Ordinanza interlocutoria di Cassazione Civile Sez. L Num. 20209 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20209 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/07/2025
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso n. 22187/2024 proposto da:
Università degli Studi di Firenze, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv ocatura Generale dello Stato e domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME e domiciliati in Roma, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione;
-controricorrenti- nonché
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. ti NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-resistente-
nonché
NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-intimati-
nonché
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME e domiciliati in Roma, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione;
– ricorrenti –
nonché
Università degli Studi di Firenze, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME e domiciliata in Roma, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione;
-controricorrente e ricorrente incidentale-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Firenze n. 767/2023 pubblicata il 12 aprile 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME assieme ad altri colleghi, hanno concluso con l’Università degli Studi di Firenze un contratto di lavoro subordinato di diritto privato quali lettori di madrelingua straniera ex art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980.
In forza dell’art. 4 d.l. n. 120 del 1995, conv. dalla legge n. 236 del 1995 sono stati inquadrati come collaboratori ed esperti linguistici (CEL) di madrelingua straniera con decorrenza dal 1° aprile 1995.
Inoltre, la maggior parte di loro è stata destinataria di sentenza che ha riconosciuto l’esistenza di un unico rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della detta Università, con trattamento economico parificato a quello del ricercatore confermato a tempo definito a decorrere dalla prima assunzione come lettori dei ricorrenti.
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno adito il Tribunale di Firenze, chiedendo che, dichiarata la nullità dei contratti collettivi integrativi del 12 aprile 1995, 20 settembre 2001 e del 12 ottobre 2007, fosse applicato ai CEL l’intero regime retributivo previsto per i ricercatori confermati a tempo definito di pari anzianità, con ricostruzione della carriera dalla data di prima assunzione quali lettori e per tutta la durata del rapporto di lavoro.
Nello specifico, hanno lamentato il mancato adeguamento retributivo ex lege n. 63 del 2004 sulla base dell’orario lavorativo da loro svolto (540 ore) di 40 ore superiore a quello piena (500 ore) previsto per i ricercatori confermati a tempo definito, l’omesso riconoscimento della progressione retributiva per scatti di anzianità e stipendiali dei lettori, con richiesta di corresponsione delle differenze dovute e la non avvenuta regolarizzazione contributivo-previdenziale.
Il Tribunale di Firenze, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 204/2019, ha rigettato i ricorsi.
Gli attuali intimati hanno proposto appello che la Corte d’appello di Firenze, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 767/2023, ha accolto in parte.
L’Università degli Studi di Firenze ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi.
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso.
L’INPS ha depositato procura.
NOME COGNOME e NOME COGNOME non hanno svolto difese.
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di 6 motivi.
L’Università degli Studi di Firenze si è difesa con controricorso e ha proposto ricorso incidentale sulla base di sei motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la P.A. ricorrente rappresenta la violazione degli artt. 125, 345 e 437 c.p.c. in quanto il giudice di appello avrebbe accolto una domanda nuova e disposto l’integrazione postuma di fatti e prove non allegat i nel ricorso introduttivo. Lamenta, inoltre, l’omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Sostiene che le parti intimate avrebbero chiesto nel ricorso introduttivo del giudizio il riconoscimento di differenze retributive solo in relazione al mancato adeguamento retributivo sulla base dell’orario lavorativo svolto dagli stessi e della progressione retributiva per scatti di anzianità e classi stipendiali dei ricercatori. Entrambe queste domande sarebbero state rigettate in primo e in secondo grado. Al contrario, gli intimati avrebbero domandato, per la prima volta con il settimo motivo di appello, l’assegno ad personam loro spettante sulla base dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. con modif., dalla legge n. 63 del 2004 e dell’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010.
Con il secondo motivo la parte ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’errata applicazione dei principi in materia di giudicato con riferimento alla posizione delle parti intimate COGNOME, COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e Sainsbury.
La sentenza impugnata sarebbe stata erronea in quanto avrebbe riconosciuto ai lavoratori somme di denaro non spettanti. Infatti, essi sarebbero stati destinatari della sentenza n. 46 del 2000 della Corte d’appello di Firenze e della successiva sentenza del Consiglio di Stato n. 5269/2009.
Con la prima sarebbe stato loro riconosciuto il diritto al trattamento economico previsto dalla normativa vigente per il ricercatore universitario a tempo definito, con decorrenza dall’inizio delle prestazioni lavorative di ciascuno di essi e tenuto conto delle progressioni economiche connesse all’anzianità di servizio.
La seconda, invece, che si sarebbe occupata di verificare la corretta esecuzione della prima decisione, avrebbe affermato, invece, che ‘Risulta agli atti che, all’indomani della pronuncia da ultimo richiamata e in corretta esecuzione dei suoi ‘dicta’, l’Università di Firenze nel corso dell’anno 2000 ebbe a ricostruire la carriera di ciascuno degli odierni appellanti, riconoscendo in loro favore un trattamento economico in tutto coincidente con quello corrisposto ad un ricercatore confermato a tempo definito di pari anzianità’.
Tuttavia, per il tratto temporale successivo, gli appellanti avrebbero avanzato la pretesa a che il trattamento economico in tal modo determinato venisse anche
periodicamente incrementato attraverso i meccanismi di adeguamento retributivo per il personale c.d. ‘non contrattualizzato’ di cui all’art. 24 della l. 23 dicembre 1998, n. 448 (i.e.: attraverso l’applicazione in proprio favore del contenuto dei dd.P.C.M. che determinano il quantum di incremento retributivo da accordare al personale di cui all’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165)’.
Con il terzo motivo parte ricorrente contesta, con riferimento alle parti intimate COGNOME, COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e COGNOME la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 125 c.p.c. e 2697 c.c. in quanto le controparti non avrebbero mai lamentato che per il periodo oggetto della sentenza n. 46 del 2000 della Corte d’appello di Firenze avrebbero dovuto essere loro corrisposte differenze retributive per inesatto o mancato adeguamento della retribuzione a quella del ricercatore confermato a tempo definito.
Inoltre, la CTU sarebbe stata esplorativa e sarebbe stata effettuata sulla base di documenti mai acquisiti al processo e non allegati alla perizia.
Con il quarto motivo la parte ricorrente lamenta, con riferimento agli intimati COGNOME, COGNOME e COGNOME la violazione e falsa applicazione dell’art. 2948, n. 4, c.c. in quanto il giudice, pur avendo correttamente individuato le date di decorrenza della prescrizione, avrebbe riconosciuto loro delle somme non dovute.
La censura va valutata con riferimento al solo Staton atteso che, con gli altri interessati, è intervenuta una transazione.
Afferma l’Università che la corte territoriale, pur avendo correttamente accertato che la prescrizione della parte Staton sarebbe stata interrotta il 23 maggio 2008 e il 3 luglio 2013, non avrebbe considerato che, fra queste due date, il tempo trascorso era superiore a cinque anni.
Con il quinto motivo parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv., con modif., dalla legge n. 63 del 2004 e dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240 del 2010 in quanto, in applicazione
della contrattazione collettiva nazionale e integrativa, il trattamento economico degli intimati sarebbe stato adeguato a quanto previsto dall’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010.
In subordine, evidenzia che il giudice di appello avrebbe errato ad escludere la rilevanza, ai fini del riassorbimento, degli scatti stipendiali biennali riferiti all’esperienza acquisita di cui all’art. 5 del contratto integrativo di Ateneo.
Con il sesto motivo la P.A. ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e dell’art. 1241 c.c. ss. in quanto la corte territoriale avrebbe errato a non considerare, con riferimento alla posizione dell’intimato Staton, che le somme ricalcolate dal CTU per il primo periodo erano rappresentante da un saldo negativo che avrebbe dovuto essere sottratto da quelle riconosciute per il secondo periodo, in applicazione dei principi in tema di compensazione impropria.
Con il settimo motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione dell’art. 132 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione fra le parti in relazione al mancato riconoscimento di somme riscosse dalla parte Rives nel corso del giudizio.
Con l’ottavo motivo l’Università contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 36, legge n. 724 del 1994 in quanto la corte territoriale avrebbe errato a riconoscere agli intimati il cumulo di rivalutazione e interessi.
Hanno presentato ricorso anche NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME
COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
Con il primo motivo lamentano «Violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), ed in particolare dell’art. 1 d.l. 2/2004 conv. in legge 63/2004, che avrebbe dovuto essere applicato per l’integrale ricostruzione della carriera ab origine, escludendo l’applicazione della norma autodefinitasi ‘interpretativa’ di cui all’art. 26 comma 3 legge 240/2010. Violazione dell’art. 45 TFUE, dell’art. 7 Regolamento UE 492/2011, delle sentenze vincolanti della Corte di Giustizia dell’Unione europea in materia di trattamento retributivo, progressione di carriera per anzianità, contributi previdenziali degli ex lettori divenuti CEL».
Essi espongono che la Corte d’Appello di Firenze avrebbe rigettato la domanda principale diretta a vedere accertato il diritto all’applicazione del parametro del ricercatore confermato a tempo definito per tutta la durata dei rapporti di lavoro di tutti i lettori di madre lingua straniera fin dalla prima assunzione ex art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980, convertiti a tempo indeterminato data l’unicità e continuità degli stessi, come accertato per la maggior parte dei ricorrenti anche con sentenze pacificamente passate in giudicato e proseguiti senza soluzione di continuità, né mutamento alcuno di mansioni e prestazioni didattiche di insegnamento linguistico sotto la nuova denominazione di CEL, peraltro sopravvenuta prima dei predetti giudicati.
Essendo pacifiche queste circostanze di fatto, avrebbe dovuto essere data piena applicazione al disposto dell’art. 1 del d.l n. 2 del 2004, conv. dalla legge n. 63 del 2004, che aveva riconosciuto a tutti i lettori di madre lingua straniera, divenuti CEL, il diritto all’applicazione del parametro retributivo spettante ai ricercatori confermati a tempo definito, in proporzione all’orario lavorativo svolto, che faceva pari al 100% del parametro predetto lo svolgimento di 500 ore annue di attività didattica.
Fermo restando che pacificamente i ricorrenti avrebbero svolto 540 ore annue di attività didattica, per cui avrebbero avuto diritto ad un proporzionamento in aumento, pari all’8% del parametro suddetto, censurano la sentenza che aveva, invece, escluso l’applicazione del predetto parametro di adeguamento retributivo stabilito ex lege , con conseguente riconoscimento anche della progressione
integrale di carriera per classi stipendiali e scatti di anzianità fin dall’origine e fino alla cessazione del servizio, ovvero fino ad oggi per chi ancora era in servizio, con corrispondente versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali alla gestione INPS, anche successivamente al 1.1.2008, con diritto alla rivalutazione dell’intera retribuzione globale comprensiva del cosiddetto trattamento integrativo di Ateneo anche ai fini del calcolo del TFR.
Viceversa, la Corte d’Appello di Firenze avrebbe applicato a tutti i ricorrenti il detto parametro soltanto fino alla data di sottoscrizione dei contratti CEL, sulla base dell’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010 (cosiddetta Legge Gelmini) ovvero fino alla data cui si riferivano precedenti sentenze passate in giudicato che riconoscevano il predetto parametro, per affermare, poi, l’applicabilità della retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva, mantenendo quale assegno ad personam , peraltro riassorbibile, una somma pari alla differenza fra l’ultima retribuzione acquisita secondo i sopraddetti criteri e, se inferiore, quella spettante in forza della contrattazione collettiva di comparto e decentrata.
A tal fine, la disposta CTU contabile, si sarebbe svolta su un quesito da loro contestato, atteso che non avrebbe tenuto conto del contrasto della norma di interpretazione autentica (art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010) dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. dalla legge n. 63 del 2004, con i principi stabiliti dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (26.6.2001 C-212/99; 18.7.2006 C-119/04; 15.5.2008 C-267/07). Di conseguenza, avrebbe dovuto essere integralmente applicato il parametro previsto dalla normativa del 2004 e ricostruita su questa base l’intera carriera di ciascuno con relativa progressione di classi stipendiali e scatti di anzianità.
Inoltre, deducono l’efficacia vincolante del passaggio in giudicato delle sentenze sopra richiamate e chiedono la piena condivisione dei conteggi elaborati dal loro consulente del lavoro.
Infine, lamentano che la Corte d’appello di Firenze avrebbe riconosciuto soltanto le differenze retributive di cui al dispositivo della sentenza impugnata, senza che, peraltro, fosse chiaro il percorso giuridico-argomentativo con cui era giunta alla quantificazione delle somme riconosciute a ciascuno, non coincidendo con tutte quelle evidenziate nella CTU.
In ogni caso, la normativa di cui al d.l. n. 2 del 2004, conv. dalla legge n. 63 del 2004) non sarebbe stata come tale integralmente applicata, in quanto la corte territoriale avrebbe riaffermato l’applicazione della norma interpretativa di cui all’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010, senza neppure far salvi i trattamenti di maggior favore, conseguiti in forza delle sentenze passate in giudicato per i lettori interessati.
Peraltro, la norma della c.d. legge Gelmini sarebbe incorsa in una palese violazione dell’art. 45 TFUE, dell’art. 7 regolamento UE 492/2011 e delle sentenze della Corte di Giustizia UE del 2001 e, soprattutto, del 18.7.2006 C119/04, che avevano affermato il diritto ad un’integrale ricostruzione di carriera fin dalla data di prima assunzione ex art. 28 DPR 382/1980, secondo un unitario parametro di trattamento non discriminatorio e, quindi, necessariamente analogo a quello dei lavoratori nazionali che svolgevano analoghe attività didattiche, quali essi sarebbero stati. Infatti, l’art. 32 d.P.R. n. 382 del 1980, stabiliva che i ‘Compiti dei ricercatori universitari’ (al di là del contributo allo sviluppo della ricerca scientifica che non è di competenza dei lettori e CEL), ‘assolvono compiti didattici integrativi dei corsi di insegnamento ufficiali’ fra cui ‘sono comprese le esercitazioni, la collaborazione con gli studenti nelle ricerche attinenti le tesi di laurea…’ e in quanto ricercatori confermati ‘possono altresì svolgere…cicli di lezioni interni ai corsi attivati e attività di seminario’ … oltre che ‘partecipare alle commissioni di esami di profitto come cultori della materia’, compiti che coincidevano o, comunque, si sovrapponevano con quelli assegnati dalla stessa contrattazione integrativa di Ateneo ai lettori/CEL, che non erano contestati in causa e, comunque, erano stati accertati con sentenza passata in giudicato dal Tribunale del Lavoro e dalla Corte d’Appello di Firenze.
Al riguardo, la Corte di Giustizia UE aveva espressamente riconosciuto il diritto dei lettori assunti ex art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980 ad una ricostruzione unitaria della carriera ab origine e per tutto il corso del rapporto di lavoro, in base al medesimo parametro non discriminatorio del ricercatore confermato a tempo definito di cui all’art. 1 d.l. n. 2 del 2004, conv. dalla legge n. 63 del 2004, avente efficacia dichiaratamente retroattiva, ma che deve esplicare effetti non solo per
il passato (ovvero dalla data di prima assunzione), ma anche per il futuro, ovvero per tutto l’unitario rapporto di lavoro al servizio dell’Università, anche successivo all’entrata in vigore della legge n. 236 del 1995, istitutiva della categoria dei CEL che, altrimenti, avrebbero subito il trattamento discriminatorio censurato con pronunce vincolanti dalla Corte di Giustizia.
Ne sarebbe conseguito che l’art. 26, comma 3, della legge n. 240 del 2010, laddove limitava la progressione di carriera degli ex lettori alla data di stipula dei contratti CEL, dovendo successivamente applicarsi il trattamento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva del comparto Università, avrebbe violato i principi comunitari e la loro ratio, poiché avrebbe imposto una ricostruzione ‘bifasica’ e non unitaria della carriera, affidandosi alla contrattazione collettiva.
Avrebbe assunto rilievo anche il parere motivato del 26.1.2023 della Commissione europea la quale, non avendo l’Italia ottemperato ai precetti di diritto europeo proclamati con valore vincolante dalla Corte di Giustizia e richiamati nel detto parere motivato, avrebbe promosso una nuova azione di responsabilità contro l’Italia con il recente ricorso alla stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea in data 10.8.2023 causa C-519/2023, nel quale avrebbe contestato le dette violazioni del diritto dell’Unione per quanto riguardava il trattamento e la ricostruzione di carriera dei lettori di madre lingua straniera in Italia. Ciò avrebbe imposto alla Suprema Corte di disapplicare direttamente il citato art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010, senza attendere la pronuncia della CGUE.
Inoltre, l’applicazione retroattiva dell’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010 sarebbe in contrasto anche con il diritto costituzionale interno, oltreché con quello della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, come ben sarebbe emerso dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 2024, depositata l’11.01.2024, che aveva caducato, per violazione degli artt. 3, 111 e 117 Cost., una disposizione analoga, di asserita ‘interpretazione autentica’, in quanto avente in realtà efficacia innovativa e, quindi, un illegittimo effetto retroattivo.
Più nello specifico, la Corte italiana avrebbe dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, norma
intervenuta per escludere, con effetto retroattivo, il diritto dei dipendenti pubblici ad ottenere le maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità in relazione al triennio 1991-1993, previste da una precedente disciplina (decretolegge 384/1992).
Nella detta pronuncia, il Giudice delle leggi avrebbe chiarito – richiamando espressamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: tra le altre, le sentenze CEDU 24 giugno 2014, RAGIONE_SOCIALE e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, B. e altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, M. e altri contro Italia, paragrafo 47 – che la possibilità per il legislatore di derogare al generale principio di non retroattività della legge (art. 11 Preleggi) si avrebbe solo nel caso in cui la norma in questione sia di effettiva interpretazione autentica, o qualora l’utilizzo retroattivo del potere legislativo sia ragionevole e non distorto, specialmente se incidente su giudizi ancora in corso, ed in particolare nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica.
I ricorrenti domandano, in subordine, di chiedere alla CGUE di pronunciarsi sulla compatibilità della norma interpretativa di cui all’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010 con il diritto dell’Unione e, in ulteriore subordine, di sollevare questione di costituzionalità per la violazione degli artt. 3, 111 e 117 Cost. in specie in relazione all’art. 6 CEDU.
Con il secondo motivo contestano ‘Violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), ed in particolare dell’art. 2909 c.c.’ in quanto essi (eccetto NOME Santos e COGNOME avrebbero conseguito sentenze passate in giudicato con cui il parametro di trattamento per l’adeguamento retributivo richiesto sarebbe stato accertato in quello del ricercatore confermato a tempo definito con classi e scatti di anzianità da calcolare fin dalla prima assunzione.
Sarebbe stato pacifico che anche nel periodo successivo del rapporto di durata proseguito dopo quello oggetto dei predetti giudicati, non vi sarebbe stata alcuna modifica rilevante nelle prestazioni rese ed accettate dall’Università, né l’Università avrebbe mai eccepito o dedotto modifica alcuna. Per cui il predetto parametro avrebbe dovuto estendersi, in conformità a costante giurisprudenza
di codesta Suprema Corte, fino alla data odierna o di cessazione del rapporto o comunque di deposito del ricorso introduttivo.
Tale diritto, che si sarebbe fondato sul giudicato, intercorso antecedentemente all’entrata in vigore della norma di asserita interpretazione autentica di cui alla legge n. 240 del 2010, non avrebbe potuto essere reso inefficace da tale norma, in quanto, se effettivamente di mera interpretazione autentica, non avrebbe potuto costituire una nuova sopravvenienza di disciplina diversa, restando da applicare la norma su cui si era basato il giudicato, che già avrebbe dovuto contenere il significato esplicitato dall’asserita norma interpretativa.
Se viceversa questa avesse avuto, come di fatto aveva avuto nella prassi, valore innovativo, sarebbe incorsa nelle censure di incostituzionalità di cui al precedente motivo.
Nonostante ciò, la sentenza della Corte d’Appello di Firenze impugnata avrebbe affermato che non avrebbe potuto ‘essere invocato il principio di ultrattività del giudicato in quanto, nei rapporti di durata, tale ultrattività potrebbe sostenersi in un regime normativo immutato mentre nella fattispecie si era passati da un regime quali lettori ad un regime quali CEL’.
I ricorrenti assumono sul punto come l’assunto passaggio ‘ad un regime quali CEL’ risalisse all’anno 1995 ex legge n. 236 del 1995 e come tutte le dette sentenze che li avevano riguardati e pacificamente passate in giudicato fossero state tutte successive all’anno 1995, avendo, peraltro, trattato, valutato ed interpretato l’incidenza della legge n. 236 del 1995.
Del resto, il passaggio in giudicato di una sentenza che riconosce un diritto chiuderebbe definitivamente ogni questione sui fatti costitutivi del medesimo, escludendo contestualmente la rilevanza di ogni possibile fatto o intervento normativo estintivo, modificativo o impeditivo anteriore, quale avrebbe potuto essere considerata la legge n. 236 del 1995.
Tutte le dette sentenze avrebbero stabilito per 26 di loro ricorrenti (tutti tranne NOME COGNOME e COGNOME che invece non sono stati destinatari di alcuna sentenza) il diritto a vedersi erogare il trattamento economico del ricercatore
universitario confermato a tempo definito e riconosciuta l’unicità del rapporto lavorativo (anche successivamente alla legge n. 236 del 1995, istitutiva dei CEL), decorrente dall’inizio delle prestazioni svolte come lettore, tenuto conto delle progressioni economiche connesse all’anzianità di servizio.
Essi criticano la corte territoriale, che avrebbe richiamato la sentenza Cass. n. 20765 del 2018, per la quale nei rapporti giuridici periodici e nelle obbligazioni di durata, ove il giudice si pronunci su una fattispecie attuale, ma con conseguenze da esplicarsi in futuro, l’autorità di giudicato impedisce il riesame tendente ad una nuova decisione, ‘con l’unico limite di una sopravvenienza di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento’, rilevando che nella fattispecie vi sarebbero sopravvenienze ‘di diritto’ costituite dalle leggi n. 63 del 2004 e dall’art. 26 della legge n. 240 del 2010. Tuttavia, eccepiscono come la giurisprudenza di codesta Corte Suprema (tra le altre Cass. 18568/2019 e Cass. n. 31904/2018) abbia chiarito che ‘il fondamento del giudicato sostanziale, regolato dall’art. 2909 c.c., che risponde al generale principio della certezza del diritto, sarebbe quello di rendere insensibili le situazioni di fatto dallo stesso considerate, per le quali sarebbe stata individuata ed applicata la corrispondente ‘regula iuris’, ai successivi mutamenti della normativa di riferimento, anche con riguardo allo ‘ius superveniens’ che contenga norme retroattive, salva una diversa volontà espressa dal legislatore’.
Ciò posto, le norme richiamate sul punto nella sentenza impugnata (art. 1 d.l. n. 2 del 2004, conv. dalla legge n. 63 del 2004, e la sua pretesa norma interpretativa art. 26 legge n. 240 del 2010) non conterrebbero previsione alcuna di caducazione dei giudicati sostanziali già formatisi, e, dunque, non sarebbero suscettibili di incidere, nel caso concreto, in relazione alle situazioni giuridiche già oggetto di sentenze definitive (unicità del rapporto ab origine dalla prima assunzione ex legge n. 382 del 1980 – con equiparazione al trattamento economico del ricercatore confermato a tempo definito).
La sopravvenienza della legge n. 240 del 2010 non avrebbe potuto rappresentare un mutamento di diritto rilevante, se considerata come effettivamente e meramente ‘interpretativa’, dato che la stessa giurisprudenza di codesta Suprema Corte avrebbe precisato che, chiarendo il significato della
norma già vigente nel suo testo originario, non avrebbe potuto né dovuto aggiungere nulla di nuovo in termini di disciplina giuridica (Cass., Sez. L, n. 14423 del 27 maggio 2019), pena l’incostituzionalità della stessa.
Per quei lavoratori ricorrenti, che erano stati destinatari di sentenze negli anni 2005 e nel 2007 (in relazione al presente atto i ricorrenti COGNOME COGNOME COGNOME), anch’esse pacificamente passate in giudicato, e, quindi, successivamente alla legge n. 63 del 2004, ma anteriormente alla legge n. 240 del 2010 il ragionamento della Corte d’appello di Firenze sarebbe stato ancora più fallace atteso che, per i lavoratori interessati dalle dette ultime sentenze, proprio la legge n. 63 del 2004 sarebbe stata espressamente richiamata ed interpretata.
Ne consegue, con riferimento ai limiti cronologici del giudicato sostanziale, che la sopravvenienza di una legge interpretativa (ammesso e non concesso che tale fosse l’art. 26 della legge n. 240 del 2010) che contraddica l’interpretazione dell’art. 1 d.l. n. 2 del 2004, recepita nelle sentenze irrevocabili, potrebbe rendere ‘erronea’ l’interpretazione data nelle stesse, ma non ne comprometterebbe il valore, che sarebbe indipendente dall’esattezza della statuizione resa.
Conclusivamente, il quesito posto al CTU, sulla cui base si sarebbe, poi, fondata la sentenza impugnata, con la divisione in due periodi (il primo fino al momento di emanazione delle sentenze di cui erano stati destinatari i ricorrenti ed il secondo successivamente alle stesse con applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240 del 2010) sarebbe stato sicuramente errato, non potendo trovare spazio per esse alcuna ‘dicotomia’ né limitazione temporale, ai sensi della legge n. 63 del 2004, come interpretata dall’art. 26 della legge n. 240 del 2010, in relazione al loro diritto all’applicazione dell’equiparazione al parametro retributivo del ricercatore confermato a tempo definito per tutta la durata del rapporto lavorativo.
Il periodo sarebbe unico, con applicazione del trattamento economicoretributivo parametrato a quello del ricercatore confermato a tempo definito dall’inizio del rapporto e per tutta la durata dello stesso.
Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano ‘Violazione dell’art. 36 Cost. e dell’art. 1 L. 63/2004 (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)’.
Il trattamento applicato dalla Corte d’Appello di Firenze non avrebbe operato alcuna proporzione della retribuzione spettante rispetto all’effettivo orario di 540 ore annue di attività didattica pacificamente svolto.
Tale circostanza di fatto sarebbe stata provata per le mancate contestazioni specifiche dell’Università e sulla base della documentazione prodotta, che non sarebbe stata contestata, compresi i contratti integrativi di Ateneo che stabilivano, appunto, il monte ore annuo in 540 di attività didattica.
In particolare, l’art. 2 dei contratti collettivi integrativi richiamati avrebbe previsto negli anni ‘la prestazione complessiva di 540 ore annuali’ e lo svolgimento di tale monte ore annuo di attività didattiche.
Conseguentemente sia il parametro del ricercatore confermato a tempo definito da applicare per tutto il corso del rapporto, sia in subordine quello sulla cui base andrebbe calcolato l’assegno ad personam (laddove, si dovesse ritenere valido il criterio di cui all’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010), avrebbero dovuto essere aumentati di 540/500, pari ad un 8% in più di quanto calcolato dal CTU e comunque recepito dalla Corte di Firenze con la sentenza impugnata, in proporzione al maggior orario annuo di attività didattica prestata.
Con il quarto motivo i ricorrenti affermano, in via subordinata, ‘Violazione dell’art. 26, c. 3, L. 240/2010 in relazione all’art. 202 DPR 3/1957 ed all’art. 3 commi 57 e 58 legge 537/1993 (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)’.
L’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010, ritenuto applicabile alla fattispecie dalla Corte d’Appello di Firenze nella sentenza impugnata, avrebbe disposto, dalla data di entrata in vigore della legge n. 236 del 1995, un vero e proprio passaggio di carriera degli ex lettori a Collaboratori Esperti Linguistici, laddove detta norma indicava la ‘instaurazione del nuovo rapporto quale collaboratori esperti linguistici’ e stabiliva che ‘a tutela dei diritti maturati nel rapporto di lavoro precedente, i collaboratori esperti linguistici hanno diritto a conservare, quale trattamento retributivo individuale, l’importo corrispondente alla differenza tra l’ultima retribuzione percepita come lettori di madrelingua
straniera … e, ove inferiore, la retribuzione complessiva loro spettante secondo le previsioni della contrattazione collettiva di comparto e decentrata applicabile a norma del decreto-legge 21 aprile 1995, n. 120’.
Dalla lettura della norma sarebbe emersa, con tutta chiarezza, come la stessa nulla disponesse circa l’assorbimento dell’assegno ad personam da erogare agli ex lettori, come erratamente sostenuto dalla sentenza impugnata.
Affermano che, trattandosi di un passaggio di carriera senza alcuna previsione circa il riassorbimento o meno dell’assegno ad personam , avrebbe dovuto essere sul punto recuperata la regola generale vigente nell’anno 2010 (di emanazione della legge n. 240) e, quindi, quanto disposto dall’art. 3, comma 57, legge n. 537 del 1993, per il quale ‘Nei casi di passaggio di carriera di cui all’articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione’.
Sarebbe stato, peraltro, principio generale in materia di interpretazione della legge che le norme che (in ipotesi) derogassero ad altre leggi (come sarebbe l’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010) non possano estendersi oltre il loro significato letterale (artt. 12 e 14 Preleggi), tanto più se comportino effetti sfavorevoli per i destinatari di diritti altrimenti previsti dalla legge.
Con il quinto motivo i ricorrenti contestano ‘Violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) ed in particolare dell’art. 4 D.L. n. 120/1995 (conv. in L. 236/1995)’.
Essi avrebbero evidenziato, sin dal ricorso introduttivo di primo grado come, nonostante dall’inizio dei rapporti lavorativi le loro posizioni previdenziali fossero state iscritte presso l’INPS (in virtù dei loro rapporti di lavoro di diritto privato, sanciti dall’art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980 e ribaditi dall’art. 4 d.l. n. 120 del 1995, conv. dalla legge n. 236 del 1995 instaurati con l’Università degli Studi di
Firenze), tuttavia dal 1° gennaio avessero visto transitare unilateralmente la loro posizione previdenziale ad opera dell’Università medesima all’INPDAP (oggi INPS Gestione Pubblica), sulla base di un assunto obbligo derivante dalla legge n. 335 del 1995, attesa la natura pubblica del datore di lavoro.
Con il passaggio all’INPDAP si sarebbero aperti nuovi scenari previdenziali e nuove problematiche in relazione alla valutazione ed al ‘peso’ delle singole voci retributive ai fini della determinazione dei versamenti contributivi e del futuro trattamento pensionistico.
Il mutamento di Ente previdenziale da INPS ad INPDAP avrebbe comportato tra gli altri effetti anche quello di una differente modalità di calcolo del TFR/TFS, non più conteggiato come nei rapporti di lavoro privatistico ex art. 2120 c.c., ricomprendendo tutte le somme corrisposte ‘a titolo non occasionale’, bensì sulla base della normativa prevista per il pubblico impiego.
La questione del passaggio da INPS a INPDAP a partire dal 1° gennaio 2008 sarebbe stata posta nel ricorso di primo grado e in quello di appello.
Circa l’eccepita illegittimità dell’operato unilaterale trasferimento delle posizioni previdenziali all’INPDAP sarebbe stato richiesto, quindi, l’accertamento del diritto dei ricorrenti ad essere iscritti presso l’INPS e non presso l’ex INPDAP, in quanto titolari di rapporti di lavoro di natura privatistica ex artt. 28 del d.P.R. n. 382 del 1980 ed art. 4 d.l. n. 120 del 1995 (conv., dalla legge n. 236 del 1995).
La sentenza impugnata erroneamente afferma invece che sarebbe corretta l’iscrizione presso l’INPDAP delle posizioni previdenziali dei ricorrenti, in quanto dovrebbe (pag. 23) ‘farsi riferimento alla natura giuridica del datore di lavoro (pubblica o privata), che nella specie, si trattava di un datore di lavoro pubblico’ ed all’art. 2 legge n. 335 del 1995 istitutiva dell’Ente, ‘con conseguente applicazione delle regole di tale gestione’.
Tuttavia, l’art. 2 legge n. 335 del 1995, altro non avrebbe fatto che indicare i vari Enti previdenziali che vengono ‘assorbiti’ dall’INPDAP, tra i quali vi è anche l’ENPAS (cui erano iscritti i dipendenti dell’Università titolari di rapporti di lavoro pubblico), ma non avrebbe potuto incidere anche sulla posizione previdenziale dei lettori, iscritti all’INPS in forza del loro rapporto contrattuale che la legge
aveva espressamente qualificato come di diritto privato, sia come lettori sia come CEL, e che era pacificamente proseguito senza soluzione di continuità dall’assunzione al termine o ad oggi.
Del resto, la Suprema Corte avrebbe avuto modo di precisare come il rapporto di lavoro degli ex lettori, attesa la sua natura dichiarata e voluta ex lege come di natura privatistica, non avrebbe potuto ricadere nella disciplina del pubblico impiego di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, né nelle altre disposizioni che presuppongono, invece, tale ultima tipologia lavorativa, dovendosi applicare – se non per la parte in cui vi sia un’esplicita diversa deroga – la comune disciplina di diritto privato (Cass. n. 13490/2024).
Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano ‘Violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) ed in particolare dell’art. 2120 c.c. anche in relazione all’art. 4 D.L. n. 120/1995 conv. in L. 236/1995’ in quanto l’operato mutamento di Ente previdenziale da INPS ad INPDAP dal 1° gennaio 2008 avrebbe comportato anche una differente modalità di calcolo del TFR/TFS, non più conteggiato, come nei rapporti di lavoro di natura privatistica, ex art. 2120 c. c., cioè ricomprendendo a tal fine tutte le somme corrisposte ‘a titolo non occasionale’, bensì sulla base della diversa base normativa prevista per il pubblico impiego.
Infatti, mentre la retribuzione per tale ultima tipologia di personale sarebbe suddivisa, ai sensi dell’art. 45 d.lgs. n. 165 del 2001, in ‘trattamento fondamentale’ e ‘trattamento accessorio’, quella dei lettori (CEL) è composta dalle sole voci ‘stipendio’, ‘indennità integrativa speciale’ e ‘retribuzione integrativa di Ateneo’ e, dunque, per questi ultimi non sarebbe stato previsto il ‘trattamento accessorio’.
Il CCNL del 21/05/96 Comparto Università, all’art. 51 (rubricato ‘Esperti e Collaboratori Linguistici’), ai commi 3 e ss., stabilirebbe, poi, che ‘il trattamento economico del personale di cui al presente articolo è costituito dal trattamento fondamentale di cui al successivo comma e dal trattamento integrativo di Ateneo’ (…) ‘incrementato dalla contrattazione collettiva di Ateneo, in relazione a valutazioni attinenti alla produttività e all’esperienza acquisita’.
La retribuzione dei Lettori, presso l’Università degli Studi di Firenze, tuttavia, ai fini implementativi del trattamento fondamentale, altro non conterrebbe se non il solo riconoscimento dell’esperienza acquisita in servizio. Il detto art. 5 del sopra citato Contratto Integrativo, infatti, così reciterebbe sul punto: ‘la retribuzione del personale di cui all’articolo 1 è costituita dal trattamento economico fondamentale previsto dai CCNNLL Comparto Università e dal trattamento integrativo di ateneo (omissis) Il Trattamento integrativo di ateneo è stabilito in relazione al riconoscimento dell’esperienza acquisita in servizio sulla base dei servizi già prestati e successivamente determinato con cadenza biennale (omissis)’.
Dunque, la retribuzione dei Lettori sarebbe composta dalle voci di trattamento fondamentale, oltre a ‘indennità integrativa speciale’ e ‘retribuzione integrativa di Ateneo’. Tutte concorrerebbero al ‘valore base’ del trattamento retributivo.
Ciò emergerebbe dai singoli stati matricolari di servizio dei ricorrenti e dalle buste-paga dei mesi di novembre 2007 e febbraio 2008.
La voce ‘esperienza professionale maturata’, chiamata nel detto art. 5 del C.I. del 2007 ‘trattamento integrativo di ateneo’ non costituirebbe, dunque, ‘indennità, emolumento o trattamento accessorio’, non essendo l’anzianità di servizio maturata neppure inserita tra le voci di cui all’art. 45 D Lgs. 165/2001, avendo piuttosto la funzione di retribuzione fondamentale incrementata nel tempo, in relazione alla professionalità acquisita nel corso della stessa attività lavorativa. Essa sostituirebbe, quindi, gli scatti di stipendio e, comunque denominate, le progressioni di retribuzione correlate all’anzianità di servizio.
A conferma di quanto sopra, nella lettera del 24/11/10 indirizzata all’INPDAP in relazione al trasferimento della posizione previdenziale dei Lettori, l’allora Direttore Amministrativo dell’Università di Firenze, avrebbe precisato che ‘il trattamento integrativo di Ateneo non sarebbe stato erogato a seguito di valutazioni attinenti alla produttività, ma stabilito in relazione al riconoscimento dell’esperienza acquisita in servizio sulla base dei servizi prestati in precedenza e successivamente determinato con cadenza biennale e costituirebbe una componente fissa della retribuzione poiché corrisposto mensilmente (art. 5 contratto integrativo…)’.
Proprio sotto il profilo della riconosciuta equiparazione del trattamento complessivo dei lettori a quello dei ricercatori confermati a tempo definito di cui alla legge n. 63 del 2004, anche la giurisprudenza che ha affrontato la materia avrebbe riconosciuto che il trattamento integrativo sarebbe stato anch’esso parte della retribuzione fondamentale.
Ciò avrebbe avuto rilievo alla luce delle modalità di calcolo della pensione che erano state adottate dal momento del passaggio della posizione previdenziale dei ricorrenti presso l’INPDAP (oggi INPS gestione ex INPDAP), con chiusura di quella che era aperta presso l’INPS. Con detto passaggio sarebbe stata operata una illegittima distinta valutazione tra il trattamento fondamentale e quello integrativo di ateneo, considerato relativamente agli emolumenti retributivi del Lettori del tutto infondatamente ricompreso tra gli ‘oneri accessori’.
In conseguenza di ciò il trattamento integrativo di ateneo non sarebbe stato (né lo sarà) incluso dall’INPDAP (e oggi dall’INPS) tra le voci da valutare ai fini della liquidazione del T.F.R./T.F.S. dei ricorrenti ed ai fini pensionistici valutato (in quanto considerato emolumento accessorio) esclusivamente nella quota di pensione definita a norma dell0art. 13, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 503 del 1992.
Al contrario, i ricercatori confermati a tempo definito, cui avrebbero dovuto essere equiparati economicamente i lettori, per evitare la discriminazione di trattamento basata sulla nazionalità straniera, vedrebbero computati i contributi presso l’INPDAP, ai fini pensionistici anche nella quota di pensione definita a norma dell’art. 13, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 503 del 1992 e per intero ai fini della determinazione del T.F.S. e, dunque, in maniera maggiore di quanto avviene per i Lettori, la cui posizione economica dovrebbe essere, invece, in virtù delle fonti comunitarie e nazionali e delle sentenze passate in giudicato sulla ricostruzione della loro carriera, agli atti di causa, del tutto parificata a quella dei ricercatori stessi, evitando discriminazioni di sorta.
I ricorrenti rappresentano che la Corte d’Appello di Firenze, dopo avere indicato come correttamente effettuato il passaggio delle posizioni previdenziali all’INPDAP, ‘con conseguente applicazione delle regole di tale gestione’, avrebbe esaminato la ‘questione se l’indennità integrativa di Ateneo dovesse o meno
entrare nel calcolo del TFR/TFS’, affermando che: ‘l’art. 51 contratto collettivo di comparto Università 1994-1997 prevedeva che il trattamento economico del personale di cui al presente articolo è costituito dal trattamento fondamentale di cui al successivo comma e dal trattamento integrativo di Ateneo’. Sul punto l’INPS avrebbe affermato che (ferma la valutabilità di tale ultimo emolumento ai fini pensionistici), per entrare nella base imponibile del tfs/tfr avrebbe dovuto trattarsi di voce espressamente prevista come tale, non dovendosi guardare al carattere fisso o meno della medesima voce (sul punto viene richiamato il DPCM 20.12.1999 che ha recepito l’accordo Quadro 29.7.1999 sottoscritto da Aran in materia di tfr per i dipendenti pubblici). Tale accordo all’art. 4 (calcolo del tfr) prevedeva che ‘il TFR si calcola applicando i criteri previsti dall’art. 2120 del codice civile sulle seguenti voci della retribuzione:
l’intero stipendio tabellare;
l’intera indennità integrativa speciale;
la retribuzione individuale di anzianità;
la tredicesima mensilità;
gli altri emolumenti considerati utili ai fini del calcolo dell’indennità di fine servizio comunque determinata ai sensi della preesistente normativa.
Ulteriori voci retributive potranno essere considerate nella contrattazione di comparto, garantendo per la finanza pubblica, con riferimento ai settori interessati, i complessivi andamenti programmati sia della spesa corrente, sia delle condizioni di bilancio degli enti gestori delle relative forme previdenziali’.
Pertanto, a prescindere dal carattere fisso o meno della voce in questione, trattasi di una voce che non era prevista da tale disposizione in tale funzione, onde non appare computabile nella base imponibile del trattamento in questione’.
La Corte fiorentina avrebbe sostenuto, quindi, l’applicazione delle regole in materia previdenziale previste dalla gestione INPDAP e ciò quindi anche per quanto concerne la computabilità delle voci retributive ai fini del TFR/TFS (e cioè sulla base di quanto previsto dal d.P.R. n. 1032 del 1973 e dall’art. 45 d.lgs. n. 165 del 2001).
Le Sezioni Unite della Cassazione, però, avrebbero affermato come, in relazione ai rapporti di lettorato previsti dall’art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980 e di quelli successivi ex art. 4 d.l. n. 120 del 1995, che si istaurano tramite contratti di lavoro subordinato di diritto privato, ‘l’avvenuta generale contrattualizzazione del rapporto di lavoro non comporta che, ove, un determinato rapporto con la P.A. sia qualificato come di diritto privato da speciali disposizioni, anche quest’ultimo debba ritersi sottoposto alla medesima disciplina, ponendosi tale soluzione – tenuto anche conto della non integrale parificazione della disciplina generale del pubblico impiego a quella dei rapporti di diritto privato – in contrasto con il principio secondo cui la legge posteriore di portata generale non deroga alla legge speciale anteriore’ (Cass., SU, n. 8985 del 2010).
Come poi rilevato e ribadito anche dalla recentissima ordinanza n. 13490 del 2024 della S.C., l’orientamento di cui sopra si armonizzerebbe con quello ‘più generale e risalente nel tempo, alla stregua del quale il principio secondo cui va ravvisato un rapporto di impiego pubblico ogni qualvolta il rapporto medesimo, non occasionale, si instauri con un ente pubblico non economico e comporti stabile inserimento del dipendente nell’organizzazione del primo, per il perseguimento di finalità attribuite al medesimo dalla legge, è derogato qualora sia il legislatore a qualificare espressamente quel rapporto di diritto privato (cfr. fra le tante Cass. Sez. U., n. 18622/2008 Cass. Sez. U. n. 10939/2007; Cass. Sez. U. n. 14847/2006 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).
A questo orientamento, si sarebbe costantemente attenuta la giurisprudenza della Sezione Lavoro che, nel risolvere le numerose questioni interpretative inerenti alla disciplina del rapporto che intercorre far le Università e i collaboratori esperti linguistici, ha escluso ‘l’applicabilità a questi ultimi delle disposizioni dettate dal D. Lgs. n. 165/2001’.
Conclusivamente nella detta recentissima Ordinanza n. 13490 la Suprema Corte avrebbe rilevato, quindi, come ‘il rapporto disciplinato dal D.L. 120/1995 (…) è dunque un rapporto di natura privatistica, con la conseguenza che, in difetto di una specifica disposizione derogatoria, è alle norme che disciplinano il rapporto di diritto privato che occorre fare riferimento, non a quelle dettate dal
D. Lgs. n. 165/2001 e, in genere, dalle disposizioni che presuppongono l’instaurazione di un rapporto di impiego pubblico’.
Ciò posto i ricorrenti rilevano che non vi sarebbe alcuna norma pubblicistica circa i rapporti di diritto privato, che deroghi a quelle che disciplinano il rapporto di lavoro di natura privatistica degli ex lettori di cui all’art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980 prima e dopo la legge n. 236 del 1995, con la conseguenza che anche la norma che regola l’attribuzione e i criteri di calcolo e di applicazione del TFR non avrebbe potuto essere che quella di cui all’art. 2120 c.c., secondo cui il TFR andrebbe calcolato sulla base della retribuzione annua che comprende tutte le somme corrisposte in dipendenza dei rapporti di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione soltanto di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Tale norma sarebbe dovuta, quindi, prevalere su quella relativa all’applicazione del TFR/TFS ai dipendenti pubblici (titolari di un rapporto di impiego pubblico), che avrebbe portata generale per gli stessi, ma sarebbe derogata dalla norma speciale che riguarda gli ex lettori, di cui all’art. 28 d.P.R. n. 382 del 1980 e poi all’art. 4 legge n. 236 del 1995, titolari di un rapporto di natura privata.
3) Vi è, infine, il ricorso incidentale dell’Università di Firenze.
C on il primo motivo, la P.A. ricorrente rappresenta la violazione degli artt. 125, 345 e 437 c.p.c. in quanto il giudice di appello avrebbe accolto una domanda nuova e disposto l’integrazione postuma di fatti e prove non allegate nel ricorso introduttivo. Lamenta, inoltre, l’omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Sostiene che le parti intimate avrebbero chiesto nel ricorso introduttivo del giudizio il riconoscimento di differenze retributive solo in relazione al mancato adeguamento retributivo sulla base dell’orario lavorativo svolto dagli stessi e della progressione retributiva per scatti di anzianità e classi stipendiali dei ricercatori. Entrambe queste domande sarebbero state rigettate in primo e in secondo grado. Al contrario, gli intimati avrebbero domandato, per la prima volta con il settimo motivo di appello, l’assegno ad personam loro spettante sulla base
dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. con modif., dalla legge n. 63 del 2004 e dell’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010.
Con il secondo motivo la P.A. ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e l’errata applicazione dei principi in materia di giudicato con riferimento alla posizione di tutti gli ‘ex lettori ricorrenti del primo gruppo’.
La sentenza impugnata sarebbe stata erronea in quanto avrebbe riconosciuto ai lavoratori somme di denaro non spettanti. Infatti, essi sarebbero stati destinatari della sentenza n. 46 del 2000 della Corte d’appello di Firenze e della successiva sentenza del Consiglio di Stato n. 5269 del 2009.
Con la prima sarebbe stato loro riconosciuto il diritto al trattamento economico previsto dalla normativa vigente per il ricercatore universitario a tempo definito, con decorrenza dall’inizio delle prestazioni lavorative di ciascuno di essi e tenuto conto delle progressioni economiche connesse all’anzianità di servizio.
La seconda, invece, che si sarebbe occupata di verificare la corretta esecuzione della prima decisione, avrebbe affermato, invece, che ‘Risulta agli atti che, all’indomani della pronuncia da ultimo richiamata e in corretta esecuzione dei suoi ‘dicta’, l’Università di Firenze nel corso dell’anno 2000 ebbe a ricostruire la carriera di ciascuno degli odierni appellanti, riconoscendo in loro favore un trattamento economico in tutto coincidente con quello corrisposto ad un ricercatore confermato a tempo definito di pari anzianità.
Tuttavia, per il tratto temporale successivo, gli appellanti avanzavano la pretesa a che il trattamento economico in tal modo determinato venisse anche periodicamente incrementato attraverso i meccanismi di adeguamento retributivo per il personale c.d. ‘non contrattualizzato’ di cui all’art. 24 della l. 23 dicembre 1998, n. 448 (i. e.: attraverso l’applicazione in proprio favore del contenuto dei dd.P.C.M. che determinano il quantum di incremento retributivo da accordare al personale di cui all’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165)’.
Con il terzo motivo parte ricorrente contesta, con riferimento a tutti gli ex lettori, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 125 c.p.c. e 2697 c.c., in quanto le controparti non avrebbero mai lamentato che per il periodo oggetto della sentenza n. 46 del 2000 della Corte d’appello di Firenze avrebbero dovuto essere loro corrisposte differenze retributive per inesatto o mancato adeguamento della retribuzione a quella del ricercatore confermato a tempo definito.
Inoltre, la CTU sarebbe stata esplorativa e sarebbe stata effettuata sulla base di documenti mai acquisiti al processo e non allegati alla perizia.
Con il quarto motivo la P.A. ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv., con modif., dalla legge n. 63 del 2004 e dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240 del 2010 in quanto, in applicazione della contrattazione collettiva nazionale e integrativa, il trattamento economico degli intimati sarebbe stato adeguato a quanto previsto dall’art. 26, comma 3, legge n. 240 del 2010.
In subordine, evidenzia che il giudice di appello avrebbe errato ad escludere la rilevanza, ai fini del riassorbimento, degli scatti stipendiali biennali riferiti all’esperienza acquisita biennale di cui all’art. 5 del contratto integrativo di Ateneo.
Con il quinto motivo la P.A. ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. e dell’art. 1241 c.c. ss. in quanto la corte territoriale avrebbe errato a non considerare, con riferimento alla posizione di tutti gli ex lettori in favore dei quali erano stati riconosciuti dalla CTU saldi parziali negativi, che le somme ricalcolate dal CTU per il primo periodo erano rappresentante da un saldo negativo che avrebbe dovuto essere sottratto da quelle riconosciute per il secondo periodo, in applicazione dei principi in tema di compensazione impropria.
Con il sesto motivo la P.A. ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 36, legge n. 724 del 1994 in quanto la corte territoriale
avrebbe errato a riconoscere agli ex lettori ricorrenti il cumulo di rivalutazione e interessi.
Le questioni sollevate investono vari profili di rilievo nomofilattico, in particolare quello della natura del rapporto di lavoro in esame e del correlato regime previdenziale, con specifico riguardo all’identità dell’ente gestore ed erogatore dello stesso nel periodo storico considerato.
Pertanto, ritiene il Collegio necessario rinviare la causa a nuovo ruolo perché sia decisa in pubblica udienza, invitando le parti a concentrare la discussione soprattutto sui profili previdenziali sopra indicati e sull’individuazione dell’ente al quale i lavoratori avrebbero dovuto essere iscritti.
P.Q.M.
La Corte, rinvia la causa a nuovo ruolo affinché sia trattata in pubblica udienza .
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, l’8