Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 19308 Anno 2025
Civile Ord. Sez. U Num. 19308 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24443-2024 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA al INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME e rappresentata e difesa giusta procura
in calce al ricorso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COMUNE DIANO MARINA, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso, unitamente all’avvocato COGNOME NOMECOGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6493/2024 del CONSIGLIO DI STATO depositata il 19/07/2024;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dottor NOME COGNOME che chiede che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite voglia dichiarare inammissibile il ricorso;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso proposto dinanzi al Tar Liguria a seguito di opposizione, COGNOME RAGIONE_SOCIALE, concessionaria di un’area demaniale di mq. 11.645 (di cui mq. 10.365 di area scoperta) nel comune di Diano Marina, in cui gestisce un campeggio attrezzato denominato ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ha impugnato l’ordinanza comunale n. 52 del 12 maggio 2021, che ha intimato la decadenza dalla concessione in ragione del mancato pagamento dei canoni.
Il Tar Liguria ha respinto il ricorso rilevando:
-che la sospensione dei canoni, prevista dall’art. 1, comma 685, della legge 30 dicembre 2018 n. 145, ‘ Quale misura straordinaria di tutela delle attività turistiche che hanno subito danni conseguenti agli eventi atmosferici verificatisi nei mesi di ottobre e novembre 2018, ubicate nelle regioni per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza con deliberazione del ‘, opera solo per i canoni (1 gennaio 2019), mentre, nel caso di specie, la morosità contestata
Consiglio dei ministri 8 novembre 2018 dovuti successivamente all’entrata in vigore della legge è tutta relativa al periodo 2012-2016;
-che, in ogni caso, la ricorrente non potrebbe neppure rivendicare, per la propria attività, il diritto alla sospensione del canone disposto dalla norma invocata, per la decisiva ragione che non ha provato di avere effettivamente presentato, nelle forme previste dai decreti del Commissario delegato di Protezione civile nn. 11 e 12 del 2019, domanda di contributo a risarcimento dei danni conseguenti agli eventi atmosferici verificatisi nei mesi di ottobre e novembre 2018, tale non potendosi considerare la mera ‘segnalazione’ di danno del 23 novembre 2018.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello della concessionaria con la sentenza n. 11010/2023, osservando che, pure a seguito dell’ottemperanza alla richiesta istruttoria formulata in sede cautelare, sussisteva una radicale divaricazione tra le parti sul computo degli effettivi crediti/debiti.
Ha perciò ritenuto dirimente la nota dell’Agenzia del Demanio del 19 settembre 2023, la quale certificava come importi ancora dovuti dall’appellante e iscritti a ruolo: per indennità euro 147.198.78 per gli anni dal 2008 al 2012; euro 275.739,93 per
gli anni dal 2013 al 2017; per canone demaniale marittimo euro 11.008,11 per l’anno 2015.
Sussisteva quindi il grave inadempimento posto alla base del provvedimento impugnato, desumibile non solo dall’entità del debito ma anche dalle reiterate e prolungate morosità. Infatti, anche con solo riferimento alle annualità prese in esame con il provvedimento impugnato in primo grado, sulla base della documentazione agli atti, era certa la situazione di inadempienza della ricorrente con conseguente irrilevanza dell’esatto ammontare delle somme dovute.
L’istanza dell’appellante di sospensione del processo per la pendenza di due giudizi civili era respinta, in quanto i relativi esiti non si ponevano in termini di pregiudizialità per la definizione del contenzioso, precisando in ogni caso che quello contrassegnato dal n. 2328/2020 era giunto a sentenza in data 13 novembre 2023 con il rigetto della domanda ivi proposta dall’appellante e che l’altro giudizio, pendente presso il medesimo Tribunale ordinario di Imperia, verosimilmente si sarebbe concluso ben oltre la scadenza naturale delle concessioni.
Avverso tale sentenza la ricorrente ha proposto revocazione per errore di fatto revocatorio, a suo dire ravvisabile nell’avere la Sezione attribuito rilevanza decisiva alla nota dell’Agenzia del Demanio che reca l’elencazione di una presunta situazione debitoria, tuttavia riferita a titoli diversi (indennità) dall’unico (canone demaniale marittimo) posto a fondamento dell’impugnato provvedimento di decadenza.
Aggiungeva che, anche con riferimento al residuo canone demaniale dell’annualità 2015, l’errore di fatto commesso dal
Collegio risiedeva nel non essersi avveduto dell’avvenuto pagamento di tale saldo, la cui ricevuta di pagamento era stata prodotta.
Inoltre, osservava che, « dalla stringatezza e genericità della motivazione della pronuncia di appello (appena venti righe a fronte di un contenzioso davvero articolato e complesso) » emergeva che, quanto alle questioni relative ai canoni demaniali del 2016 e del 2020, la sezione non avrebbe considerato che:
-per l’annualità 2016, la concessionaria aveva chiesto la rateizzazione all’Agenzia del Demanio e al momento dell’adozione del provvedimento di decadenza, era ancora in attesa di una risposta che, alla luce delle precedenti esperienze, sarebbe stata positiva;
-per l’annualità 2020 non solo vi era stata contestazione dinanzi al Tribunale di Imperia (sia con la citazione 26 novembre 2020 sia con quella del 12 luglio 2023), ma la stessa era stata oggetto di definizione agevolata e di essa era pure stato chiesto l’invio del modello F24 oltre che la rateizzazione.
Ulteriore errore di fatto era rilevabile nella parte in cui la sentenza, da un lato, riconosceva che la sospensione del pagamento del canone, ai sensi dell’art. 1 comma 685, della legge 30 dicembre 2018 n. 145, si applica alle annualità successive al 2019 ma, dall’altro, non aveva rilevato il dato documentale che il canone 2020 rientrava nel quinquennio sospeso ope legis sino al 31 dicembre 2023 proprio ai sensi della citata disposizione, quale misura straordinaria di tutela delle attività turistiche che hanno subìto danni conseguenti agli eventi atmosferici verificatisi nei mesi di ottobre e novembre 2018.
Sussisteva anche l’errore revocatorio da omessa pronuncia in quanto, oltre a non avvedersi della documentazione che attestava la sospensione del canone, la Sezione non avrebbe pronunciato sullo specifico motivo di appello relativo alla violazione dell’art. 1, comma 685, della legge 30 dicembre 2018 n. 145, che prevedeva la sospensione ope legis del pagamento del canone demaniale.
Ciò esposto, in via rescissoria la ricorrente chiedeva l’accoglimento del motivo di appello relativo all’illegittimità dei provvedimenti impugnati innanzi al Tar per i motivi in diritto « articolati nell’impugnazione principale e che, in questa sede, sinteticamente si riportano, rimandando, tuttavia, al contenuto del ricorso in appello ed alle memorie successivamente depositate ».
Nella resistenza del Comune di Diano Mariana, che ha chiesto il rigetto della revocazione, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 6493 del 19 luglio 2024 ha dichiarato il ricorso inammissibile.
Rilevava che l’errore di fatto revocatorio, per esser dirimente ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c., si ha solo quando: 1) a causa d’una svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, oggettivamente e immediatamente rilevabili, il giudice supponga l’esistenza di un fatto la cui verità sia esclusa in modo incontrovertibile o viceversa; 2) l’errore dev’esser decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non deve cadere su di un punto controverso, sul quale il giudice si sia pronunciato; 4) deve presentare i caratteri di evidenza e di obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non deve consistere in un vizio di assunzione
del fatto, né tampoco in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo.
Nel caso di specie non era ravvisabile l’errore di fatto revocatorio, atteso che le censure formulate, più che evidenziare errori di fatto, lamentavano l’erronea interpretazione, da parte del CDS, di norme di diritto ovvero l’erronea valutazione degli atti di causa: si trattava, quindi, con tutta evidenza, di presunti ‘errori’ non di fatto bensì riguardanti (in ipotesi) l’attività del giudice d’interpretazione e di valutazione del contenuto di domande ed eccezioni, come tali non idonei a dare ingresso alla necessaria fase rescindente del giudizio.
Le altre censure riguardavano l’asserito omesso esame di censure formulate ovvero l’asserito omesso esame di documentazione prodotta, ma erano tendenti ad introdurre un inammissibile terzo grado nel giudizio amministrativo.
Infatti, non costituisce motivo di revocazione per errore di fatto la circostanza che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni proposte dalla parte a sostegno delle proprie censure.
Il provvedimento di decadenza oggetto di causa si fonda sull’accertato inadempimento al versamento di alcune annualità del canone demaniale: inadempimento che la ricorrente non contesta nell’ an ma soltanto nel quantum , così espressamente riconoscendolo e ammettendo anche la circostanza del ritardo nel pagamento anche relativamente a canoni che afferma di aver corrisposto successivamente alle scadenze.
La sentenza revocanda, al di là del riferimento alla nota dell’Agenzia del Demanio del 19 settembre 2023, che la
ricorrente valorizza come idonea ad ingenerare un errore di fatto revocatorio, ha evidenziato che, « anche con solo riferimento alle annualità prese in esame con il provvedimento impugnato in primo grado, sulla base della documentazione agli atti è certa la situazione di inadempienza della ricorrente con conseguenza irrilevanza dell’esatto ammontare delle somme dovute».
Ne discende che non era ravvisabile alcun errore di fatto che potesse dare ingresso alla fase rescindente, tenuto conto che la sentenza ha motivato rilevando la situazione di inadempienza che la ricorrente non contesta se non nel quantum debeatur.
Il Consiglio di Stato rilevava, altresì, l’inammissibilità della revocazione anche per la mancata riproposizione, nell’ambito della domanda rescissoria, delle specifiche doglianze formulate nell’atto di appello, atteso che la ricorrente in via rescissoria aveva chiesto l’accoglimento del motivo di appello relativo all’illegittimità dei provvedimenti impugnati innanzi al Tar per i motivi in diritto « articolati nell’impugnazione principale e che, in questa sede, sinteticamente si riportano, rimandando, tuttavia, al contenuto del ricorso in appello ed alle memorie successivamente depositate ».
Trattasi di modalità di formulazione del mezzo di gravame che è in contrasto con il fatto che la revocazione prevede una fase rescindente e una fase rescissoria, che hanno incidenza su una precedente sentenza, sicché la relativa domanda deve contenere tutti i requisiti necessari per mettere il giudice nella condizione di adottare la pronuncia definitiva.
Poiché il ricorso per revocazione è retto dal principio di autosufficienza, è da ritenersi inammissibile quando, oltre alla domanda di revocazione della sentenza, non contiene anche la domanda di decisione sull’originario ricorso, con la riproposizione degli specifici motivi.
Poiché la ricorrente non aveva riproposto testualmente i motivi con riguardo all’eventuale fase successiva all’annullamento della sentenza (fase rescissoria), essendosi limitata a tratteggiare una sintesi delle censure, tale modalità non era sufficiente, ai fini della ammissibilità del ricorso per revocazione
Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da NOME COGNOME sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
Il Comune di Diano Marina ha resistito con controricorso.
La Prima Presidente in data 29 gennaio 2025 ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380 bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.
Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte. Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia l’illegittimo diniego della giurisdizione ex artt. 103 e 111 Cost., anche in relazione alle disposizioni di cui agli artt. 295 c.p.c. e 79 c.p.a.
Il giudice della revocazione ha escluso la necessità di sospendere il giudizio in attesa della definizione del contenzioso civile nel quale si dibatteva proprio della sussistenza della morosità imputata alla ricorrente, e nel corso del quale era stata anche disposta una CTU.
Il secondo motivo lamenta l’illegittimo diniego della giurisdizione ex artt. 103 e 111 Cost. anche per la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per l’evidente omessa valutazione e/o travisamento della prova documentale, in maniera decisiva rispetto al contenuto della sentenza ed al suo substrato motivazionale.
Si lamenta che la sentenza gravata avrebbe ritenuto che le censure mosse in sede di revocazione erano tali da configurare l’esistenza di errori di diritto, essendosi quindi pervenuti ad un vero e proprio travisamento del mezzo di impugnazione, posto che si era contestato che la nota dell’Agenzia del Demanio era relativa a somme la cui debenza non aveva determinato la decadenza impugnata.
In tal modo è stata omessa la decisione sulla revocazione realizzandosi un diniego di giurisdizione.
Il terzo motivo lamenta l’illegittimo diniego di giurisdizione ex artt. 103 e 111 Cost. anche sotto il profilo della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e del principio di autosufficienza, stante l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione in ragione dell’asserita mancanza di riproposizione delle specifiche doglianze formulate in sede di appello.
Si contesta l’affermazione della sentenza gravata che ha ritenuto che il ricorso per revocazione fosse inammissibile in quanto non
aveva puntualmente riprodotto i motivi di appello sui quali chiedeva pronunciarsi in sede rescissoria.
Assume parte ricorrente che invece aveva riproposto le censure in precedenza avanzate in sede di appello.
2. I primi due motivi sono inammissibili.
Già nella proposta di definizione depositata in corso di causa, è stato sottolineato che ‘…. i tre motivi identificano vizi endo -giurisdizionali, perché rinviano a un cattivo esercizio della giurisdizione: non vi è quindi violazione del limite esterno della giurisdizione, sub specie di diniego di giustizia, ma esercizio della giurisdizione che, secondo la ricorrente, sarebbe stato svolto pretermettendo il contenuto completo del ricorso in appello, le prove documentali fornite e la rilevanza della pendenza di altro giudizio, in tal modo rifluendo in errores in iudicando e in procedendo’, per poi aggiungere che ‘in realtà, il vizio denunciato si annida già nella sentenza di appello, per cui vale rammentare che «nel ricorso per cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato emessa su impugnazione per revocazione, non vi è spazio per una questione di giurisdizione quando il vizio di eccesso di potere denunciato in realtà si annidi, secondo la deduzione della stessa parte ricorrente, nella sentenza di appello del giudice amministrativo, per poi riflettersi per ricaduta -ma soltanto in conseguenza del non superamento di quell’esito decisorio per effetto della valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazionenella sentenza che dichiara inammissibile la revocazione» (Cass., Sez. Un., n. 8676/23; Cass., Sez. Un., n. 22687/24)’.
Ritiene il Collegio che si tratti di considerazioni che appaiono meritevoli di condivisione, avendo questa Corte ripetutamente affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione, proposto ai sensi degli artt. 362 c.p.c. e 111 Cost., con il quale si censura la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, giacché con esso non viene posta una questione di sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, dedotta una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è consentito ricorrere in sede di legittimità in base alle anzidette norme (Cass. S.U. n. 1603 del 19/01/2022; Cass. S.U. n. 27195/2023).
Correttamente è stato evidenziato che i motivi di ricorso in esame, senza evidenziare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, si risolvono nella contestazione della correttezza della valutazione da parte del Consiglio di Stato delle condizioni legittimanti l’ammissibilità della richiesta di revocazione.
In tal senso va dato seguito a quanto affermato da Cass. S.U. n. 8588/2022, che ha ribadito che, sebbene con riferimento all’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, è censurabile il solo difetto assoluto di giurisdizione – che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento) -, nonché di difetto relativo di giurisdizione,
riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, senza che tale ambito possa estendersi, di per sé, ai casi di sentenze ‘abnormi’, ‘anomale’ ovvero di uno ‘stravolgimento’ radicale delle norme di riferimento. Sicché, tale vizio non è configurabile per errores in procedendo o in iudicando , i quali non investono la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere medesimo (tra le molte, successivamente alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, cfr.: Cass., S.U., n. 7926/2019, Cass., S.U., n. 8311/2019, Cass., S.U., n. 29082/2019, Cass., S.U., n. 7839/2020, Cass., S.U., n. 19175/2020, Cass., S.U., n. 18259/2021).
Una volta richiamati i suesposti principi, quanto al primo motivo, il tema della sospensione del giudizio amministrativo in ragione della contemporanea pendenza di due giudizi civili era stato già posto in occasione della decisione della sentenza revocanda ed il Consiglio di Stato aveva chiaramente espresso il convincimento per il quale non sussisteva pregiudizialità del giudizio de quo rispetto a quello pendente dinanzi al giudice ordinario.
Ne deriva che, come già sopra segnalato, poiché il vizio risiede nella stessa sentenza della quale era stata richiesta la revocazione, non è dato denunciare il vizio di eccesso di potere giurisdizionale avverso la sentenza che abbia deciso sulla revocazione, in quanto la deduzione opera per ricaduta -ma
soltanto in conseguenza del non superamento di quell’esito decisorio per effetto della valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione -ed essendo incontestato dalla stessa ricorrente che sulla revocazione dovesse pronunciarsi il giudice amministrativo.
Peraltro, questa Corte ha affermato che il mancato esercizio, da parte del Consiglio di Stato, del potere di sospendere il giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (applicabile al processo amministrativo per il rinvio contenuto nell’art. 79, comma 1, c.p.a.) non integra una violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ma piuttosto un errore ” in procedendo “, come tale insindacabile (Cass. S.U., 23/09/2020, n. 19952).
Analoghe considerazioni possono essere svolte quanto al secondo motivo di ricorso, che attinge la valutazione, riservata al giudice amministrativo, circa la ricorrenza nei fatti esposti dell’esistenza di un errore di fatto revocatorio, che peraltro è stato escluso assumendosi che in realtà la critica colpiva la valutazione in chiave probatoria della nota dell’Agenzia del Demanio del 19 settembre 2023. La sentenza impugnata ha però sottolineato che in realtà il giudizio di inadempienza della ricorrente rispetto agli obblighi derivanti dalla concessione era ricavata dalla ‘ulteriore documentazione prodotta in giudizio dall’ente appellato’ , affermazione questa che priva di decisività anche il fatto su cui sarebbe caduto l’errore percettivo asseritamente commesso dal giudice di appello.
Ma trattasi, anche in questo caso, della denuncia di un error in iudicando che non rientra tra quelli suscettibili di generare un’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale passibile di
denuncia dinanzi a queste Sezioni Unite (la censura avverso la sentenza pronunciata dal giudice amministrativo in materia di revocazione – prevista nella giustizia amministrativa dall’art.106 c.p.a. con il richiamo ai casi ed ai modi di cui agli artt. 395 e 396 c.p.c. -nella quale la contestazione investe modalità di esercizio del potere giurisdizionale, è inammissibile ove, come nella fattispecie si prospetti l’esercizio del detto potere al di fuori dei casi consentiti dall’ordinamento, in quanto si risolve nella doglianza circa il suo erroneo esercizio, come tale rientrante nei limiti propri della giurisdizione del giudice amministrativo; Cass. S.U. n. 29082/2019).
La censura, pertanto, non è idonea ad evidenziare un’ipotesi di arretramento o diniego della giurisdizione, ma mira piuttosto a lamentare un erroneo esercizio della potestà giurisdizionale pacificamente attribuita al giudice amministrativo, in ragione del rimedio impugnatorio avanzato dalla ricorrente.
Quanto al terzo motivo, la sua inammissibilità deriva a monte dal riscontro della inammissibilità dei primi due motivi di ricorso, posto che, solo ove gli stessi fossero stati accolti, si sarebbe posto il problema della verifica circa il rispetto delle condizioni formali di ammissibilità del ricorso per revocazione.
L’esito infausto delle censure che investono la fondatezza della revocazione implica evidentemente l’inammissibilità del terzo motivo, il quale si palesa in ogni caso inammissibile anche in relazione al fatto che denuncia nella sostanza un error in procedendo , contestandosi l’apprezzamento, in punto di diritto da parte del Consiglio di Stato, delle condizioni che la legge
processuale pone per la rituale formulazione del ricorso per revocazione avverso sentenza di appello.
Il ricorso deve, quindi, essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380 bis cpc ultimo comma a seguito di proposta di inammissibilità a firma della Prima Presidente, la Corte, avendo definito il giudizio in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380 bis ultimo comma.
Parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di € 7.500,00 in favore del controricorrente e di € 3.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Poiché il ricorso è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi € 7.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese
generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, se dovuti;
Condanna la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., della somma equitativamente determinata nella misura di € 7.500,00, nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende ed in applicazione dell’art. 96, quarto comma, c.p.c., della somma di € 3.500,00;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 10 giugno