Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 34553 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 34553 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 26899-2022 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3494/2022 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 26/09/2022 R.G.N. 425/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Licenziamento ex lege n. 92 del 2012
R.G.N. 26899/2022
COGNOME
Rep.
Ud.07/11/2024
CC
RILEVATO CHE
1. Con nota del 28.8.2019 la RAGIONE_SOCIALE contestava al dipendente NOME COGNOME COGNOME assunto il 16.5.2011, il seguente addebito: ‘Egr. ing. NOME COGNOME COGNOME riceviamo sua missiva, a seguito della ns. lettera del 29.07.2019 che la sollevava dall’incarico di tecnico di cantiere, per la scuola NOME COGNOME, unico compito fuori sede affidatole, dove Ella ribadisce la volontà d i recedere dall’incarico di RSPP, questa volta, però, con diversa motivazione: PER LA MANIFESTA INCOMPATIBILITA’ CON LO STESSO DATORE DI LAVORO, mentre, in un primo momento, cioè in data 29.07.2019, imputava tale rinuncia alla inconciliabilità con altre mansioni affidategli. La gravità di tale affermazione, spesa a cuor leggero e senza alcun precedente che facesse presumere tale profondo e definitivo disagio da parte sua, inconciliabile con un normale rapporto di lavoro, determina un profondo solco nel rapporto fiduciario che sempre deve esistere tra datore di lavoro e lavoratore con la conseguente necessità di immediato chiarimento al fine di esercitare le concludenti azioni tese a risolvere la problematica di cui soffre il dipendente nei confronti del Datore di lavoro e ciò per rendere, se possibile, il rapporto di lavoro proficuo, ovvero recedere dallo stesso, evitando inutili defatiganti ed improduttive stasi, stante anche la grave, attuale situazione di difficoltà economica nella quale si trova l’impresa che ha perso il 70% del proprio fatturato, soffrendo non poco nella ricerca di ripianare i propri conti economici e trovare nuove commesse di lavoro. Pertanto, l’impresa: 1. Nel contestare tale grave mancanza nei confronti del datore di lavoro, (ritenuto dal lavoratore MANIFESTAMENTE incompatibile con se stesso dipendente); 2. nel contestare le gravi intemperanze verbali, manifestate in ufficio, nei confronti di alcuni suoi colleghi in data 26.7.2019, Ingg. NOME e NOME COGNOME; 3 nel contestare l’arbitrio dell’assenza ingiustificata dal posto di lavoro in data 30.7.2019, le concede 5 giorni per fornire le proprie considerazioni e/o giustificazioni in ordine ai fatti contestati, accoglie sin d’ora l’eventuale richiesta di un’eventuale esposizione verbale delle proprie considerazioni, riservandosi, in ogni caso, ogni
più ampia facoltà di legge: Il datore di lavoro, inoltre, prende atto della sua rinuncia al ruolo di RSPP ‘ .
All’esito delle giustificazioni, la società intimava, in data 7.9.2019, licenziamento per giusta causa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2119 cc, con effetto immeditato e senza preavviso, per i fatti oggetto della contestazione.
Impugnato il recesso, l’adito Tribunale di Nola, con ordinanza del 19.11.2020, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava alla società di reintegrare lo Scotto COGNOME nel posto di lavoro e a pagargli le retribuzioni dal licenziamento alla reintegra; il medesimo Tribunale rigettava anche l’opposizione ex lege n. 92 del 2012 presentata dalla RAGIONE_SOCIALE
La Corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 3494/2022, in riforma della reclamata pronuncia, rigettava invece la originaria impugnativa del licenziamento.
I giudici di seconde cure rilevavano che: a) non era condivisibile l’assunto del primo giudice secondo cui lo COGNOME COGNOME sarebbe stato licenziato non perché si era rifiutato di adempiere ad una prestazione richiesta dal datore di lavoro, ma per un s orta di permalosità di quest’ultimo con il quale il dipendente si era dichiarato incompatibile; b) dall’analisi della contestazione si desumeva che lo stesso aveva ad oggetto non una frase irriverente in sé, bensì il rifiuto ad adempiere ad una disposizione aziendale e, quindi, una grave insubordinazione; c) in tale contesto era del tutto irrilevante l’eventuale mancata affissione del codice disciplinare; d) non vi era alcuna discrasia tra contestazione e licenziamento essendo quest’ultimo stato esplicitato in relazione alla fattispecie della insubordinazione; e) il recesso, disposto ad un mese dai fatti e dopo una contestazione immediata, era da considerarsi tempestivo.
Avverso la sentenza di secondo grado NOME COGNOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui resisteva con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
Le parti depositavano memorie.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 16 co. 1 lett. e) del D.lgs. n. 81/2008, nonché degli artt. 2106 e 2119 cc e degli artt. 1 e 3 legge n. 604/66, il tutto in elazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la C orte territoriale, erroneamente, da un lato ritenuto che la rinuncia all’incarico di RSPP integrasse una insubordinazione tanto grave da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, in quanto si trattava di una delega del datore di lavoro la cui accettazione non era obbligatoria e, dall’altro, per avere qualificato come irriguardosa e insubordinata la ragione posta a base della rinuncia (‘manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro’).
Con il secondo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cc, degli artt. 1 e 3 legge n. 604/66, nonché dell’art. 9 CCNL Industria Metalmeccanici, il tutto in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc. Si deduce, in via gra data, che quand’anche fosse ravvisabile una condotta di insubordinazione, la stessa andava qualificata come lieve, punita dall’art. 9 lett. a) Sez. IV Titolo VII CCNL Industria metalmeccanici, con sanzione conservativa.
Con il terzo motivo si obietta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1369 cc nonché dell’art. 7 St. lav., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte distrettuale interpretato la lettera di contestazione come sostanzialmente intesa ad addebitare ad esso ricorrente anche una insubordinazione.
Preliminarmente, deve darsi atto che l’oggetto del giudizio è limitato solo alla prima condotta contestata nell’addebito disciplinare, essendo state le altre due condotte (gravi intemperanze verbali, manifestate in ufficio in data 26.7.2019, nei confronti di due colleghi e assenza ingiustificata dal posto di lavoro il 30.7.2019), oggetto di
incolpazione, ritenute dalla Corte di appello, ‘secondarie’ e per questo non esaminate e, conseguentemente, non oggetto di impugnazione.
Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, deve essere scrutinato dapprima il terzo motivo.
Esso non è meritevole di accoglimento.
L’assunto della Corte territoriale, secondo cui all’odierno ricorrente non era stata contestata la frase irriverente in sé ma il rifiuto di adempiere ad una disposizione aziendale e, quindi, una tipica condotta di insubordinazione, rappresenta una interpretazione di un atto di autonomia privata che costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonché, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorché la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire; la denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice
sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne è stata privilegiata un’altra (Cass. n. 4178/2007; Cass. n. 19044/2010).
Nella fattispecie in esame, le doglianze sono incentrate sul fatto che in nessun punto della lettera di contestazione si parlava di insubordinazione o se ne adoperavano sinonimi o si sosteneva che il lavoratore non avrebbe potuto rinunciare all’incarico d i RSPP e che, quindi, la interpretazione fornita dalla Corte di appello era stata adottata in violazione dell’art. 1362 cod. civ. non avendo tenuto conto del senso letterale delle parole e del suo carattere prioritario rispetto agli altri criteri ermeneutici.
La critica non è condivisibile perché la Corte territoriale, quale premessa in diritto, ha sottolineato che il concetto di insubordinazione, che si è consolidato nei precedenti di legittimità, è costituito dal rifiuto del dipendente di adempimento delle disposizioni dei superiori e ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.
La stessa Corte, attraverso un accertamento di fatto adottato con una motivazione esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc nuova formulazione ratione temporis applicabile, ha poi considerato il rifiuto del lavoratore ad assumere l’incarico di RSPP, oggetto della contestazione disciplinare, quale atto di insubordinazione.
Ne consegue che la esegesi della contestazione disciplinare da parte dei giudici di seconde cure è del tutto plausibile rispetto al tenore letterale della contestazione stessa e non è certamente in contrasto con i canoni esegetici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ.
Venendo allo scrutino delle altre doglianze, il primo motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
E’ inammissibile perché la questione della delega ex art. 16 co. 1 lett. e) D.lgs. n. 81/2008, come prospettata nell’articolazione della censura, non è stata esaminata dalla Corte territoriale e non è stato specificato il ‘come’, il ‘dove’ ed il ‘quando’ essa sia stata sottoposta ai giudici del merito negli esatti termini con cui è stata esposta in sede di legittimità.
In tema di ricorso per cassazione, infatti, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio (Cass. n. 18018/24; Cass. n. 20694/2018).
E’, invece, il motivo infondato relativamente alle tematiche in diritto concernenti l’art. 16 del D.lgs. n. 81/2008.
L’art. 32 del D.lgs. n. 81/2008 non prevede espressamente ed unicamente l’istituto della delega per la individuazione del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione da parte del datore di lavoro.
La giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in materia penale, ha infatti specificato che la mera designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (Cass. pen. Sez. 4 n. 24958/2017). Invero, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli obblighi di vigilanza e di controllo gravanti sul datore di lavoro, non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale ha una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire
il datore di lavoro nell’individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti (Cass. pen. Sez. 4 n. 50605/2013).
E’ vero che la individuazione del RSPP potrebbe avvenire anche attraverso l’istituto della delega (sebbene la posizione di garanzia del datore di lavoro non viene meno, cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. 4 n. 41172/2024 secondo cui ‘Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti»; disposizione che, attraverso l’utilizzo del termine “altresì”, deve interpretarsi nel senso che le responsabilità del soggetto investito di fatto di determinate funzione datoriali non escludono la responsabilità del datore medesimo in ordine agli obblighi sullo stesso gravant i in relazione alla normativa antinfortunistica’ ), ma nel caso de quo non risulta assolutamente il conferimento dell’incarico allo COGNOME COGNOME attraverso una delega formale, bensì soltanto a mezzo di una designazione endo-aziendale ad un dipendente della società, peraltro dopo averlo sollevato da altre mansioni, il quale si è rifiutato comunque di assolverlo.
La dedotta violazione dell’art. 16 D.lgs. n. 81/2008, per la asserita insussistenza di un obbligo ad accettare la delega, non è, pertanto, configurabile perché la relativa problematica non è conferente al caso in esame.
Anche il secondo motivo è infondato.
Il ricorrente ritiene che, se anche si fosse voluta ravvisare a suo carico una qualche insubordinazione, la stessa andava qualificata come lieve e, in quanto tale, punita dall’art. 9 lett. a) Sez. IV Titolo VII CCNL Industria Metalmeccanica, con sanzione conservativa.
Questo Collegio ritiene corretta la statuizione della impugnata sentenza, che ha ritenuto grave la forma di insubordinazione addebitata in quanto certamente idonea a ledere il
rapporto di fiducia che deve sussistere tra le parti, perché effettivamente il rifiuto del dipendente ad assumere l’incarico conferitogli, dopo che vi era stato una precedente opposizione per la dedotta inconciliabilità con altre mansioni affidategli, risolta dall’azienda, è assolutamente generico ed immotivato (‘manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro’) non consentendo, quindi, un controllo sulla legittimità del comportamento del lavoratore e delle effettive ragioni del rifiuto.
Il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, ex art. 1460 cod. civ., infatti, può essere giustificato solo se l’altra parte sia totalmente inadempiente ma, per operare tale valutazione, occorre una chiara e precisa esplicitazione dell’intera situazion e, in ordine al rifiuto stesso, che non è certamente ravvisabile nella mera locuzione ‘manifesta incompatibilità con lo stesso datore di lavoro’.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione in favore dei Difensori del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.