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Riduzione superminimo: il silenzio non vale consenso

Un lavoratore ha contestato la riduzione del suo superminimo, ma la Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso. Sebbene il silenzio da solo non implichi consenso, la Corte d’Appello aveva correttamente valutato il comportamento complessivo del dipendente (sottoscrizione della comunicazione, prosecuzione del lavoro per anni senza proteste) come un’accettazione di fatto, una valutazione insindacabile in sede di legittimità. La decisione sottolinea la distinzione tra mera inerzia e un comportamento concludente che manifesta una volontà.

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Pubblicato il 19 agosto 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Riduzione Superminimo: Quando il Comportamento del Lavoratore Sostituisce l’Accordo Scritto

Il principio di irriducibilità della retribuzione è un pilastro del diritto del lavoro, ma la sua applicazione può diventare complessa di fronte a situazioni concrete. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta il tema delicato della riduzione superminimo e del valore da attribuire al comportamento prolungato del lavoratore. La questione centrale è: il silenzio o la tolleranza di un dipendente di fronte a un taglio dello stipendio possono essere interpretati come un consenso valido? Vediamo come la Suprema Corte ha affrontato il caso.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dalla decisione di un’azienda di ridurre il superminimo, ovvero quella parte della retribuzione che eccede i minimi contrattuali, a un proprio dipendente con mansioni direttive. Tale decisione viene comunicata tramite una raccomandata a mano, che il lavoratore sottoscrive.

Per diversi anni, dal 2009 al 2016, il rapporto di lavoro prosegue con la retribuzione ridotta, senza che il dipendente sollevi contestazioni formali. Successivamente, il lavoratore agisce in giudizio per ottenere le differenze retributive non percepite. Il Tribunale di primo grado gli dà ragione, ma la Corte d’Appello ribalta la decisione, ritenendo che il comportamento del lavoratore costituisse un’accettazione tacita della modifica contrattuale.

Il caso arriva così in Cassazione, con il lavoratore che lamenta l’erronea interpretazione della sua tolleranza come un valido consenso alla riduzione superminimo.

L’Ordinanza della Cassazione e la questione della riduzione superminimo

La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile, ma lo fa sulla base di una distinzione procedurale fondamentale. Il ruolo della Corte di Cassazione non è quello di riesaminare i fatti del caso, ma di verificare la corretta applicazione delle norme di diritto da parte dei giudici di merito.

Secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello non ha basato la sua decisione sulla semplice inerzia o sul ‘mero silenzio’ del lavoratore, che di per sé non avrebbe valore di consenso. Al contrario, ha compiuto una valutazione complessiva degli elementi di fatto, ovvero un ‘accertamento in fatto’ che è di sua esclusiva competenza. Questo accertamento ha portato i giudici di secondo grado a concludere che il comportamento del lavoratore, nel suo insieme, era un ‘comportamento concludente’ (facta concludentia) che manifestava in modo inequivocabile la sua volontà di accettare la riduzione.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha ritenuto che il ricorso del lavoratore, pur essendo formalmente presentato come una violazione di legge, mirasse in realtà a ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove e dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità.

I giudici di merito avevano valorizzato una serie di elementi indiziari che, letti congiuntamente, formavano un quadro coerente:

1. La sottoscrizione della raccomandata: Il lavoratore aveva firmato la comunicazione senza aggiungere riserve o specificare che la firma valeva solo per ricevuta.
2. Il comportamento prolungato: Il rapporto di lavoro era continuato per ben sette anni con la nuova retribuzione, senza alcuna contestazione.
3. Il contesto aziendale: La Corte ha tenuto conto delle difficoltà finanziarie della società e del prevedibile intento del lavoratore di accettare la riduzione per evitare conseguenze più gravi, come un licenziamento.

La Corte d’Appello ha quindi ricostruito una ‘volontà abdicativa’ del lavoratore non dal silenzio, ma da un insieme di azioni positive e omissioni qualificate che, complessivamente, assumevano il valore di un consenso. La Cassazione ha concluso che questa ricostruzione, essendo una valutazione di fatto logica e non implausibile, non poteva essere messa in discussione.

Le Conclusioni

L’ordinanza offre importanti spunti pratici. Se da un lato viene ribadito che il principio di irriducibilità della retribuzione è solido e che il silenzio del lavoratore non può essere automaticamente interpretato come consenso a una modifica peggiorativa, dall’altro emerge un monito. Un comportamento passivo, prolungato nel tempo e inserito in un contesto specifico, può essere interpretato da un giudice come un’accettazione di fatto.

Per i lavoratori, la lezione è chiara: è fondamentale contestare tempestivamente e in forma scritta qualsiasi modifica unilaterale del contratto che si ritenga illegittima. Affidarsi alla successiva azione legale senza aver mai manifestato il proprio dissenso può rivelarsi una strategia rischiosa, poiché il comportamento tenuto per anni potrebbe essere usato per dimostrare un consenso di fatto alla riduzione superminimo.

Un datore di lavoro può ridurre il superminimo di un dipendente?
In linea di principio no, a causa della regola generale dell’irriducibilità della retribuzione sancita dall’art. 2103 c.c. Accordi di riduzione sono possibili solo a determinate condizioni e in sedi protette (art. 2113 c.c.) per garantire la genuinità del consenso del lavoratore.

Il silenzio del lavoratore di fronte a una riduzione dello stipendio vale come accettazione?
No, la Cassazione chiarisce che il mero silenzio o la semplice inerzia del lavoratore non possono essere considerati come consenso. Tuttavia, un ‘comportamento concludente’, ovvero una serie di azioni e omissioni protratte nel tempo (come continuare a lavorare per anni senza contestazioni), può essere interpretato dal giudice di merito come una manifestazione di volontà.

Cosa ha deciso la Corte di Cassazione in questo caso specifico?
La Corte ha dichiarato il ricorso del lavoratore inammissibile. Non ha stabilito una nuova regola generale, ma ha affermato che la valutazione della Corte d’Appello – secondo cui il comportamento complessivo del lavoratore equivaleva a un’accettazione di fatto – era una ricostruzione dei fatti e non un errore di diritto, e come tale non poteva essere riesaminata in sede di legittimità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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