrazione durante la procedura di selezione. La Corte d’Appello aveva correttamente individuato un profilo di illegittimità distinto e autonomo: la violazione delle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.).

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: anche nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali sono determinazioni negoziali assunte con i poteri del datore di lavoro privato. Questo non significa, però, che l’amministrazione abbia carta bianca. Al contrario, essa è tenuta a rispettare i criteri di massima indicati dalla legge (come l’art. 19 del D.Lgs. 165/2001) e, soprattutto, i principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.), che si traducono nell’obbligo di agire secondo correttezza e buona fede.

Nel caso specifico, l’ente pubblico aveva attribuito l’incarico senza alcuna valutazione comparativa, senza esaminare la professionalità dei candidati e senza motivare la scelta. Questa condotta, a prescindere dalla successiva sorte della norma applicata, costituiva una violazione dei doveri di un corretto datore di lavoro e aveva causato un danno ingiusto alla dipendente esclusa, la quale aveva perso la concreta possibilità di ottenere la promozione.

Le conclusioni

L’ordinanza della Cassazione offre un’importante lezione: la responsabilità della Pubblica Amministrazione come datore di lavoro non è attenuata dal contesto normativo. Anche quando applica leggi speciali, è sempre vincolata ai principi cardine di correttezza e buona fede che governano i rapporti contrattuali. Una selezione non trasparente, priva di comparazione e motivazione, genera un danno risarcibile per perdita di chance, indipendentemente dal fatto che l’intera impalcatura normativa della procedura crolli per incostituzionalità. Il diritto del lavoratore a una selezione equa è un valore autonomo che, se leso, deve trovare tutela.

È possibile ottenere un risarcimento danni per il mancato conferimento di un incarico se la procedura si basa su una norma poi dichiarata incostituzionale?
Sì, è possibile. La Corte di Cassazione ha chiarito che il diritto al risarcimento non deriva dall’incostituzionalità della norma, ma dalla condotta illegittima e autonoma dell’amministrazione che ha violato i principi di correttezza e buona fede, ad esempio omettendo di effettuare una valutazione comparativa tra i candidati.

La Pubblica Amministrazione, nell’assegnare incarichi, deve agire come un datore di lavoro privato?
Sì. Nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali sono considerati determinazioni negoziali. Pertanto, l’Amministrazione è tenuta a rispettare le clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), oltre ai principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.).

Cosa si intende per violazione dei principi di correttezza e buona fede in una procedura di selezione?
Significa procedere a un’assegnazione senza effettuare alcuna sostanziale valutazione comparativa, omettendo l’esame della professionalità dei vari candidati e non fornendo alcuna motivazione per la scelta effettuata. Tale condotta lede l’interesse del candidato escluso a una selezione equa e trasparente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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