Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 276 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 276 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 28903-2018 proposto da:
Oggetto
Impiego pubblico Applicazione art. 16 l.n. 183/2010 Revoca part time
R.G.N. 28903/2018
COGNOME
Rep.
Ud. 09/11/2023
CC
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 77/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 29/03/2018 R.G.N. 383/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2023 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
1. la Corte d’Appello di Bologna, adita dal Ministero della Giustizia, ha riformato la sentenza del Tribunale di Forlì, che aveva accolto il ricorso, ed ha rigettato le domande proposte da NOME COGNOME la quale aveva agito in giudizio eccependo la nullità dell’atto, adottato il 10 maggio 2011 dal Ministero, di revoca del rapporto di lavoro a tempo parziale autorizzato dal 25 giugno 2008 e di ripristino, con decorrenza dal 1° luglio 2011, del rapporto a tempo pieno;
2. la Corte territoriale ha evidenziato che il Ministero si era avvalso della facoltà concessa dall’art. 16 della legge n. 183/2010 e che la Corte Costituzionale aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione in parola, sollevata dal Tribunale di Forlì sul presupposto di un possibile contrasto della norma con la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro 6 giugno 1997 allegato alla direttiva 97/81/CE;
ha aggiunto che anche la Corte di Giustizia era pervenuta alle medesime conclusioni, affermando che la clausola 5 non osta ad una normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione del contratto da tempo parziale a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato;
3. il giudice d’appello ha escluso, poi, la denunciata violazione delle regole di correttezza e buona fede perché l’amministrazione con le comunicazioni del 18 marzo e 16 aprile 2011 aveva reso note le ragioni che non consentivano la prosecuzione del rapporto a tempo parziale e precisato quali fossero le esigenze organizzative che stavano alla base della disposta trasformazione;
il Ministero aveva, inoltre, concesso un periodo di preavviso sufficiente per consentire alla dipendente di riorganizzare la vita extra lavorativa;
4. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME sulla base di un unico motivo, al quale ha opposto difese con controricorso il Ministero della Giustizia;
la ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1. il ricorso denuncia, con un unico articolato motivo, «violazione e falsa applicazione dell’art. 16 della legge 183/2010; omesso esame circa un punto decisivo; nullità della sentenza per omessa motivazione; violazione di legge per violazione dell’art. 2697 c.c.; violazione del principio del legittimo affidamento e certezza del diritto»;
la ricorrente richiama la sentenza della Corte Costituzionale per sostenere che il potere di rivalutazione dei rapporti di lavoro a tempo parziale concessi sulla base della sola domanda dell’interessato (in applicazione della normativa all’epoca vigente) n on è arbitrario, in quanto deve essere ancorato alla presenza di esigenze obiettive degli uffici, ed inoltre deve essere esercitato con modalità rispettose dei canoni generali di correttezza e buona fede;
sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il Ministero non aveva provato le richiamate esigenze, non essendo a tal fine sufficienti le comunicazioni valorizzate nella sentenza impugnata, tempestivamente contestate e smentite dagli altri atti di causa;
aggiunge che il rispetto delle regole generali di correttezza e buona fede non si esaurisce nella concessione di un periodo di preavviso, atteso che occorre tener conto anche delle esigenze personali del dipendente, che l’amministrazione non ha mai consentito di esporre, ed è altresì necessario
procedere ad un giudizio di comparazione fra gli opposti interessi delle parti del rapporto;
richiama la circolare adottata dal Ministero della Giustizia n. 1196/2010, con la quale era stato precisato che la revoca poteva essere disposta solo sulla base di ragioni organizzative analiticamente motivate e dopo aver analizzato la possibilità di soluzioni alternative, in modo da apprezzare anche le esigenze extra lavorative del dipendente;
aggiunge che analoghe direttive erano state emanate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in relazione all’applicazione dell’art. 16 della legge n. 183/2010 e da ciò desume l’erroneità della sentenza impugnata che ha ritenuto rilevanti unicamente le esigenze rappresentate dall’ufficio del Giudice di Pace di Forlì;
la ricorrente deduce, inoltre, che la Corte distrettuale non ha tenuto in alcun conto la documentazione acquisita già nel corso del procedimento d’urgenza, dalla quale risultava che l’ufficio giudiziario nel settore civile non aveva alcun ritardo, così come non ha valutato la circostanza decisiva ai fini di causa della prospettazione di soluzioni alternative che avrebbero consentito di garantire la piena funzionalità nel periodo estivo di tutti i servizi di competenza del Giudice di pace;
il ricorso non può trovare accoglimento;
in premessa va rilevato che sono inammissibili tutte le deduzioni inerenti al mancato rispetto delle circolari diramate dal Ministero della Giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sull’ interpretazione e sulle modalità di applicazione dell’art. 16 della legge n. 183/2010;
è consolidato, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui le circolari non contengono norme di diritto e sono riconducibili alla categoria degli atti unilaterali negoziali o amministrativi, sicché la loro violazione non può
costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della violazione di legge (cfr. fra le tante Cass. n. 16644/2015); infatti la prassi amministrativa, di cui le circolari medesime sono espressione, non costituisce una fonte di diritti e di obblighi e non pone alcun vincolo quanto all’interpretazione delle disposizioni di legge neanche per l’amministrazione alla quale la stessa è riferibile, potendo solo contribuire, come elemento fattuale concorrente con i dati linguistici del testo, ad orientarne l’esegesi, nei limiti consentiti dal dettato normativo (in tal senso Cass. n. 11768/2021 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);
2.1. parimenti inammissibile è il ricorso nella parte in cui, attraverso la deduzione solo formale del vizio di violazione dell’art. 2697 cod. civ., sollecita una valutazione di merito sulle risultanze processuali quanto alla sussistenza delle ragioni organizzative poste alla base del provvedimento di ripristino del rapporto di impiego a tempo pieno;
l’art. 2697 cod. civ. può assumere rilievo ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo;
diverso è il caso che si verifica allorquando il giudice, valutate le risultanze istruttorie, ritenga provata o non provata una determinata circostanza di fatto rilevante ai fini di causa perché in detta ipotesi la doglianza sulla valutazione espressa, in q uanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e, quindi, può essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione, nel testo applicabile ratione temporis e come interpretata dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, ha escluso ogni
rilevanza dell’omesso esame di documenti o di risultanze probatorie ove il ‘fatto storico’ (nella specie rappresentato dalle esigenze organizzative dell’amministrazione di appartenenza) sia stato comunque apprezzato e valutato dal giudice del merito;
2.2. non sussiste, poi, la denunciata nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione;
all’esito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, ex art. 360 n. 4 in relazione all’art. 132 n. 4 cod. proc. civ., è solo quella che si risolve in una violazione di legge costituzionalmente rilevante, ed attiene all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» ( Cass. S.U. n. 8053/2014); i l difetto del requisito di cui all’art. 132 cod. proc. civ. si configura, quindi, solo qualora la motivazione o manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione ovvero esista formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum;
esula, invece, dal vizio di violazione di legge la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti , implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito;
sulla base del richiamato orientamento, che va qui ribadito, è da escludere che la sentenza sia affetta dal vizio motivazionale denunciato, perché la Corte territoriale, seppure sinteticamente, ha dato conto delle ragioni della decisione, e l’iter argoment ativo, riassunto nello storico di lite, non presenta profili di intrinseca contraddittorietà;
2.3. parimenti non si ravvisa nella fattispecie la denunciata violazione dell’art. 16 della legge n. 183/2010;
in premessa va rammentato che l’art. 1, comma 58, della legge n. 662/1996 nel testo originario, prevedeva l’automatica trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale ed attribuiva al dipendente un diritto potestativo, perché la Pubblica Amministrazione, a fronte della domanda, poteva negare la trasformazione nei soli casi in cui emergesse un conflitto di interesse con l’altra attività lavorativa che il dipendente part time intendeva svolgere, mentre, qualora non venisse in alcun modo in riliev o l’obbligo di esclusività, le esigenze organizzative potevano giustificare il solo differimento della trasformazione medesima, che non poteva essere impedita ( La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa, può con provvedimento motivato differire la trasformazione del
rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo non superiore a sei mesi .);
successivamente il legislatore, con l’art. 73 del d.l. n. 122/2008, ha riformulato la disposizione ed ha escluso ogni automatismo della richiesta trasformazione, prevedendo che la stess a sia subordinata all’assenso de ll’amministrazione, che può negarla nei casi in cui il passaggio dal tempo pieno a quello parziale si risolva in un pregiudizio, anche non grave, per la funzionalità dell’attività amministrativa ( nel testo riformulato l’art. 1, comma 58, della citata legge n. 662/996, prevede che:« La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può essere concessa dall’amministrazione entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa .);
è alla luce del riformulato art. 1, comma 58, della legge n. 662/1996 che va letto ed interpretato l’art. 16 della legge n. 183/2010 secondo cui « 1. In sede di prima applicazione delle disposizioni introdotte dall’articolo 73 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei princìpi di correttezza e buona fede, possono sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di
concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati prima della data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008 . »; 2.4. il legislatore, quindi, ripensando l’atteggiamento di assoluto favore in passato espresso rispetto al lavoro a tempo parziale, ha inteso, in linea generale e per il futuro, valorizzare maggiormente le esigenze organizzative delle amministrazioni pubbliche ed ha anche consentito una deroga, sia pure momentanea, al principio della necessaria consensualità delle modifiche contrattuali inerenti all’orario di lavoro, permettendo alle pubbliche amministrazioni di rivedere i provvedimenti obbligatoriamente adottati nella vigenza della precedente normativa e di esprimere una valutazione, a suo tempo non permessa, sulla compatibilità del part time con le predette esigenze organizzative, in linea con la nuova disciplina della materia che prevede la prevalenza dei principi di efficienza e buon andamento degli uffici pubblici ( tutelati dall’art. 97 Cost.) rispetto alle ragioni personali del dipendent e interessato alla riduzione dell’orario; il legislatore, quindi, ha degradato la posizione giuridica del dipendente da diritto soggettivo potestativo a interesse legittimo di diritto privato, in relazione al quale valgono i medesimi principi che regolano l’esercizio dei poteri datoriali nelle situazioni in cui al datore è riconosciuta una discrezionalità della scelta da compiere;
non a caso l’art. 16 della legge n. 183/2010 richiama i canoni generali di correttezza e buona fede, canoni che, come hanno chiarito le Sezioni Unite di questa Corte, sono espressione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. ed impongono « a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di
quanto espressamente stabilito da singole norme di legge …» (Cass. S.U. n. 28056/2008);
i richiamati canoni realizzano, quindi, in sede di esecuzione del contratto un bilanciamento fra gli opposti interessi dei contraenti nel senso che, qualora ad una delle parti sia concesso un potere, le modalità di esercizio devono essere tali da preservar e anche l’interesse di chi quel potere subisce, di modo che il soddisfacimento dell’esigenza che il titolare del diritto persegue possa essere realizzato con il minor sacrificio possibile imposto alla controparte;
si tratta, quindi, di un bilanciamento che, in quanto tale, non può annullare il conferimento del potere né determinare una prevalenza dell’interesse che, invece, il legislatore ha ritenuto recessivo rispetto a quello della controparte contrattuale;
così inteso, il rispetto dell’obbligo di correttezza e buona fede va necessariamente misurato sulle singole fattispecie concrete, perché risente della natura del potere del quale si discute e dell’incidenza che lo stesso può avere nella sfera giuridica altrui;
2.5. venendo, quindi, al tema che qui specificamente interessa, è alla luce dei richiamati principi che va interpretato l’art. 16 della legge n. 183/2010, in relazione al quale sono stati esclusi dalla Corte di giustizia (CGUE 14.10.2014 in causa C – 221/13) e dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 224/2013) i denunciati profili di contrarietà con la direttiva 97/81/CE e con l’art. 117 Cost.;
questa Corte, richiamando le pronunce sopra citate, ha già osservato che ai sensi dell’art. 16 della legge n. 183/2010 il lavoratore non è assoggettato incondizionatamente alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro pubblico ai fini della trasformazione del rapporto da part time a full time perché l ‘iniziativa dell’amministrazione dev’essere sorretta da serie ragioni organizzative e gestionali ed attuata nel rispetto
dei principi di correttezza e buona fede (Cass. n. 1882/2023 e Cass. n. 3804/2019);
questi ultimi non possono essere intesi nei termini sollecitati dalla ricorrente, che finisce da un lato per prospettare, in contrasto con la chiara scelta legislativa, una subvalenza dell’interesse organizzativo della Pubblica Amministrazione rispetto a quello personale del dipendente interessato al part time, dall’altro per sollecitare una non consentita sostituzione del giudice al datore di lavoro nella valutazione delle esigenze stesse e delle modalità attraverso le quali le medesime possono essere assicurate;
la ricorrente, inoltre, nel richiamare i passaggi motivazionali della pronuncia della Corte Costituzionale (comunque non vincolante quanto all’interpretazione delle norme di legge riservata a questa Corte), ne offre una lettura parziale perché i riferimenti che si leggono nella sentenza sono fatti a ‘ titolo esemplificativo’ e prescindono del tutto dalla valutazione del caso concreto, in relazione al quale, come si è detto, deve essere misurato il rispetto dei principi di correttezza e buona fede;
la valutazione della singola vicenda è stata, invece, compiuta dalla Corte territoriale la quale, come si è evidenziato nello storico di lite, non discostandosi dai principi di diritto sopra enunciati, ha ritenuto provate le esigenze organizzative poste alla base del provvedimento di revoca ( carenza di organico derivata dal distacco di dipendenti presso altri uffici e dai pensionamenti, carenza non colmabile attraverso nuove assunzioni) ed ha anche evidenziato che non risultavano violati gli obblighi di correttezza e buona fede perché dette ragioni erano state tempestivamente rappresentate alla ricorrente, alla quale era stato concesso un congruo termine di preavviso, al fine di consentirle di riorganizzare la vita personale e familiare alla luce dei mutati obblighi lavorativi;
anche in relazione a detto ultimo profilo il ricorso, più che prospettare un errore interpretativo inerente al significato da attribuire alla clausola generale, finisce per sollecitare un diverso esito del giudizio riservato al giudice di merito al quale, come già chiarito dalla citata Cass. n. 18882/2023, compete l’accertamento del rispetto, nel singolo caso concreto, delle regole di correttezza e buona fede;
in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese del giudizio di cassazione, in ragione della complessità delle questioni giuridiche in rilievo, sulle quali le pronunce di questa Corte sono intervenute in epoca successiva alla notifica del ricorso;
4. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1bis , se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 9 novembre 2023
La Presidente
NOME COGNOME