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Riammissione in servizio: obbligo del datore di lavoro

Un Comune è stato condannato a risarcire una dipendente per la tardiva riammissione in servizio. La Cassazione ha confermato che, scaduto il termine massimo di 5 anni della sospensione obbligatoria, il datore di lavoro ha l’obbligo di reintegrare il lavoratore, anche senza una sua richiesta formale.

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Pubblicato il 8 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Riammissione in Servizio: Quando Scatta l’Obbligo del Datore di Lavoro Pubblico?

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato un tema cruciale nel pubblico impiego: la riammissione in servizio di un dipendente dopo il periodo massimo di sospensione cautelare. La decisione chiarisce che il datore di lavoro pubblico ha un obbligo proattivo di reintegrare il lavoratore, senza che quest’ultimo debba presentare una specifica richiesta. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante pronuncia.

I Fatti di Causa: Una Lunga Sospensione e la Tardiva Riammissione

Il caso riguarda una dipendente comunale sospesa obbligatoriamente dal servizio a seguito di un procedimento penale. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di comparto, la sospensione cautelare non può superare la durata massima di cinque anni.

Allo scadere di tale termine, il Comune non ha provveduto a riammettere in servizio la lavoratrice, la quale è stata reintegrata solo molto tempo dopo. La dipendente ha quindi agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno, pari alle retribuzioni non percepite nel periodo tra la scadenza della sospensione e l’effettiva riammissione. La Corte d’Appello le ha dato ragione, condannando l’ente locale al pagamento. Il Comune ha quindi proposto ricorso in Cassazione, sostenendo di non avere alcun obbligo di procedere alla riammissione in assenza di una formale richiesta da parte della dipendente.

La Decisione della Corte: La Riammissione in Servizio è un Obbligo

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del Comune, confermando integralmente la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno stabilito un principio di diritto chiaro e inequivocabile: una volta decorso il termine massimo di durata della sospensione obbligatoria, si producono automaticamente due effetti giuridici:

1. La revoca della sospensione cautelare.
2. La riammissione in servizio del dipendente.

La Corte ha sottolineato che questi effetti non sono subordinati a un’istanza dell’interessato. È il datore di lavoro che deve attivarsi per ripristinare la funzionalità del rapporto di lavoro, in ossequio ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.

Le Motivazioni: L’Interpretazione dell’Art. 5 del CCNL

Il fulcro della motivazione risiede nell’interpretazione dell’art. 5 del CCNL Regioni ed Enti Locali. La norma prevede che, decorso il termine massimo di cinque anni, ‘la sospensione cautelare […] è revocata ed il dipendente è riammesso in servizio’. L’uso della congiunzione ‘ed’ indica, secondo la Corte, una sequenza automatica e inscindibile di effetti.

L’inerzia del datore di lavoro, pertanto, costituisce un inadempimento. L’unico caso in cui l’amministrazione può evitare la riammissione è quando, motivatamente, dispone una diversa forma di sospensione, quella facoltativa, qualora la permanenza in servizio del dipendente possa creare un pregiudizio alla credibilità dell’ente. Nel caso di specie, il Comune non aveva adottato alcun provvedimento di questo tipo, rimanendo semplicemente inerte.

Le Conclusioni: Implicazioni per la Pubblica Amministrazione

Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale: la pubblica amministrazione, in qualità di datore di lavoro, ha il dovere di gestire attivamente il rapporto di impiego, garantendo certezza giuridica. Non può attendere passivamente le iniziative del dipendente, soprattutto quando la legge e la contrattazione collettiva impongono scadenze e obblighi precisi. La scadenza del termine massimo di sospensione non determina solo la fine della misura cautelare, ma impone all’ente un obbligo di agire, ripristinando il servizio o, in casi eccezionali e motivati, adottando un diverso provvedimento. L’inerzia è illegittima e fonte di responsabilità risarcitoria.

Dopo la scadenza del termine massimo di sospensione cautelare, il dipendente deve chiedere di essere riammesso in servizio?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che la riammissione in servizio è un effetto giuridico automatico che consegue alla scadenza del termine. È un obbligo del datore di lavoro provvedere alla reintegra, anche in assenza di una richiesta formale da parte del dipendente.

Cosa succede se il datore di lavoro pubblico non provvede alla riammissione in servizio allo scadere dei 5 anni?
Il datore di lavoro è considerato inadempiente. Di conseguenza, è tenuto a risarcire il danno subito dal lavoratore, che è pari alle retribuzioni che avrebbe percepito dal giorno della scadenza della sospensione fino all’effettiva riammissione in servizio.

Esistono eccezioni all’obbligo di riammissione in servizio dopo 5 anni?
Sì, l’unica eccezione prevista è quella in cui l’amministrazione, anziché reintegrare il dipendente, disponga una sospensione facoltativa. Tale provvedimento deve essere motivato dalla necessità di evitare un pregiudizio alla credibilità e all’operatività dell’ente a causa dei reati per cui si procede penalmente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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