Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24991 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24991 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 8427-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALESocietà con socio unico, soggetta all’attività di direzione e coordinamento di RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
DI NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 492/2021 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 23/09/2021 R.G.N. 40/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
08/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 8427/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 08/07/2025
CC
RILEVATO che
Con sentenza n. 492/2021, pubblicata il 23 settembre 2021, la Corte d’Appello di L’Aquila ha rigettato l’appello proposto da Trenitalia S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale di Pescara del 25 novembre 2020 con la quale era stato accolto il ricorso proposto da NOME COGNOME avente ad oggetto la dichiarazione di legittimità ed efficacia della revoca del 12 settembre 2019 delle dimissioni rassegnate il 5 settembre 2019 dal rapporto di lavoro con Trenitalia S.p.A., instaurato il 4 settembre 2019.
Il Tribunale aveva ritenuto efficace la revoca delle dimissioni e condannato RAGIONE_SOCIALE a riammettere in servizio NOME COGNOME rigettando la domanda relativa al pagamento delle retribuzioni maturate nel frattempo, poiché il rapporto doveva essere ripristinato nello stato iniziale, ovvero in pendenza del periodo di prova.
La Corte, condividendo l’ iter del giudice di primo grado, ha ritenuto che l’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 escluda espressamente la sua applicabilità solo per il lavoro domestico, le dimissioni in sedi protette e i rapporti con le pubbliche amministrazioni, senza menzionare il periodo di prova. Ha concluso, quindi, che il legislatore non ha inteso differenziare i rapporti in regime di libera recedibilità, e che i commi 7 e 8-bis debbano configurarsi quali eccezioni di stretta interpretazione.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso RAGIONE_SOCIALE affidandolo a due motivi.
Resiste, con controricorso, NOME COGNOME.
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione ex art. 360 n. 3 c.p.c. dell’art. 26 D. Lgs. n. 151/2015, nonché dell’art. 1 comma 6 della Legge n. 183/2014 in relazione all’art. 12 Disp. prel. c.c. con riguardo all’applicazione dell’art. 26 alle dimissioni rassegnate durante il periodo di prova.
Con il secondo motivo si censura la decisione impugnata allegandosi la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 2096 c.c. con riguardo all’ordine di ripristino del rapporto di lavoro, asserendosi la sussistenza del solo diritto al risarcimento del danno.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Sostiene parte ricorrente che l’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015 non sia applicabile alle dimissioni rassegnate durante il periodo di prova e che, di conseguenza, la revoca delle stesse non possa reputarsi efficace. La censura si fonda sulla ratio della norma, sulla Circolare del Ministero del Lavoro n. 12 del 2016 e sulla natura tassativa o meno delle eccezioni previste dalla norma medesima.
La questione centrale verte sull’interpretazione dell’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, che disciplina le dimissioni
telematiche e la facoltà di revoca entro sette giorni delle medesime.
La ratio della norma, come chiarito dai lavori preparatori, è quella di garantire l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore e di contrastare il fenomeno delle “dimissioni in bianco”.
Il comma 7 del mentovato art. 26 stabilisce che i commi da 1 a 4 non sono applicabili al lavoro domestico e nel caso in cui le dimissioni o la risoluzione consensuale intervengono nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 276 del 2003.
Il successivo comma 8 -bis prevede, invece, che le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Con particolare riguardo all’asserita esclusione del periodo di prova dall’ambito di applicazione dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 – fondato sulla Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 12 del 4 marzo 2016 va rilevato come la Corte d’Appello abbia ritenuto non applicabile alla specie tale Circolare, in quanto essa introduce un’ipotesi derogatoria non prevista dalla norma primaria, rivestita di carattere eccezionale e, pertanto, secondo il giudice di secondo grado, insuscettibile di applicazione oltre i limiti in essa considerati.
Ed effettivamente, deve ritenersi non corroborata dall’identità di ratio l’ipotesi di medesimo trattamento
(con estensione, quindi, analogica, degli artt. 7 e 8 bis al patto di prova) per il periodo di prova.
Va rilevato, al riguardo, come le circolari ministeriali costituiscano atti interni all’amministrazione, diretti ad uniformare l’azione degli organi amministrativi subalterni, ma non creino diritto e non possano limitare il cittadino o vincolare l’interpretazione giudiziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12 giugno 2012 n. 3457; Consiglio di Stato, sez. III, 26 ottobre 2016 n. 4478).
In particolare, afferma il giudice amministrativo che le circolari ministeriali costituiscono solo atti interni a un pubblico ufficio, diretti agli organi di tale ufficio e ai loro dipendenti. Esse vincolano solo i comportamenti degli organi operativi sottordinati dell’ufficio.
Sostanzialmente, quindi, esse si configurano quali direttive comportamentali impartite dal vertice dell’amministrazione che vincolano il personale, ma non creano certo un diritto, né possono limitare il cittadino. Correttamente, quindi, la Corte d’appello ha configurato la circolare ministeriale, interpretativa di una disposizione di legge, quale atto interno finalizzato a indirizzare uniformemente l’azione degli organi amministrativi, privo di effetti esterni.
3.2. Nel caso specifico, la circolare n. 12 del 4 marzo 2016 del Ministero del Lavoro si sarebbe spinta, invero, fino al punto di conferire alla norma contenuti diversi rispetto al suo dato testuale, andando oltre una mera attività interpretativa.
La Corte ha, quindi, ritenuto non applicabile al caso di specie la circolare ministeriale n. 12 del 4 marzo 2016, in
quanto introduttiva di un’ipotesi derogatoria alla norma primaria.
Ha inoltre rilevato che la ratio del patto di prova e quella dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 sono differenti e non interferiscono reciprocamente: la prima mira a tutelare l’interesse comune di verifica del contratto, la seconda a evitare abusi datoriali, specialmente in una posizione di debolezza del prestatore.
Ha, conseguentemente, ritenuto la piena validità ed efficacia della revoca delle dimissioni del 12 settembre 2019, avvenuta nel legittimo esercizio del potere unilaterale di revoca previsto dall’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015, integralmente applicabile alla fattispecie.
3.3. Le argomentazioni della Corte sono correttamente incentrate sull’esclusione espressa dell’applicabilità del disposto di cui ai commi considerati dell’art. 26 mentovato a determinate ipotesi fra le quali non può includersi, pena la lesione della stessa ratio della norma, il patto di prova nonché sulla condivisibile configurazione dei commi 7 e 8 bis del D. Lgs. n. 151/2015 quali eccezioni alla regola generale posta dai primi due commi della medesima disposizione, in particolare con riguardo alla revocabilità unilaterale entro sette giorni della dichiarazione di dimissioni dalla data di trasmissione del modulo telematico, al centro della vicenda in esame.
Il secondo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
La ricorrente contesta l’ordine di ripristino del rapporto di lavoro in prova, sostenendo che, in caso di invalidità o inefficacia delle dimissioni in periodo di prova,
spetterebbe al lavoratore solo il risarcimento del danno e non la reintegrazione.
Di recente, questa Corte ha affermato che, in base all’art. 26 d.lgs. n. 151 del 2015, il rapporto di lavoro subordinato può essere risolto per dimissioni o per accordo consensuale delle parti solamente previa adozione della forma scritta, con le modalità telematiche previste o presso le sedi assistite, a pena di inefficacia dell’atto (così Cass., sez. lav., 26.9.2023, n. 27331).
Nella motivazione di tale decisione si è considerato che l’art. 26 d.lgs. n. 151/2015 prevedeva (e prevede): ‘1. Al di fuori delle ipotesi di cui al D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 55, comma 4, e successive modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito (Omissis) e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalità individuate con il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di cui al comma 3’ (seguono numerosi diversi altri commi che regolano la facoltà di revoca delle dimissioni, le caratteristiche del modulo di dimissioni, le sanzioni penali in caso di alterazione del modulo, le sedi ‘protette’ ove dette modalità formali non sono applicate, l’esclusione del lavoro domestico).
4.2. E’ stato, perciò, ritenuto che la normativa (preceduta, nel tempo, da alcune previsioni di determinati contratti collettivi; cfr. sul punto Cass. n. 9554 del 2001, Cass. n.
5454 del 2011 e Cass. n. 29329 del 2022) che ha imposto, per le dimissioni, una determinata forma, non altera la natura dell’atto di dimissioni come negozio unilaterale recettizio, ma richiede ai fini dell’efficacia dell’atto – il rispetto di determinate forme (di natura telematica), salvo che le dimissioni (e la risoluzione consensuale) intervengano in sede assistita o avanti alla Commissione di certificazione. Tali procedure mirano a soddisfare, contestualmente, un duplice obiettivo: da un lato, conferire data certa alle dimissioni al fine di rendere impossibile il fenomeno delle dimissioni in bianco; dall’altro, fornire la garanzia che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro (espressa tramite le dimissioni o l’accordo consensuale) si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente dal lavoratore medesimo, in assenza di qualunque costrizione esercitata dal datore di lavoro (in questi termini, Cass. n. 28384 del 2024).
4.3. Quanto agli effetti della revoca, la Corte d’Appello ha correttamente statuito che, venuto meno l’effetto risolutorio delle dimissioni a seguito della loro valida revoca, il rapporto di lavoro dovesse riprendere la sua piena funzionalità.
La ratio dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015, volta ad arginare le “dimissioni in bianco”, è stata considerata, infatti, frustrata dalla Corte se alla tempestiva revoca delle dimissioni conseguisse comunque la risoluzione del rapporto, con un modesto risarcimento del danno.
A fronte di una revoca valida ed efficace, le dimissioni sono state considerate come mai avvenute.
Il rapporto di lavoro non si è mai interrotto e, di conseguenza, deve essere ripristinato nella sua interezza, inclusa la fase di prova, che, nel caso di specie, non aveva avuto un effettivo svolgimento a causa delle dimissioni tempestivamente revocate.
La libera recedibilità nel periodo di prova non esclude che l’esperimento debba svolgersi in tempi e modalità adeguate, nel rispetto della buona fede e che, quindi, le parti, ferma ed impregiudicata la validità ed efficacia della revoca delle dimissioni, avvenuta in data 12 settembre 2019, avessero nella specie la facoltà di valutare, al termine dell’esperimento della prova (ovvero, come osservato dalla Corte, quando lo stesso abbia avuto una sufficiente durata) la reciproca convenienza del contratto di lavoro. La Corte ha tratto da tale conclusione la corretta conferma del fatto che i due istituti si muovano su piani differenti, non interagenti fra loro.
4.4. L’ordine di ripristino del rapporto di lavoro in prova non pregiudica la facoltà delle parti di valutare la reciproca convenienza al termine dell’esperimento, una volta che esso abbia avuto una durata sufficiente. La giurisprudenza citata da parte ricorrente (Cass. n. 31159 del 2018 e Cass. n. 29208 del 2019) si riferisce ai casi di accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso datoriale durante il periodo di prova, in cui non trova applicazione la disciplina dei licenziamenti individuali, bensì lo speciale regime del recesso in prova.
Nel caso di specie, invece, si discute dell’efficacia di una revoca delle dimissioni da parte del lavoratore tempestivamente comunicata ai sensi di una norma speciale che rende la dichiarazione di dimissioni priva di effetti, ripristinando la situazione ex ante .
Non si configura, pertanto, una illegittimità del recesso che generi un diritto al risarcimento del danno, ma una revoca che elimina l’atto stesso delle dimissioni.
Non coglie nel segno l’argomentazione secondo cui il periodo di prova sarebbe già scaduto al momento dell’instaurazione del giudizio.
Il periodo di prova è, infatti, ancorato ad un arco temporale ed è destinato all’effettivo esperimento, talchè, se interrotto illegittimamente o inefficacemente, deve essere ripristinato, permettendo al lavoratore di completare tale periodo.
5.Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
PQM
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di
lite, che liquida in complessivi euro 5.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Cosi deciso nell’Adunanza camerale dell’8 luglio 2025.
La Presidente NOME COGNOME