Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31989 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31989 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
Con ricorso al Tribunale di Avellino NOME COGNOME dirigente medico in servizio presso la ASL di Avellino, ha adito il Tribunale di Avellino e ha chiesto l’accertamento dell’erroneo sistema di calcolo del cd. debito orario giornaliero adottato dall’ASL in occasione delle assenze per ferie, festività, permessi e altre assenze similari.
In particolare, il dirigente ha esposto che nei giorni di assenza, contrariamente a quanto accadeva per i giorni di presenza in servizio, il turno di lavoro (la cui durata era quantificata in 6 ore e 20 minuti al dì, per un totale di 38 ore settimanali) era stato calcolato dalla ASL nella più ridotta misura di sole 6 ore giornaliere, e che si era pertanto determinata una perdita netta di 20 minuti con un maggiore debito orario da cui era derivato il conseguente onere di svolgimento di lavoro ‘supplementare’ per il recupero dello stesso fino alle 38 ore settimanali, con il conseguente diritto a pretenderne la relativa remunerazione.
Il dirigente ha pertanto chiesto l’accertamento dell’illegittimità del sistema di calcolo adoperato dall’ASL e la condanna della stessa al pagamento delle relative differenze retributive.
Il Tribunale, ritenendo che il debito orario giornaliero dovesse essere quantificato, anche nei giorni di assenza, nella misura di 6 ore e 20 minuti, ha parzialmente accolto il ricorso e, per l’effetto, ha condannato la RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle dif ferenze retributive nella misura richiesta di €. 2.902,32 in relazione al periodo dal 1.7.2015 al 30.9.2017.
La Corte territoriale, pur convenendo che non potesse invocarsi il concetto di ‘lavoro straordinario’ in quanto escluso dall’art. 65 del CCNL 5.12.1996 per l’area dirigenza medica, ha rigettato l’appello della ASL di Avellino sul
presupposto che, nella fattispecie, si versasse nella diversa ipotesi in cui il dirigente, non vedendosi computate correttamente le ore lavorative nei giorni di legittima assenza, finiva con l’avere un debito orario inesistente che l o costringeva a rendere una prestazione eccedente rispetto a quella (38 ore settimanali) che avrebbe espletato qualora non si fosse assentato per ferie, festività, permessi o altro.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, illustrato da memoria.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
DIRITTO
1.Con l’unico motivo, il ricorso denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 24 e 27 d.lgs. n. 165/2001 e al l’art. 14 del c.c.n.l. dell’Area dirigenza medica del 3.11.2005; contraddittorietà della motivazione in ordine alla qualificazione del titolo di condanna.
Deduce che nella vigenza del principio di onnicomprensività della retribuzione, al dirigente medico non può essere in ogni caso concessa alcuna remunerazione di orario eccedente quello contrattualmente previsto anche se, come nella specie, derivante da un errone o calcolo del ‘debito orario’ giornaliero.
La Corte territoriale era incorsa in errore perché, da un lato, aveva correttamente ritenuto non potesse venire in considerazione il concetto di lavoro straordinario ma, dall’altro, in contraddizione rispetto alle premesse, aveva rilevato che il lavoro eccedentario (rispetto alle 38 ore settimanali), svolto a causa dell’erroneo computo delle ore di assenza, dovesse essere comunque remunerato, ciò in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione.
L ‘eccezione di inammissibilità in relazione alla violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., è infondata.
Infatti il principio di specificità del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’oggetto della controversia e il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa COGNOME ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Cass. n. 8117/2022); il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. consiste in un’esposizione che deve garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione non solo del fatto sostanziale che ha originato la controversia, ma anche del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la sentenza impugnata (Cass., Sez. U. 28 novembre 2018, n. 30754, che richiama Cass. n. 21396/2018).
Ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una sintesi funzionale alla piena valutazione dei motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la testuale riproduzione dei quali in tutto o in parte è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (Cass. n.24340/2018).
Inoltre il ricorso deve essere redatto con modalità che consentano di delimitare il capo o i capi della sentenza impugnata esplicitando con chiarezza le ragioni in iure per le quali quel capo è affetto dal vizio denunciato.
D’altro canto la riproposizione degli argomenti disattesi dal giudice del merito non determina l’inammissibilità del ricorso ove quegli argomenti siano idonei a confutare l’iter argomentativo seguito dalla sentenza impugnata.
Rileva il Collegio che il ricorso è stato redatto nel rispetto di tali principi, in quanto ha chiarito l’oggetto delle doglianze mosse all’iter argomentativo della sentenza impugnata ed ha sinteticamente svolto la narrativa della vicenda processuale senza riprodurre il testo integrale degli atti del giudizio di merito; l’inserimento di alcuni stralci dei medesimi è stato effettuato nell’ambito di una sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata .
Il ricorso è chiaro nell’individuare la questione controversa e nel precisare che la domanda non poteva essere accolta per il solo fatto che l’errato calcolo del debito orario aveva comportato una dilatazione della prestazione senza considerare che la disciplina dettata per la dirigenza medica non consente, se non alle condizioni previste dalla contrattazione collettiva, di riconoscere somme ulteriori anche in caso di protrazione della prestazione medesima. Rispetto a questa doglianza, assorbente e decisiva, non rilevano le ulteriori questioni prospettate dal controricorrente.
Il ricorso è fondato, in conformità a precedente di questa Corte, che va richiamato ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. (Cass. n. 20796/2024, alla cui motivazione si rinvia ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.).
Questa Corte ha infatti enunciato il seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici».
Nel caso di specie il dirigente medico ha chiesto il pagamento di differenze retributive concernenti l’erroneo calcolo del c.d. debito orario connesso ad assenze per ferie, malattie, festività, permessi e altre assenze similari, donde l’irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell’entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali.
Nella prospettazione del dirigente medico non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto – come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psicofisica legate a tempi prolungati della prestazione – che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezz amento in ordine a diverse forme di tutela.
L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi.
Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’i ntegrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. c iv., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35).
Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle ‘differenze retributive’ per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale, né tali ipotesi potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.).
La sentenza impugnata, che ha riconosciuto il diritto del dirigente medico al pagamento delle differenze retributive derivanti dall’erroneo calcolo del debito orario, non è conforme a tali principi e deve essere pertanto cassata.
5 . Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda originariamente proposta dal Russo.
In ragione della novità e della peculiarità della questione, nonché del diverso esito del giudizio rispetto ai gradi di merito, vanno compensate integralmente fra le parti le spese dell’intero processo.
Non sussistono le condizioni processuali richieste da ll’art.13, comma 1 quater , del d.P.R. n.115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda proposta dal Russo; compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte