Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21965 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21965 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 23572-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 484/2024 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 13/09/2024 R.G.N. 346/2024; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento per giusta causa
R.G.N.23572/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 06/05/2025
CC
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Bologna ha respinto il reclamo proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE confermando la sentenza di primo grado che, in riforma dell’ordinanza pronunciata all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato a NOME COGNOME il 2 agosto 2022, applicando la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
La Corte d’appello ha premesso che la COGNOME era stata assunta dalla società nel giugno 2007 con la qualifica di impiegata di sesto livello del c.c.n.l. RAGIONE_SOCIALE, quale responsabile stile della maglieria NOME; che dopo un periodo di cassa integrazione il 2.7.2021 era stata trasferita presso la sede di Urbania (Pesaro -Urbino); che nel luglio 2022, all’esito di un giudizio cautelare di impugnativa del trasferimento a Urbania, era stata destinata alla sede di Carpi, con mansioni di addetta al prodotto linea RAGIONE_SOCIALE, corrispondenti al quinto livello contrattuale.
La sentenza impugnata ha appurato, in conformità al tribunale, che la COGNOME era stata in cassa integrazione più a lungo degli altri dipendenti e poi trasferita a Urbania in quanto il legale rappresentante non ‘la voleva più vedere’; inoltre, che le mansioni assegnatele presso la sede di Carpi non erano rispondenti al suo livello di inquadramento bensì inferiori. Ha quindi ritenuto giustificata la mancata ottemperanza della dipendente al provvedimento datoriale di assegnazione alla sede di Carpi, sia in vi rtù del disposto dell’art. 1460 c.c. e sia per il rilievo che gli atti nulli non producono effetti, con conseguente insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento, vale a dire l’assenza ingiustificata presso la sede di ultima destinazione.
Avverso la sentenza la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. Secondo la tesi della società ricorrente, pure ammesso che le mansioni offerte alla Maestri nel luglio 2022 fossero di livello immediatamente inferiore rispetto a quelle di provenienza, la proposta di ricollocazione era comunque legittima alla luce dell’art. 2103 c.c., nel testo modificato dal d.lgs. 81 del 2015, ricorrendo tutti i requisiti richiesti dal secondo comma della citata disposizione e cioè: la modifica degli assetti organizzativi incidente sulla posizione della lavoratrice; la comunicazione della variazione in forma scritta; la conservazione dell’inquadramento e del trattamento retributivo in godimento.
Il motivo di ricorso è inammissibile per una duplice ragione. Anzitutto, perché l’obbligo della datrice di lavoro di assegnare la dipendente alle mansioni proprie del suo livello di inquadramento (nella specie, il sesto) si fonda su un titolo giudiziale, il giudicato cautelare, rispetto al quale nessuna incidenza modificativa potevano avere le deduzioni successive di ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 2103, comma 2 c.c. novellato. Da questo punto di vista, la critica non coglie la ratio
decidendi della decisione impugnata; inoltre, perché la Corte di merito ha accertato, in fatto, la mancanza dei requisiti richiesti dalla citata disposizione (specificamente, la reale modifica degli assetti organizzativi incidente sulla posizione della lavoratrice) e le censure che investono tale accertamento fattuale non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità, anche in ragione della disciplina cd. della doppia conforme di merito, di cui all’art. 348 ter c.p.c. (ora art. 360, comma 4 c.p.c.) .
2. Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. La società contesta la formazione del giudicato interno assumendo che la statuizione di primo grado, secondo cui ‘gli a tti nulli non producono effetti’, non costituiva un capo autonomo di domanda e, comunque, era stata oggetto di impugnativa col settimo motivo di reclamo. Nel merito, comunque scrutinato dai giudici di appello, osserva che il rifiuto della dipendente di riprendere servizio presso la sede di Carpi doveva essere giudicato illegittimo in quanto non proporzionato al dedotto inadempimento datoriale, consistito nel demansionamento e nel mancato pagamento delle retribuzioni da aprile a giugno 2022. La società contesta che la valutazione di proporzionalità della reazione posta in essere dalla dipendente possa svolgersi avendo riguardo alla condotta datoriale complessivamente tenuta o, addirittura, supponendo un unitario disegno datoriale pregiudizievole per la lavoratrice.
2.1. Il secondo motivo solleva una duplice censura.
Con la prima, critica la decisione d’appello nella parte in cui, premessa la duplice ratio decidendi su cui si fondava la sentenza di primo grado (legittimo esercizio dell’eccezione di inadempimento da parte della lavoratrice e omesso adempimento di un provvedimento datoriale nullo come tale
improduttivo di effetti), ha ritenuto non impugnato il secondo capo di decisione e formatosi sul punto il giudicato interno. Con la seconda, denuncia l’errata applicazione dell’art. 1460 c.c.
2.2. Si esamina quest’ultima censura che, in quanto infondata, esonera dallo scrutinio dell’altra ratio decidendi (cfr. sul punto Cass. n. 3633 del 2017; n. 18441 del 2017; n. 3386 del 2011; n. 24540 del 2009; n. 4349 del 2001).
Questa Corte, con orientamento costante, ha affermato che nei contratti a prestazioni corrispettive, tra i quali rientra il contratto di lavoro, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico sociale del contratto, il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. e ai sensi dello stesso capoverso dell’art. 1460 c.c. civ., affinché l’eccezione di inadempimento sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all’intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali (v. Cass. 4 novembre 2003, n. 16530; Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2729; Cass. 29.3.2019 n. 8911).
Si è, ad esempio, ritenuto che ‘il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi senza avallo giudiziario di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da
applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, o che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello di accertamento dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore che, adibito a mansioni inferiori per circa due mesi, aveva eccepito l’inadempimento datoriale e si era assentato p er oltre quattro giorni dal posto di lavoro’; così Cass. n. 836 del 2018).
Nella sentenza Cass. n. 4060 del 2008 si è ribadito che ‘il rifiuto del lavoratore di ottemperare al provvedimento del datore di lavoro di trasferimento ad una diversa sede, ove giustificato dalla contestuale assegnazione a mansioni asseritamente dequalificanti, impone una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti di entrambe le parti, onde accertare la congruità tra le mansioni svolte dal lavoratore nella sede di provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione; queste ultime, peraltro, debbono essere vagliate indipendentemente dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legittimità che ne imponga l’ottemperanza fino ad un diverso accertamento in giudizio’.
Sempre in tema di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., si è statuito che l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle
circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, con valutazione rimessa al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se espressa con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata per avere ritenuto giustificato il rifiuto del lavoratore in virtù di un generico riferimento alla gravità dell’inadempimento datoriale; così Cass. n. 434 del 2019; v. anche Cass. n. 11408 del 2018; Cass. n. 3959 del 2016).
Si è, al contrario, considerato legittimo ‘il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta, avanzata dal datore, di svolgimento di compiti aggiuntivi, incompatibili con l’adibizione costante del prestatore ad un impegno lavorativo gravoso nonché ostativi al recupero delle energie psicofisiche ed alla cura degli interessi familiari del medesimo, (escludendosi) una condotta di insubordinazione ‘ (Nella specie, la S.RAGIONE_SOCIALE. ha ritenuto legittimo il rifiuto di una guardia giurata – con turni quotidiani di lavoro, mantenuti nel tempo pur in assenza di comprovate esigenze aziendali, con orario dalle 23,55 alle 6.00 e dalle 16.00 alle 22.00 – di eseguire, al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, il compito aggiuntivo di riscossione delle fatture, Cass. n. 12094 del 2018).
Poste tali premesse in diritto, la fattispecie oggetto di causa interroga questa Corte sulla latitudine del giudizio di proporzionalità della reazione della lavoratrice all’inadempimento datoriale, sia sotto il profilo prettamente cronologico e sia riguardo al possibile cumulo di segmenti di condotta datoriale da valere quale fattore idoneo a provocare la risposta, a sua volta inadempiente, della controparte.
Al riguardo, fermo che i tempi di reazione non possono essere così dilatati da perdere di connessione anche logica con l’inadempienza scatenante, deve tuttavia ammettersi che nella valutazione comparativa possano rientrare distinte e successive condotte datoriali inadempienti, in grado di incidere negativamente, nel loro complesso e nelle reciproche interazioni, sulla funzione economico sociale del contratto.
La Corte di merito si è mossa lungo questa direttrice e ha valorizzato la sequenza e la connessione degli inadempimenti datoriali, gli ultimi dei quali concernenti l’assegnazione, nel luglio 2022, di mansioni inferiori e dequalificanti presso la sede di Carpi, alla quale la lavoratrice era stata assegnata a seguito dell’ordinanza giudiziale, risalente al giugno 2022, che sanciva l’illegittimità del trasferimento a Urbania e nella perdurante, dal luglio 2021, mancata corresponsione della retribuzione; a fronte di tale complesso di obblighi inadempiuti dalla società, incidente su aspetti essenziali del rapporto di lavoro, la valutazione dei giudici di appello, di legittimità del rifiuto opposto dalla lavoratrice, non esorbita dai confini della proporzionalità e dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede su cui si regge l’art. 1460 c.c.
3. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. per avere la Corte d’appello valutato la condotta datoriale sulla base della frase attribuita all’amministratore (di non volere più vedere la dipendente) e frutto di un suo sentimento personale, che non può avere peso nello scrutinio della legittimità degli atti di gestione del rapporto di lavoro, identificati nella offerta di collocazione presso la sede di Carpi quindi in una volontà contraria a quella attribuibile alla persona dell’amministratore. Con conseguente violazione dell’art. 1345
c.c. che esige il carattere esclusivo e determinante del motivo illecito, in tal caso non riferibile alla società.
Il motivo è inammissibile perché basato su un aspetto non decisivo, atteso che la sentenza si regge sull’autonoma ratio decidendi, della legittimità del rifiuto opposto dalla lavoratrice, ai sensi dell’art. 1460 c.c., a prescindere dalla questione afferente alla nullità della condotta datoriale perché mossa da motivo illecito.
Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il
criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 8.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. NOME COGNOME antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 6 maggio 2025