Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32239 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32239 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 13/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12156/2023 R.G. proposto da :
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’ avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso il loro studio -ricorrente- contro
CAMERA DI RAGIONE_SOCIALE DI COSENZA, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv ocato COGNOME che lo rappresenta e difende, con cui domicilia PEC: EMAIL
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANZARO n. 1147/2022 depositata il 29/11/2022., RG n. 257/2020
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1147 del 2022 , ha accolto l’appello proposto dalla CCIA A di Cosenza nei confronti di NOME COGNOME avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Cosenza, e in riforma della medesima:
ha riconosciuto all’appellante il diritto alla restituzione dell’importo netto che l’appellato ha percepito a titolo di indennità di posizione per gli anni 2012 e 2013 in misura eccedente l’importo minimo inderogabile previsto dal CCNL applicato;
ha condannato l’appellato a pagare alla controparte l’importo differenziale netto che ha percepito, maggiorato di interessi legali dalla data della notifica del ricorso di primo grado al soddisfo. Ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta dall’ap pellato.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando sette motivi di ricorso.
Resiste la CCIAA con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La controversia origina, in sintesi, dalla seguente vicenda.
Il ricorrente ha stipulato con la CCIAA di Cosenza un contratto individuale di lavoro a termine, avente ad oggetto lo svolgimento ‘dal 11 ottobre 2011 al 10 ottobre 2016’ dell’incarico di Segretario generale.
Ha pattuito un compenso di 79.248,41 euro annui lordi a titolo di ‘retribuzione di posizione… per le attività connesse all’incarico di Segretario generale della Camera di commercio di Cosenza’, ‘in aggiunta alla retribuzione tabellare contrattuale prevista dal vigente CCNLArea dirigenza Enti locali’ e ai ‘compensi relativi all’attività di direzione delle Aziende speciali camerali, negli importi stabiliti dai rispettivi bilanci’.
Con determina dirigenziale n. 145 del 10 luglio 2013, l’ Ente prendeva atto della sopravvenuta risoluzione consensuale del predetto rapporto di lavoro, avvenuta il 7 giugno 2013, anche in esecuzione della delibera della Giunta camerale n. 31, emanata in pari data.
Successivamente, la CCIAA di Cosenza ha convenuto dinanzi al Tribunale di Cosenza il lavoratore, chiedendo la restituzione dell’importo di euro 114 .008,00, o di altro importo da determinarsi in corso di causa, che ha assunto avergli indebitamente erogato dal 1° gennaio 2012 al 7 giugno 2013 a titolo di retribuzione di posizione.
NOME COGNOME ha spiegato domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna della CCIAA al pagamento della somma complessiva di euro 117.871,75 a titolo di retribuzione di risultato non percepita per gli anni 2011, 2012 e 2013.
Il Tribunale ha rigettato la domanda della CCIAA e ha accolto la domanda riconvenzionale.
Tanto premesso, occorre ricapitolare il ragionamento decisorio della Corte d’Appello, che ha accolto l’appello della CCIAA e ha rigettato la domanda riconvenzionale.
Il giudice di secondo grado ha affermato:
nel pubblico impiego privatizzato il contratto che attribuisce al lavoratore un determinato trattamento economico non è sufficiente di per sé ad assicurargli una posizione giuridica soggettiva tutelabile ed a giustificare quel trattamento, che invece deve trovare
fondamento nella contrattazione collettiva, di talché il trattamento economico si stabilizza solo allorché la pattuizione individuale sia conforme alla volontà delle parti collettive;
n ella specie l’entità della retribuzione era stata stabilita tra le parti senza considerare: a) l’art. 37, c. 2, del CCNL del 1996 , che individua le Fonti destinate al finanziamento del ‘Fondo per la retribuzione di posizione’; b) l’art. 27, comma 2, del CCNL del 1999 , che impone di definire la retribuzione di posizione ‘nei limiti delle disponibilità delle risorse di cui all’art. 26′, ossia le risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione’, e quindi nei limiti d ell’apposito fondo; c) l’art.5, comma 3, del CCNL del 2010 che fissa i limiti minimi e massimi della retribuzione di posizione;
nella specie la mancanza di risorse destinate al finanziamento del Fondo per la retribuzione di posizione, non consentiva di fare applicazione dell’art. 27, comma 5 del CCNL ;
non potevano essere liquidate a bilancio, come accaduto nella specie, le indennità di posizione e di risultato del Segretario generale, dovendo le stesse essere imputate allo specifico Fondo, previsto dal CCNL;
il carattere a termine del contratto stipulato tra le parti non escludeva l’applicazione delle disposizioni del CCNL di Comparto, come peraltro affermato dalla giurisprudenza di legittimità con specifico riguardo ai dirigenti assunti dagli enti locali (art. 110 TUEL) con contratto a tempo determinato, anche perché richiamate nello stesso contratto individuale;
il lavoratore non aveva mai allegato e provato che la CCIAA avesse previamente definito gli obiettivi annuali cui condizionare l’erogazione della retribuzione di risultato, come richiesto dall’art. 29, comma 2, del CCNL del 1999;
– la retribuzione di risultato come quella di posizione avrebbe dovuto essere imputata allo specifico Fondo di cui all’art. 26 del CCNL, per come affermato nel successivo art. 28, c.1.
Può passarsi ad esaminare i motivi di ricorso. Le censure sono ampiamente illustrate, anche mediante il richiamo di orientamenti dell’ARAN, resi nell’attività di assistenza alle Pubbliche Amministrazioni, giurisprudenza di legittimità, e decisioni del giudice amministrativo in sede giurisdizionale e consultiva.
Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 1 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro -Area Dirigenza Enti Locali; dell’art. 37, comma 2 , del CCNL del 1996 (che individua le fonti destinate al finanziamento del ‘Fondo per la retribuzione di posizione’); dell’art. 26 e dell’art. 27 del CCNL del 23.12.1999; nonché dell’art. 2077 , cod. civ . e dell’art. 36 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.).
Erroneamente la Corte d’Appello ha affermato che il contratto individuale non costituiva titolo giustificativo idoneo ad escludere l’indebito per il trattamento di miglior favore, atteso che l’art. 2, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001 stabilisce, tra l’altr o, che l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. Il richiamo nel contratto individuale alle disposizioni del CCNL aveva solo funzione di garanzia, ex art. 2077, cod. civ.
La Corte d’Appello non aveva allegato l’inesistenza delle condizioni legittimanti le pattuizioni individuali di cui al citato art. 2, che ad avviso del ricorrente consistono nella specifica funzione apicale del Segretario generale, rivestita da un soggetto esterno alla Pubblica Amministrazione per un periodo limitato.
Al ricorrente, soggetto esterno in rapporto di lavoro a tempo determinato, tenuto conto dell’art. 1 del medesimo d.lgs., non poteva applicarsi il CCNL Area II Dirigenza Enti locali.
Erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto non legittima la corresponsione delle somme per la retribuzione di posizione imputate al bilancio camerale anziché al Fondo per la retribuzione di posizione della dirigenza.
Ciò in quanto non trovava applicazione l’art. 27 (che comunque al comma 6 confermava indirettamente la legittimità dell’agire) del CCNL, per essere il contratto stipulato con soggetto esterno e a tempo determinato, posto al di fuori della dotazione organica dirigenziale dell’Ente, all’esito di selezione, e per il carattere di struttura organizzativa complessa della CCIA. Argomenti potevano trarsi da nota ARAN e dalla delibera di Giunta n. 9 del 2013. Inoltre, mancava la prova dell’incapienza del Fondo, data per incontestata, e assumevano rilievo sia l’ art. 36 Cost. che la mancanza di riserva di ripetizione.
4.1. Il motivo non è fondato.
L ‘ art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, sancisce che «Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi (…) le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni (…)» .
La nomina del Segretario generale della Camera di commercio è disciplinata da ll’art. 20 della legge n. 580 del 1993 (nel testo applicabile ratione temporis , precedente alle modifiche e sostituzioni operate dal d.lgs. n. 219 del 2016). La fattispecie esula da quella disciplinata dall’art. 110 del TUEL e, quindi, non risulta pertinente, come si dirà in prosieguo, la giurisprudenza di legittimità in materia richiamata dalla Corte d’Appello.
4.2. Come già affermato da Cass. n. 34554 del 2021: «In sostanza, la funzione di Segretario generale non si inquadra nell’ambito di uno specifico ruolo dirigenziale dello Stato ma è oggetto di un incarico dirigenziale, che comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a termine con la Camera di Commercio interessata.
La natura a termine del rapporto di lavoro si desume dal principio generale di temporaneità degli incarichi dirigenziali fissato dal d.lgs. n. 29/1993, e trova conferma nell ‘ art. 20, comma 5, cit., che (…) prevede la facoltà del Segretario generale di rientrare nei ruoli dell’Amministrazione o dell’Ente di provenienza ‘ al momento della cessazione dalla carica ‘ . La temporaneità della funzione di Segretario generale ed il suo conferimento quale incarico dirigenziale è stata meglio chiarita nel testo vigente dell’art. 20, dei commi 2 e 3 (come sostituito dal d.lgs. n. 219/2016, art.1, comma 1)».
4.3. Dunque, il rapporto che lega il Segretario generale alla CCIAA è necessariamente ad tempus e può essere instaurato sia con dirigenti camerali o di altre Amministrazioni, sia con esterni (ma resta comunque autonomo e distinto rispetto a quello eventualmente a tempo indeterminato con la stessa o con altre Camere di commercio o con altri Enti), sicché non è pertinente la distinzione fra dirigenti assunti a tempo determinato e dirigenti il cui incarico, a termine, si innesta su un rapporto a tempo indeterminato, che in nessun caso è configurabile con il Segretario generale.
È pertanto infondato il motivo di ricorso nella parte in cui assume che nella fattispecie non sarebbe applicabile la contrattazione per i dirigenti degli Enti locali perché, al contrario, lo stesso art. 27 del CCNL 23 dicembre 1999, espressamente prevede, al comma 7: «Ai Segretari Generali, anche di provenienza ministeriale, le Camere di Commercio applicano gli istituti economici di cui agli artt. 26 e 27 (…)» .
Né a diverse considerazioni può giungersi in ragione dell’ art. 2, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001, come prospetta il ricorrente, atteso che tale disposizione, nel dare rilievo ai contratti individuali, alle condizioni previste, va coordinato con l’ art. 45, del medesimo d.lgs., che al comma 1 stabilisce: «Il trattamento economico fondamentale ed accessorio (…) è definito dai contratti collettivi», e
pertanto l’intervento della contrattazione individuale trova un limite nelle condizioni previste dalla contrattazione collettiva.
L’art. 45, cit. è norma imperativa, e questa Corte ha già affermato che nell’impiego pubblico contrattualizzato, in relazione al quale vige il principio secondo cui la disciplina del trattamento economico è rimessa alla contrattazione collettiva, i vincoli posti da quest’ultima al datore d i lavoro sono finalizzati ad assicurare il rispetto dell’art. 97, Cost., ed il perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa di cui all’art. 2, comma 1, lett. a ), del d.lgs. n. 165 del 2001 (Cass., n. 22818 del 2023).
4.4. Le ulteriori censure non sono fondate, in ragione dei principi già affermati da questa Corte (Cass., n. 28966 del 2023, la cui motivazione si richiama ai sensi dell’art. 118, disp. att., cod. proc. civ.), nell’esaminare analoga fattispecie in relazione alla quale erano state poste le medesime questioni.
Il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e la restituzione, per la particolare natura del rapporto, nell’impiego pubblico, fra contratto collettivo ed individuale, non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore medesimo.
Occorre, infatti, considerare che nel pubblico impiego privatizzato, le decisioni datoriali che incidano sul costo del personale e comportino spese a carico della Pubblica Amministrazione devono essere assunte in presenza della necessaria copertura finanziaria e di spesa, in mancanza della quale gli atti e le procedure eventualmente svolte sono prive di effetti e non consentono il sorgere di diritti delle parti, a ciò facendo eccezione soltanto i casi riportabili alla fattispecie di cui all’art. 2126 , cod. civ. (Cass., n. 15364 del 2023), e quindi caratterizzati dallo svolgimento di fatto di prestazioni di lavoro subordinato chieste e ricevute dal datore di lavoro pubblico pur in violazione di norme di legge o di contrattazione collettiva.
Tale evenienza non si ravvisa nella specie atteso che la prestazione lavorativa è stata retribuita, e si controverte del corretto parametro della retribuzione come pattuita tra le parti con il contratto individuale, rispetto alla previsione della contrattazione collettiva, di talché la censura che introduce il diritto alla retribuzione ex art. 2126, cod. civ., non è pertinente.
5. Secondo motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione dell’art. 115, cod. proc. civ., sulla disponibilità delle prove e dell’art. 2697 , cod. civ., per non aver e la Corte d’Appello ripartito correttamente l’onere della prova , con riguardo a ll’Ente dator e di lavoro (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.).
Mancato rilievo dell’inadempimento dell’onere probatorio gravante sulla CCIAA, che aveva prodotto solo la relazione SIFIP, notificata alla CCIAA nel 2012, dopo la conclusione del contratto a termine, e i pareri del MEF e del MISE, quest’ultimo relativo a posizione di altro lavoratore e che comunque non escludeva una transitoria imputazione a bilancio, in presenza di circostanze eccezionali.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente non ha ottemperato agli oneri di specificità di cui all’art. 366, cod. proc. civ., quanto agli atti processuali, e nel resto deve rilevarsi che sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, censura l’accertamento di fatto che è stato svolto dal giudice del merito ed è illustrato con adeguata motivazione.
6. Terzo motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione dell’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.) e della clausola 4 di cui alla Direttiva 28 giugno 1999/70/CE (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), per aver travisato la ratio ispiratrice volta al divieto di trattamento differenziato del lavoratore a termine, manifestamente riferibile a questioni estranee al thema decidendum (trattamenti discriminatori o comunque in peius rispetto agli omologhi trattamenti
fruiti dal Dirigente a tempo indeterminato) e non al trattamento economico riguardante l’odierna fattispecie litigiosa.
Erroneità del richiamo della giurisprudenza di legittimità in materia di rapporti di lavoro dei dirigenti assunti a termine dagli Enti locali, atteso che rispetto alle CCIAA non trova applicazione il TUEL, come si evince dall’art. 2, e dunque l’art. 110 che tuttavia consente differenziazioni. Né l’Accordo quadro alla Direttiva 1999/70 CEE può rilevare atteso che la stessa mira a evitare atti discriminatori ma non ad impedire un trattamento di miglior favore.
6.1. Il motivo, seppure fondato quanto alla inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 110 T .U.E.L e del principio di non discriminazione, non giustifica la cassazione della sentenza impugnata, sicché questa Corte, a fronte del dispositivo conforme a diritto, può limitarsi a correggere la motivazione ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ.
Tale disposizione prevede che qualora il vizio denunziato riguardi non un punto di fatto ma una questione di diritto, il giudice di legittimità ha il potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, senza cassarla, nel caso in cui la decisione adottata dal giudice di merito sia conforme a diritto, sostituendo la motivazione erronea con altra corretta, che conduca all’identico dispositivo della sentenza censurata, purché la sostituzione della motivazione sia soltanto in diritto e non comporti indagini e valutazioni di fatto (com’è nel caso in esame), né violazione del principio dispositivo, nel senso che non dovrà esservi pronunzia su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili di ufficio (v., ex aliis , Cass., n. 20806 del 2017).
Tanto premesso, si osserva quanto segue. Nell ‘ impiego pubblico contrattualizzato (v. citata Cass. n. 28966 del 2023), ove difettino specifiche disposizioni derogatorie della regola generale, deve essere escluso in radice il potere unilaterale del datore di lavoro di discostarsi, nella disciplina del singolo rapporto di impiego,
dall’assetto definito in sede di contrattazione collettiva, perché il superamento dello statuto pubblicistico è stato realizzato dal legislatore ordinario attraverso un «equilibrato dosaggio di fonti regolatrici» (Corte Cost. n. 309/1997) che si incentra sul ruolo centrale della contrattazione collettiva, a sua volta oggetto di una specifica disciplina finalizzata a garantire l’attuazione dei principi costituzionali di cui all’art. 97, Cost., di modo che «l’osservanza, da parte delle amministrazioni, degli obblighi assunti con i contratti collettivi rappresenta il conseguente e non irragionevole esito dell’intera procedura di contrattazione, la quale prende le mosse dalla determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che interessa a sua volta molteplici profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità finanziaria» (Corte Cost., n. 309 del 1997).
Si è quindi consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento, al quale si intende dare continuità, secondo cui l ‘ adozione da parte della P.A. di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, con il quale venga attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, giacché la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla volontà delle parti collettive.
La Corte d’Appello, nell’accogliere l’impugnazione della CCIAA, ha correttamente applicato i suddetti principi; va, altresì, considerato che appostare gli incentivi in questione sul bilancio camerale, anziché sul Fondo relativo, determina, nella sostanza, una elusione della contrattazione collettiva integrativa, che è sottoposta al controllo preventivo della Corte dei conti.
7. Quarto motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 2033, 2041 e 2126, cod. civ . (che esclude la ripetizione dell’indebito anche da parte della P.A. se riferita ad una prestazione di natura retributiva), e dell’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), per non aver considerato, come recentemente delineato prima dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e poi dalla Corte Costituzionale mediante la sentenza n. 8 del 2023, l’ing erenza sproporzionata nel diritto del prestatore di lavoro al rispetto dei suoi beni, limitandosi a disporre la ripetizione delle retribuzioni indebitamente erogate, senza tener conto del tipo di relazione tra il soggetto che eroga l’importo e chi lo perce pisce; la natura retributiva delle prestazioni corrisposte; il carattere ordinario dell’attribuzione patrimoniale; il suo perdurare nel tempo, tale da ingenerare il legittimo affidamento del dipendente percipiente.
La Corte d’Appello avrebbe fatto erronea applicazione dell’art. 21 26, cod. civ., con riguardo alle prestazioni economiche di carattere retributivo, che esclude la ripetizione dell’indebito anche da parte della Pubblica Amministrazione per l’utilizzo delle maggiori capacità professionali, e nella specie, in quanto correlate in chiave sinallagmatica di causalità diretta, all’attività lavorativa di vertice in concreto prestata dal dipendente. Nell’applicare l’art. 2033 , cod. civ., avrebbe omesso di considera re, alla luce dell’interpretazione della CEDU e della citata sentenza Corte cost. n. 8 del 2023, il legittimo affidamento e gli elementi che in proposito possono rilevare come indicati nel ricorso, e la buona fede (artt. 1175 e 1337, cod. civ.) del lavoratore, che possono portare ad escludere la ripetizione, o ad adottare rimedi a tutela del legittimo affidamento (rateizzazione, considerazione delle condizioni personali del debitore).
7.1. Il motivo di ricorso non è fondato.
Questa Corte, in analoga fattispecie (citata Cass., n. 28966 del 2023), in ragione della sentenza del Giudice delle Leggi n. 8 del 2023, e della giurisprudenza della CEDU, ha indicato gli elementi costitutivi dell’affidamento legittimo: l’erogazione di una prestazione a seguito di una domanda presentata dal beneficiario che agisca in buona fede o su spontanea iniziativa delle autorità; la provenienza dell’attribuzione da parte di un ente p ubblico, sulla base di una decisione adottata all’esito di un pr ocedimento, fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione sia percepita dal beneficiario come fonte della prestazione, individuabile anche nel suo importo; la mancanza di una attribuzione manifestamente priva di titolo o basata su semplici errori materiali; un’erogazione effettuata in relazione a una attività lavorativa ordinaria e non a una prestazione isolata o occasionale, per un periodo sufficientemente lungo da far nascere la ragionevole convinzione circa il carattere stabile e definitivo della medesima; la mancata previsione di una clausola di riserva di ripetizione.
Tali condizioni non sono ravvisabili nella specie, atteso il contrasto dell’erogazione retributiva con la contrattazione collettiva e le disposizioni normative su cui la stessa si fonda.
Inoltre, con riguardo al grado d ell’ affidamento, deve tenersi conto del ruolo che il dipendente ricopre nell’organizzazione dell’ Ente, sicché nella specie non si può prescindere dal rilievo che il Segretario generale è il dirigente apicale, al quale non è consentito ignorare le regole di diritto che disciplinano l’organizzazione dell’ Ente ed il suo funzionamento. Di talché , sussiste l’indebito retribu tivo come ha statuito la Corte d’Appello e non opera il principio del legittimo affidamento.
Con riguardo all’ art. 2126, cod. civ., oltre a quanto già sopra affermato, va considerato che tale disposizione riferita a una prestazione di natura retributiva … costituisce un presidio contro
pretese restitutorie avanzate dal datore di lavoro, compresa la Pubblica A mministrazione, ma a condizione che l’indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita.
Per converso, la norma non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare -dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale -«il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass., n. 36358 del 2021 e n. 28966 del 2023).
Occorre in proposito ricordare che il d.lgs. n. 165 del 2001 prevede, all’art. 24, che la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale è esattamente determinata dai contratti collettivi per le Aree dirigenziali, e che il trattamento economico, così stabilito, remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal medesimo decreto; il trattamento economico, in definitiva, è quello (e solo quello) stabilito dalla contrattazione collettiva, ivi compreso il trattamento accessorio spettante in caso di conferimento temporaneo di mansioni diverse (Cass., n. 6021 del 2023), che per essere erogato richiede l’integrale rispetto delle condizioni e delle procedure imposte dalle parti collettive.
Non risulta, pertanto, violato l’art. 2126, cod. civ. perché la retribuzione di posizione è stata dunque assicurata seppure ridotta nel limite minimo previsto dalla contrattazione.
L ‘applicazione dell’articolo 2126 , cod. civ., non può portare a riconoscere le somme previste nell’atto dispositivo datoriale affetto da nullità in quanto il ripristino della legalità richiede che venga applicata la disciplina contrattuale collettiva violata.
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e ha statuito che è vero che l’art. 27, comma 5, del CCNL 1999, la
cui operatività è fatta salva dall’art. 5, comma 3, del CCNL 2001, consente di superare il limite massimo della retribuzione di posizione degli Enti che abbiano struttura organizzativa complessa, ma tanto, solo a condizione che quegli Enti dispongano delle relative risorse, ossia delle risorse destinate a finanziare l’apposito Fondo .
Con apprezzamento di fatto, il giudice di appello, nella specie, ha accertato l’assenza di siffatta co ndizione, non potendo a ciò supplire l’imputazione al bilancio camerale per le ragioni illustrate nella trattazione dei motivi che precedono.
Quinto motivo di ricorso: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.) in relazione alla circostanza che la CCIAA di Cosenza era dotata di una struttura organizzativa complessa, ed aveva la disponibilità delle relative risorse al relativo Fondo.
Ad avviso del ricorrente, sarebbe stato omesso l’esame della circostanza, ritenuta dal Tribunale, che la CCIAA era un ente dotato di struttura organizzativa complessa, che giustificava la deroga al tetto economico stabilito dal contratto collettivo, come trovava riscontro nella documentazione in atti, ed inoltre la Corte territoriale avrebbe affermato in modo ellittico l’assenza delle risorse.
Sesto motivo di ricorso: ulteriore omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.) relativamente alla legittimità della retribuzione di risultato degli anni 2011 – 2012 e 2013 anche con riferimento ai conteggi depositati. Omesso esame circa la valutazione di performance ed in merito al raggiungimento degli obiettivi risultane dagli atti depositati in giudizio.
Vi sarebbe omesso esame delle valutazioni positive dell’operato del dirigente e del raggiungimento degli obiettivi.
9.1. Il quinto e il sesto motivo devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili.
È applicabile alla fattispecie l’art. 360 n. 5, cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge.
Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, ‘in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, non ravvisabili nella specie, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione’, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato
conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.
Va anche rilevato che l’ ‘omesso esame’ va riferito ad ‘un fatto decisivo per il giudizio’ ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a ‘questioni’ o ‘argomentazioni’ che, pert anto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (si v., ex multis , Cass., n. 2268 del 2022).
Rimangono, pertanto, estranee al vizio previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., le censure che, come quelle articolate dal ricorrente, nella sostanza sono volte a criticare il ‘convincimento’ che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2°, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova.
La deduzione del vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. , non consente, quindi, di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
I motivi, dunque, sono inammissibili poiché con gli stessi si chiede una revisione del procedimento decisorio svolto in sede di merito, sia nella selezione degli elementi probatori rilevanti e sia nell’apprezzamento degli stessi, ma una simile sollecitazione non è riconducibile al vizio dedotto e neppure all’ambito del giu dizio di legittimità.
10. Settimo motivo di ricorso: in via gradata, violazione e falsa applicazione dell’art. 24, comma 1 bis , d.lgs. 165 del 2001; degli art. 4, comma 2, del CCNL del 14 maggio 2007 e dell’art. 5, comma 2 e 3, del CCNL 3 agosto 2010, nonché dell’art. 36 Cost. , circa la valorizzazione al minimo della retribuzione di posizione al fine di
quantificare l’importo netto oggetto di ripetizione (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.).
Erroneamente, la Corte d’Appello ha affermato che al lavoratore spettava solo il minimo retributivo, atteso che trovava applicazione solo il CCNL, ma in tal caso si sarebbe dovuto applicare il livello retributivo massimo, considerato il ruolo di Segretario generale, ai sensi dell’art. 36 , Cost.
La restituzione avrebbe dovuto riguardare il differenziale rispetto all’importo massimo previsto dalla Contrattazione collettiva.
11. Il motivo non è fondato.
Ed infatti, ritenuta per le ragioni sopra esposte la nullità dell’atto dispositivo, l’applicazione dell’art. 2126 , cod. civ., opera limitatamente al minimo contrattuale perché diversamente opinando si finirebbe per legittimare, per altra via, la violazione della disciplina contrattuale che subordina comunque l’aumento del trattamento accessorio al rispetto delle procedure contrattuali previste per la costituzione dei fondi nonché alle disponibilità finanziarie (v. Cass., n. 11645 del 2021, Cass., n. 14781, n. 14765 del 2024).
Inoltre, con riguardo alla retribuzione di risultato la Corte d’Appello da un lato ha rilevato, in modo specifico, l’inidoneità della documentazione allegata dal lavoratore, dall’altro la mancata predeterminazione da parte dell’Ente degli obiettivi annuali cui condizionare l’erogazi one della retribuzione di risultato, e tali statuizioni non sono adeguatamente censurate.
Va comunque considerato (si v. Cass., n. 17317 del 2024) che l’art. 36 Cost. attiene solo al trattamento fondamentale e agli importi minimi di retribuzione di posizione, non anche alle maggiorazioni ed alla retribuzione di risultato, che in tanto possono essere riconosciute in quanto siano state rispettate le procedure previste dalla contrattazione collettiva (v., ex multis , Cass. n. 11645 del 2021).
12. Il ricorso deve essere rigettato.
13. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 6.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo uni ficato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale dell’ 8 novembre