Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1062 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 1062 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13720/2018 R.G. proposto da
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE Capitolina , in persona del legale rappresentante pro tempore ,
NOME COGNOME che la rappresenta e difende
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4175/2017, depositata il 15.11.2017 de lla Corte d’Appello di Roma;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19.12.2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il ricorrente convenne in giudizio davanti al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, l’azienda speciale RAGIONE_SOCIALE, di cui era stato direttore generale, per chiederne la condanna al risarcimento dei danni provocati dal l’illegittima risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, asseritamente rinnovatosi -per un ulteriore triennio -a decorrere dal 3.6.2012, nonostante la mancata conferma comunicata il 1°.3.2012 dal datore di lavoro, il quale aveva però poi disposto la temporanea prosecuzione del rapporto per l’approvazione del bilancio e per garantire la continuità dell’a ttività ordinaria dell’Azienda .
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale respinse la domanda e la sentenza di primo grado venne confermata dalla Corte d’Appello di Roma, rigettando l’impugnazione proposta dal dirigente.
Contro la sentenza della C orte d’ Appello, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. FARMACAP si è difesa con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi de ll’ art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. , «violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 4 del r.d. 2578/1925 nonché dell’art. 35 del d.P.R. n. 902/1986».
Il ricorrente rileva che la proroga provvisoria dell’ incarico non è prevista dal «testo unico della legge sull ‘ assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Provincie»
(r.d. 2578 del 1925), in forza del quale «Il direttore … è nominato per il termine di tre anni» e «può essere confermato di triennio in triennio». Sostiene che, pertanto, il trattenimento in servizio dopo la scadenza del 3.6.2012 (e fino al 31.7.2012) avrebbe comportato un ulteriore rinnovo triennale, nonostante la comunicazione di mancata conferma trasmessa dal datore di lavoro il 1°.3.2012, ovverosia con il trimestre di anticipo sulla scadenza previsto dall’art. 35 del d.P.R. n. 902 del 1986.
Il motivo è infondato.
1.1. Si osserva preliminarmente che l’applicabilità, n el caso di specie, delle disposizioni di cui il ricorrente afferma la violazione non è in discussione tra le parti e che tale valutazione delle parti è corretta, in quanto sia l’art. 4 del r.d. n. 2578 del 1925 , sia l’art. 35 del d.P.R. n. 902 del 1986 risultano richiamati dalla contrattazione collettiva (art. 44 CCNL per i dirigenti delle imprese di pubblica utilità siglato il 22.12.2009).
Non viene pertanto in rilievo, nel caso di specie, quanto statuito da Cass. n. 21635/2018, ovverosia che, con la riforma della municipalizzazione che ha avuto inizio con la legge n. 142 del 1990 ed è stata perfezionata da leggi successive e dal testo unico di cui al d.lgs. n. 267 del 2000, il r.d. n. 2578 del 1925 non trova più diretta applicazione nella disciplina delle aziende municipalizzate. Ciò, infatti, non impedisce alle parti sociali di dare contenuto ai contratti collettivi facendo rinvio materiale a quelle norme, anche se ormai prive di diretta efficacia vincolante.
1.2. Il ricorrente sostiene che la durata necessariamente triennale dell’incarico di direttore generale prevista dall’art. 4 del r.d. n. 2578 del 1925 (richiamato dal contratto collettivo),
non solo rende illegittima la proroga provvisoria disposta dal datore di lavoro con comunicazione 1°.6.2012 (valutazione fatta propria anche dalla Corte d’Appello di Roma) , ma comporta l’attribuzione a tale comunicazione del valore negoziale di una conferma nell’incarico per un ulteriore triennio e, quindi, di una revoca della mancata conferma tempestivamente comunicata il 1°.3.2012 (aspetto sul quale, invece, la Corte d’Appello è andata di contrario avviso, con ciò -secondo il ricorrente -violando la norma di diritto risultante dal contratto collettivo e dalle disposizioni di legge richiamate)
La tesi del ricorrente non può essere condivisa. Innanzitutto, nessun dubbio può esserci sulla volontà negoziale espressa dal datore di lavoro con la comunicazione di mancato rinnovo del 1°.3.2012 e anche con la comunicazione di proroga del 1°.6.2012. Quest’ultima, infatti, riportata nel ricorso per cassazione (pagg. 20 e 21), si concludeva « con l’avvertenza che il presente atto di proroga, proprio per le finalità sottostanti la ratio, le circostanze del tutto eccezionali e per le superiori esigenze che lo giustificano, non potrà essere considerato, da parte Sua, un rinnovo tacito del Suo incarico per un ulteriore triennio ». Non vi è modo, pertanto, di sostenere che RAGIONE_SOCIALE abbia inteso revocare, il 1°.6.2012, la dichiarazione di non conferma nell’incarico del 1°.3.2012.
Per quanto riguarda la liceità della proroga provvisoria, non si condivide il giudizio perentorio della Corte territoriale secondo cui si tratterebbe di un incarico nullo, perché «conferito al di fuori limiti logico-giuridici» delineati dalla normativa di riferimento. Sicuramente il contratto collettivo, tramite il rinvio all’art. 4 del r.d. 2578 del 1925, non avrebbe consentito -pur in assenza di un esplicito divieto -il conferimento di un
incarico ordinario di direttore generale di durata diversa, maggiore o minore, rispetto a quella triennale. Ma non altrettanto si può dire di una proroga di pochi mesi motivata esplicitamente con la necessità di fare fronte a esigenze straordinarie collegate al commissariamento dell’Azienda e alle difficoltà (con conseguenti ritardi) nella redazione e nella approvazione del bilancio di esercizio.
Sotto questo profilo, la motivazione della sentenza impugnata merita di essere corretta e integrata, senza che ciò pregiudichi la conformità al diritto del dispositivo (art. 384, comma 4, c.p.c.).
Infatti, anche qualora si volesse ravvisare nelle disposizioni citate un divieto assoluto (a prescindere dalle allegate circostanze eccezionali) di proroga provvisoria del l’incarico , mancherebbe tuttavia una norma che preveda, quale sanzione per la violazione di tale precetto, la trasformazione della proroga (asseritamente) illegittima in una conferma dell’incarico per un ulteriore triennio , nonostante l’esplicita e confermata dichiarazione di volontà in senso contrario da parte del datore di lavoro. L’esistenza di una siffatta norma sanzionatoria è, invece, la clausola implicita della domanda svolta in via principale dal ricorrente, il quale chiede il risarcimento del danno parametrato alla durata triennale dell’incarico di cui ipotizza l’avvenuto rinnovo. Tuttavia, il ricorrente non è in grado di indicare alcuna norma che preveda siffatta conseguenza per la (ritenuta) illegittimità della proroga provvisoria, tant’è che nell’illustrazione del motivo è costretto a ripiegare sull ‘affermazione , in fatto, che il datore di lavoro avrebbe espresso una «volontà di rinnovo rinvenibile nell’atto commiss ariale dell’1 .6.2012» (ricorso per cassazione, pag. 7).
Ma si è appena visto come siffatta affermazione sia smentita dal tempestivo invio della comunicazione di diniego di rinnovo del 1°.3.2012 e dalla esplicita conferma della volontà di non rinnovare il rapporto formulata anche nella comunicazione di proroga del 1°.6.2012.
Per concludere la motivazione su questo primo motivo, merita di essere ricordato il condivisibile orientamento espresso, in ambito analogo, da questa Corte, secondo cui, quando una legge collega la cessazione del rapporto di lavoro ad un determinato evento, prevedendo, inoltre, che tale conseguenza possa essere impedita solo dalla riconferma nell ‘ incarico, la mera prosecuzione di fatto nell ‘ incarico non è idonea a creare incolpevoli affidamenti (Cass. n. 13232/2009, che ha espresso il principio interpreta ndo l’art. 15, comma 6, del la legge della Regione Lazio n. 18 del 1994). A maggior ragione, pertanto, non può produr re l’effetto preteso dal ricorrente una proroga temporanea (non tacita e di fatto , ma) accompagnata da una esplicita dichiarazione di volontà del datore di lavoro contraria alla rinnovazione dell’incarico.
Il secondo motivo di ricorso è rubricato «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione a ll’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.».
Il ricorrente contesta alla Corte d’Appello di avere travisato i fatti affermando che, durante la proroga, l’incarico sarebbe stato limitato «a pochi e ordinari compiti rispetto all’articolato compendio stabilito positivamente». Sostiene, infatti, di avere continuato a svolgere tutte le funzioni inerenti
al suo incarico di direttore generale, come risulterebbe «dalla lettura della copiosa documentazione versata in atti».
Il motivo è inammissibile sotto almeno due profili.
2.1. Innanzitutto, sub specie di denuncia del vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», si richiede in realtà alla Cort e di Cassazione nient’altro che un inammissibile riesame dell’accertamento sul fatto che compete al giudice del merito.
2.2. Inoltre, una volta appurato che la proroga temporanea non era illegittima e che, comunque, anche se illegittima, non avrebbe comportato il rinnovo dell’incarico ex lege , risulta irrilevante stabilire se tale proroga venne disposta soltanto per lo svolgimento di alcuni limitati compiti specifici (come sostenuto da RAGIONE_SOCIALE) o abbia invece comportato lo svolgimento, da parte del ricorrente, di tutte le funzioni del direttore generale (come da lui sostenuto).
Infine, il terzo motivo censura «violazione e falsa applicazione dell’art. 44 CCNL 22.12.2009, in relazione all’ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
Il ricorrente afferma che le disposizioni contenute nel citato articolo del contratto collettivo imponevano al datore di lavoro, con riferimento al suo caso concreto, un termine di preavviso ben più lungo di quello trimestrale (pari a quello che gli sarebbe spettato se il suo contratto fosse stato a tempo indeterminato), con obbligo, in caso di mancata osservanza, di pagare un’indennità pari alle retribuzioni dovute per tutta la durata del ritardo.
Il motivo -che è dunque funzionale all’accoglimento della domanda subordinata svolta dal ricorrente davanti ai giudici di merito -è tuttavia infondato
3.1. L’art. 44 del CCNL 22.12.2009 contiene, nei commi 2, 3 e 4, una disciplina sostanzialmente incompatibile con la regola generale contenuta nel comma 1. Mentre quest’ultimo sancisce che « Per i direttori di azienda, nominati ai sensi dell’art. 4 del R.D. 15.10.1925 n. 2578, il periodo di preavviso per la risoluzione del rapporto di lavoro è quello previsto all’art. 35, primo comma, del d.P.R. 4.10.1986 n. 902 » (ovverosia tre mesi); il secondo comma dispone che « Tuttavia l’azienda può comunicare al direttore la propria volontà di risolvere il rapporto al termine del triennio con un preavviso pari a quello che gli sarebbe spettato, ai sensi del comma 1 e 2 dell’art. 35 del presente ccnl, se il suo contratto fosse stato a tempo indeterminato ». I commi 3 e 4 disciplinano poi le conseguenze del mancato rispetto del termine fissato nel comma 2.
La difficoltà di coordinamento sussiste perché non si comprende che senso possa avere dare al datore di lavoro -che ha l’obbligo di comunicare il mancato rinnovo con un anticipo di tre mesi -la facoltà (« Tuttavia … può ») di dare il preavviso con un anticipo (diverso e solitamente) ben maggiore.
La Corte d’Appello di Roma ha risolto l’arcano , da un lato, interpretando i commi 2 e seguenti nel senso di attribuire all’Azienda «una mera facoltà» ; dall’altro lato, giudicando «una spiegazione persuasiva» quella fornita da RAGIONE_SOCIALE, secondo cui i commi aggiuntivi non si riferirebbero ai direttori delle aziende speciali, bensì a chi ricopre «il ruolo di direttore delle imprese di pubblici servizi locali non gestiti direttamente dal Comune». La tesi del ricorrente è invece che le due discipline si debbano applicare entrambe e pongano a carico del datore di
lavoro un doppio termine di preavviso: uno di tre mesi, al fine di evitare il rinnovo automatico dell’incarico; uno pari a quello che sarebbe spettato se il contratto fosse stato a tempo indeterminato, al fine di evitare di pagare l’indennità ragguagliata al ritardo della disdetta rispetto a tale più lungo termine.
3.2. L’interpretazione proposta dal ricorrente non può essere condivisa, perché ha il difetto di basare l’affermazione di un obbligo in capo all’Azienda (di dare la disdetta nel termine che sarebbe spettato se il contratto fosse stato a tempo indeterminato) su una disposizione che si esprime chiaramente nel senso di attribuire una facoltà (« Tuttavia l’azienda può … »).
Nemmeno l’interpretazione proposta da RAGIONE_SOCIALE e in qualche modo avallata dal giudice del merito -può essere accettata, perché la medesima formula di raccordo tra il primo e il secondo comma (« Tuttavia l’azienda può … ») esclude in modo ancor più chiaro che le due disposizioni si applichino a due diversi tipi di aziende.
L’unica interpretazione coerente con tale duplice vincolo testuale (formulazione della norma in termini di facoltà e riferibilità della stessa al medesimo soggetto cui il comma 1 conferisce un obbligo) è quella secondo cui il contratto collettivo conferisce alle aziende (ma, si potrebbe dire, alle parti del rapporto di lavoro, al momento della stipulazione del contratto individuale o in sede di modifica dello stesso) la facoltà di scegliere il regime alternativo dei termini per il diniego del rinnovo dettato dagli commi 2 e seguenti. Nel caso di specie, è pacifico che siffatta scelta per il regime alternativo non era intervenuta e non è in alcun modo in contestazione tra le parti l’applicabilità del primo comma dell’art. 44 (e della disciplina
legale ivi richiamata), discutendosi soltanto della possibilità di abbinarvi anche l’applicazione dei commi 2 e seguenti.
Per quel che si è scritto sopra, tale contemporanea applicazione delle due discipline è da escludere, sicché anche su questo punto la sentenza impugnata non merita censura, perché il dispositivo è conforme al diritto, quantunque la motivazione debba essere emendata nei termini appena precisati.
Rigettato il ricorso, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, tenuto conto del valore della causa pari a € 461.530,72.
Si dà atto che , in base all’esito del giudizio, sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’ art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese legali per il presente giudizio di legittimità, liquidate in € 8 .000 per compensi, oltre a € 200 per esborsi, spese generali al 15% dei compensi e accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19.12.2023.