Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6913 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 6913 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 19571-2019 proposto da:
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 693/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 18/12/2018 R.G.N. 521/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/01/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Oggetto
RNUMERO_DOCUMENTOG.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 16/01/2024
CC
R.G. 19571/19
Rilevato che:
Con sentenza del giorno 18.2.2018 n. 693, la Corte d’appello di Salerno accoglieva l’appello di NOME avverso la sentenza del tribunale di Salerno che aveva rigettato la domanda proposta da quest’ultima avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di lavoro agricolo svolto alle dipendenze dell’azienda RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE per 49 giornate lavorative nell’a nno 2012 e la conseguente iscrizione negli elenchi bracciantili, oltre alla pretesa indennità di disoccupazione agricola, per il medesimo anno.
Il tribunale ha rigettato la domanda, perché con altra sentenza pronunciata dallo stesso giudice era stata accertata la natura industriale dell’attività esercitata dalla società datrice di lavoro della ricorrente, fino al mese di settembre 2012 , così che non c’era spazio per l’accertamento del rapporto di lavoro agricolo.
La Corte d’appello, a sostegno dei propri assunti di accoglimento del gravame di NOME, ha ritenuto che il reinquadramento previdenziale operato dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE dei dipendenti della società datrice RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, come dipendenti di azienda industriale e non come lavoratori agricoli che nell’ottica dell’Istituto giustificava la mancata corresponsione alla ricorrente delle prestazioni previste per tale ultima categoria di lavoratori (in virtù del principio, propugnato dall’Istituto, secondo cu i non vi potrebbe esservi una asimmetria tra il regime contributivo imposto all’azienda e quello del singolo lavoratore) – non doveva ritenersi retroattivo, in ragione del principio di non retroattività delle riclassificazioni, che è teso a tutelare l’affi damento delle imprese e dei lavoratori nella correttezza delle fattispecie previdenziali maturate e che prevede come unica deroga (con conseguente retroattività di tale riclassificazione), la circostanza che l’inquadramento iniziale fosse stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro (fattispecie non ricorrente), mentre la deroga all’irretroattività non ricorre ad avviso della Corte del merito -nel caso in cui l’inquadramento successivo, fosse dovuto a variazioni non comunicate dal datore di lavoro, e ciò perché nella specie, si era potuto giungere alla riclassificazione solo a seguito di non facili accertamenti peritali che avevano consentito di rilevare una prevalenza dell’attività industriale:
ad avviso della Corte d’appello, l’art. 3 comma 8 della legge n. 335 del 1995, nel disciplinare gli effetti dei provvedimenti di variazione di inquadramento previdenziale non impone alcun obbligo a carico del datore di lavoro di informare l’ente, con apposita dichiarazione preventiva, della variazione di inquadramento a seguito del mutamento dell’attività svolta. Pertanto, in virtù dell’anno di competenza al quale l’indennità di disoccupazione richiesta si riferiva, l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE era tenuta a corrisponderla alla l avoratrice, perché in tale anno l’azienda era classificata come agricola e solo successivamente era stata inquadrata come azienda industriale.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, mentre NOME resistite con controricorso.
Il Collegio riserva ordinanza, nel termine di sessanta giorni dall’adozione della presente decisione in camera di consiglio.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE lamenta il vizio di di nullità della sentenza, per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c., in quanto la statuizione sulla non retroattività della riclassificazione dell’attività d’impresa a fini previdenziali, non era sorretta da autonoma motivazione nella decisione della Corte d’appello di Salerno perché la Corte del merito si era basata su dati fattuali di altro processo intercorrente tra l a società datrice di lavoro dell’odierna ricorrente e l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, cui era rimasta estranea l’odierna lavoratrice e sulle relative indagini peritali, in merito alla effettiva attività svolta dall’azienda RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE.
Con il secondo motivo di ricorso, l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE lamenta il vizio di violazione di legge, in particolare, dell’art. 3 comma 8 della legge n. 335/95, degli artt. 1, 2, 3 e 4 della legge 352/78 e dell’art. 44 bis del DL. 269/03, convertito con modificazioni nella le gge n. 326/03, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., perché erroneamente, la Corte d’appello aveva sostenuto l’irretroattività della riclassificazione dell’attività aziendale a fini contributivi, in ragione del fatto che l’inquadramento inizia le non era avvenuto sulla base di dichiarazioni inesatte del datore di lavoro e ciò, perché il medesimo datore di lavoro, ad avviso dell’Istituto aveva, comunque, omesso di comunicare successivamente ulteriori
circostanze relative alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che avevano indotto l’Istituto a un nuovo inquadramento dell’attività dell’azienda, a fini contributivi, come azienda industriale e non più come azienda agricola.
Il primo motivo è infondato.
La sentenza ha motivato non solo facendo riferimento al precedente della stessa Corte d’appello (sentenza n.674/18), bensì esternando anche proprie ragioni di fatto e di diritto (v. p.4 punto 10 della sentenza) sulla base delle quali l’art.3, co.8 l. n.335/95 non può riguardare il caso di omessa comunicazione di circostanze attinenti al mutamento dell’attività aziendale (da agricola e industriale).
Il secondo motivo è infondato.
L’orientamento ormai costante di questa Corte (Cass.568/22, Cass.5541/21, Cass.14257/19, Cass.3460/18, Cass.4521/06), cui va data continuità, e che ha superato il precedente di Cass.8558/14, afferma che la regola generale posta dall’art.3, co.8 l. n.335/95 è quella per cui i provvedimenti dell’RAGIONE_SOCIALE di variazione della classificazione ai sensi dell’art.49 l. n.88/89 non hanno efficacia retroattiva e producono i loro effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione; tale regola vale quand’anche la riclassificazione sia svolta d’ufficio dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE in caso di omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività; la retroattività è limitata, secondo la lettera della norma, alla sola ipotesi di un inquadramento iniziale errato poiché determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
L’orientamento appena citato resiste alle critiche avanzate col motivo di ricorso, poiché, come già rilevato da Cass.568/22, la predetta lettura dell’art.3, co.8 l. n.335/95 meglio si giustifica alla luce della ratio della norma, tesa a favorire la certezza nel rapporto contributivo, che ha ripercussioni sul bilancio dell’istituto e sulle posizioni previdenziali dei singoli lavoratori. La retrodatazione degli effetti del nuovo inquadramento, inoltre, deve essere controbilanciata dall’esigenza dell’impresa a non essere soggetta a obbligazioni per periodi ormai passati.
Conclusivamente il ricorso va rigettato, con condanna alle spese secondo soccombenza.
Sussistono i presupposti per il versamento da parte dell’Istituto previdenziale, per il versamento dell’ulteriore importo rispetto a quello già versato a titolo di contributo unificato, a i sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Rigetta il ricorso.
Condanna l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE a pagare a NOME le spese di lite che liquida nell’importo di € 3.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, oltre il 15% per spese generali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ove dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno