Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8134 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8134 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
c.c., la cui tematica non era stata minimamente discussa nei gradi di merito, sottolineando come la posizione economica D6 secondo il sistema di classificazione vigente nel comparto avrebbe potuto essere attribuita solo previo espletamento di procedura di selezione, sicché quanto in tal modo erogato in eccedenza rispetto alla retribuzione iniziale , così come l’ulteriore aggiunta di un assegno ad personam , non era dovuto;
il secondo motivo è formulato sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. e denuncia la violazione ed omesso esame degli artt. 2, co. 3, 40 e 45 del d. lgs. n. 165 del 2001, degli artt. 13, 17, 30 e 35 e relativi allegati del CCNL del 1999 di comparto, dell’art. 4 dell’Accordo Quadro Nazionale del 1999 sul t.f.r. dei dipendenti pubblici, dell’art. 1, co. 8, del DPCM 20.12.1999, nonché degli artt. 2120 e 2697 c.c. e degli artt. 115, co. 1 e 416, co. 3, c.p.c.
con il motivo si evidenza come il t.f.r. sia stato riconosciuto in giudizio sulla base di una misura delle retribuzioni non dovuta come tale, in quanto superiore al livello iniziale di inquadramento nella categoria D;
il terzo motivo assume la violazione degli artt. 2, co. 3, 40 e 45 del d. lgs. n. 165 del 2001, del CCNL 1999 del comparto sanità, nonché degli artt. 1418, 2033 e 2697 c.c. e degli artt. 115, co. 1, 414 n. 4 e 416, co. 3, c.p.c., richiamando i vizi di cui all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.;
la censura richiama le medesime argomentazioni del primo motivo, ma con riferimento al rapporto instaurato tra le parti nel 2004, sottolineando come fosse stato evidenziato che gli importi dovuti secondo il CCNL per un neoassunto di categoria D fossero inferiori a quelli percepiti dal ricorrente e dunque la loro erogazione era da ritenere in parte qua indebita;
2.
data la loro connessione, i motivi vanno esaminati congiuntamente, secondo l’ordine logico e cronologico delle questioni;
3.
su domanda del lavoratore è stato accertato in causa -e non più messo in discussione dai motivi – che il primo rapporto, intercorso tra il 2004 ed il 2009, pur stipulato facendo riferimento ad una collaborazione ed in una logica di lavoro autonomo, si fosse svolto con modalità di lavoro subordinato;
ciò secondo la giurisprudenza costante di questa S.C. comporta l’applicazione delle tutele proprie del lavoro subordinato, per effetto del disposto dell’art. 2126 c.c. (Cass. 18 aprile 2018, n. 9591; Cass. 8 febbraio 2017, n. 3384);
impostazione del tutto analoga vale per il secondo rapporto esistente tra le parti, rispetto al quale la Corte territoriale, pur a fronte della nullità per stipula senza previo concorso, ha ritenuto che le retribuzioni fossero dovute ed anche in tal caso non si può che riportare la fattispecie appunto a quella dell’art. 2126 c.c., ricorrendo l’ipotesi del contratto di lavoro nullo, ma seguito dall’esecuzione di fatto delle prestazioni;
la Corte territoriale, per entrambi i rapporti, ha ritenuto che la particolarità del rapporto « non riconducibile, per la natura dei compiti assegnati e per le modalità di espletamento degli stessi, ad un tipico rapporto di lavoro a tempo determinato previsto dal CCNL comparto sanità » (punto 7.1, pagina 14 e analogamente punto 4.1, pag. 10 della sentenza) giustificasse il riconoscimento di emolumenti non in linea con i disposti della contrattazione collettiva;
il ragionamento è giuridicamente errato, in quanto la P.A. non ha alcuna possibilità di stipulare contratti di lavoro pubblico privatizzato con modalità ‘atipiche’ o ‘particolari’, in ragione delle mansioni da svolgere, retribuendoli senza osservanza piena delle regole di cui alla contrattazione collettiva;
ciò deriva dal disposto dell’art. 45, co. 1, del d. lgs. n. 165 del 2001 che, operando a cerniera tra il disposto dell’art. 2, co. 3 (secondo cui i trattamenti economici sono attribuiti « esclusivamente mediante contratti collettivi … o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali ») e dell’art. 45, co. 2 del medesimo d. lgs. (secondo cui i trattamenti per i singoli devono essere « non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi »), fissa la regola per cui il trattamento economico « è definito dai contratti collettivi »;
tale trattamento scaturisce dalla combinazione delle regole della contrattazione collettiva sulla misura della retribuzione con quelle sull’inquadramento del personale e non possono essere attribuiti trattamenti economici non previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, nemmeno se di miglior favore (Cass. 2 dicembre 2019, n. 31387);
analogamente, non possono esservi inquadramenti che non siano riportabili a quelli di cui alla contrattazione collettiva, potendosi solo adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle diverse esigenze organizzative, senza
modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato (Cass. 2 dicembre 2019 n. 31387);
la conseguenza è che non risulta configurabile un diritto quesito del dipendente a continuare a percepire un trattamento economico che non trova titolo nel contratto collettivo, nemmeno se di miglior favore, sicché, a differenza di quanto accade nel lavoro privato, resta del tutto irrilevante ad escludere l’indebito che la corresponsione da parte del datore pubblico sia avvenuta consapevolmente e volontariamente (Cass. 9 maggio 2022, n. 14672);
3.2
su tali principi va calibrata anche la tutela ai sensi dell’art. 2126 c.c., non potendosi certamente ritenere che da un rapporto giuridicamente invalido possano scaturire, per lo svolgimento di fatto delle prestazioni, effetti diversi o migliori di quelli che deriverebbero da un rapporto validamente instaurato;
4.
in base a tali premesse, è agevole osservare che l’art. 30 del CCNL di comparto del 7 aprile 1999, cui risale la regolazione del caso di specie, prevede che ai dipendenti sia attribuito un « trattamento economico iniziale » e che « lo sviluppo economico si realizza mediante la previsione – dopo il trattamento economico iniziale – di altre quattro fasce retributive »;
il successivo art. 35 stabilisce a propria volta i criteri per la progressione economica orizzontale e quindi per il passaggio tra le diverse fasce retributive, da attuare sulla base di selezioni ivi regolate;
4.1
è pertanto errato quanto ritenuto dalla Corte territoriale ovverosia che, a giustificare i trattamenti praticati nel corso del primo
rapporto potessero stare le ‘particolarità’ delle mansioni, perché quanto dovuto, stante l’accertata natura subordinata, non poteva essere superiore a quanto previsto per la prima fascia iniziale;
4.2 tra l’altro nella pacifica assenza di selezioni cui solo quella fascia e non certo l’assai superiore fascia D6 poteva essere attribuita rispetto al
non diversamente -il ricorrente abbia mai partecipato -secondo rapporto;
4.3
ciò comporta l’accoglimento anche del motivo con riferimento al t.f.r.;
va intanto premesso che l’assenza di contestazione sui conteggi non vale a legittimare la percezione di quanto in essi indicato, se la questione non riguardi meri profili contabili, ma proprio la spettanza del diritto in una certa misura secondo la disciplina sostanziale che ne regola l’attribuzione (Cass., S.U., 31 gennaio 2002, n. 761);
ciò posto, non vale nel pubblico impiego il principio, proprio del lavoro privato, per cui in caso di riconoscimento della natura subordinata di rapporto formalizzato in forme autonome, le competenze di fine rapporto si sottraggono al principio dell’assorbimento (Cass. 3 gennaio 2017, n. 46) e che riposa sull’assunto per cui, in quel diverso ambito, non è vietata la corresponsione al lavoratore di importi superiori a quelli previsti dal corrispondente CCNL, sicché il t.f.r., va poi calcolato in ragione di quanto corrisposto e non di quanto stabilito a titolo retributivo dalla contrattazione collettiva;
viceversa, anche il t.f.r., nel rapporto di pubblico impiego può essere riconosciuto solo nella misura che deriva dalle retribuzioni dovute -anche ex art. 2126 c.c. -in ragione della piena e corretta applicazione delle previsioni della contrattazione collettiva;
ciò proprio per l’impossibilità su cui si è già detto – di attribuire le retribuzioni in misura diversa, il che riverbera i propri effetti sulla determinazione del t.f.r. alla cui base sta appunto l’importo delle retribuzioni di tempo in tempo dovute;
5.
quanto sopra detto rende evidente l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dei motivi di ricorso per cassazione contenuta nel controricorso;
intanto, in relazione al primo e terzo motivo, è sterile il rilievo del controricorrente secondo cui la disamina sarebbe preclusa dal fatto che le censure si risolverebbero in una mera e non consentita revisione del ragionamento svolto dalla Corte d’Appello di Perugia; tale revisione è invece del tutto consentita, concernendo quei motivi ben precise questioni di diritto, sopra illustrate e disaminate, che sono il proprium del giudizio di cassazione;
non è poi vero che i menzionati motivi, e poi quello riguardante il t.f.r. fossero privi dell’indicazione delle ragioni in base alle quali vi sarebbe stata violazione delle disposizioni di legge e della contrattazione collettiva, in quanto il riepilogo del contenuto delle censure -sopra svolto e cui si rinvia -rende evidente l’impianto giuridico, sul piano del diritto sostanziale violato, dell’impugnazione;
6.
in definitiva il ricorso va integralmente accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, affinché applichi, nel determinare il dareavere avere tra le parti -fermo il riconoscimento del t.f.r. e dei diritti conseguenti all’omissione contributiva rispetto al primo rapporto, effettivamente in sé non più oggetto del contendere nell’ an , come rilevato nel controricorso – i principi sopra delineati, previo ogni accertamento del caso che risulti ad essi consequenziale;
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 5.3.2025.