Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14142 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14142 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20023/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’AVV_NOTAIO in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, con domicilio digitale come da pec Registri Giustizia;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 434/2018 della Corte d’Appello di Caltanissetta, depositata in data 21.12.2018, N.R.G. 62/2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18.04.2024 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO COGNOME.
OGGETTO: PUBBLICO IMPIEGO
RILEVATO CHE
Il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, in accoglimento del ricorso di NOME COGNOME (avvocato dipendente della RAGIONE_SOCIALE) ha disapplicato la delibera n. 512 del 10.3.2011, con cui era stata revocata la delibera n. 921 del 21.8.2007 nella parte concernente la liquidazione di compensi in suo favore, ed ha dichiarato il diritto della COGNOME RAGIONE_SOCIALE corresponsione del compenso di € 26.077,10 quale Segretario della Commissione aggiudicatrice di una gara di appalto ed ha dichiarato insussistente l’obbligo di restituzione.
La Corte di Appello di Caltanissetta, in riforma di tale sentenza, ha rigettato le domande proposte dRAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
La Corte territoriale ha ritenuto che la delibera n. 512 del 10.3.2011 non fosse un atto amministrativo, ma un atto di gestione del rapporto di lavoro con cui era stata riconosciuta la maturazione di un indebito oggettivo in capo RAGIONE_SOCIALE dipendente.
Non ha condiviso la statuizione del primo giudice, secondo cui dall’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 emerge la netta distinzione tra incarichi attinenti a compiti e doveri d’ufficio, compensati con la retribuzione ordinaria, ed incarichi che comportano ‘prestazioni al di fuori delle attribuzioni di ufficio’, per i quali sarebbe ammissibile una retribuzione separata e aggiuntiva; ha evidenziato che la disciplina contenuta nell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 riguarda le obbligazioni relative RAGIONE_SOCIALE fedeltà, lealtà e correttezza nell’esecuzione di tale rapporto, e non le obbligazioni pecuniarie che nascono dal rapporto di pubblico impiego.
Ha rilevato che l’art. 53, comma 2, del d. lgs n. 165/2001 si limita a precisare che gli incarichi non ricompresi nei compiti e doveri di ufficio possono essere conferiti solo se espressamente previsti in fonti normative in quanto espressamente autorizzati, mentre il comma 7 delinea il preciso dovere dei dipendenti pubblici di non svolgere incarichi retribuiti, senza tuttavia stabilire se, a quali condizioni e in che misura la retribuzione sia dovuta.
Ha aggiunto che la sentenza impugnata non aveva esaminato l’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, dal quale risulta che il trattamento retributivo determinato ai sensi dei commi 1 e 2 abbraccia non solo ogni incarico conferito ai dirigenti in ragione del loro ufficio, ma qualunque incarico comunque conferito dall’Amministrazione o su designazione della stessa, ed ha pertanto ritenuto che tutti gli incarichi svolti dal dirigente su conferimento o designazione dell’Amministrazione di appartenenza, ancorché basati sull’ intuitus personae , siano assoggettati al basilare principio dell’onnicomprensività della retribuzione.
Ha ritenuto irrilevante la buona fede della percipiente, atteso che il generale principio dell’irripetibilità delle somme percepite in buona fede dal pubblico dipendente presuppone che la privazione delle somme oggetto dell’indebito sia idonea a compromettere le esigenze di vita del dipendente stesso, in rapporto ai suoi redditi complessivi; ha in proposito evidenziato che tale condizione, preliminare anche rispetto all’indagine sulla buona fede, non era stata neppure allegata dall’appellata.
NOME COGNOME ha proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da memoria.
La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
La COGNOME ha depositato memoria, chiedendo contestualmente che la causa sia rimessa per la trattazione RAGIONE_SOCIALE pubblica udienza.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 53, commi 2 e 7, d.lgs. n. 165/2001, della legge n. 109/1994, della legge regionale n. 7/2002, del d.p.r. n. 554/1999 e del Decreto RAGIONE_SOCIALE Lavori Pubblici 6 marzo 1989, nonché violazione dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata per avere erroneamente affermato che il principio dell’onnicomprensività debba essere interpretato nel senso della totale esclusione di ogni trattamento aggiuntivo; lamenta una lettura parziale e decontestualizzata dell’art. 53, commi 2 e 7, d.lgs. n. 165/2001.
Assume che sfuggono all’onnicomprensività gli incarichi svolti su richiesta di terzi, come nel caso in esame (in cui è l’RAGIONE_SOCIALE a trasferire le somme per il pagamento dei componenti della Commissione).
Lamenta che la Corte territoriale ha omesso ogni accertamento dei due requisiti richiesti per la legittima percezione del compenso, entrambi sussistenti nel caso di specie (l’autorizzazione e il versamento delle somme al bilancio dell’RAGIONE_SOCIALE da parte della Regione, soggetto terzo); aggiunge che l’RAGIONE_SOCIALE ha incassato le somme per tutti i componenti ed è l’unica a trattenerle indebitamente.
Sostiene che il meccanismo sanzionatorio della restituzione dei compensi nel caso in cui difetti l’autorizzazione, previsto dRAGIONE_SOCIALE normativa, smentisce l’assunto della sentenza impugnata secondo cui i dipendenti pubblici non possono svolgere alcun incarico retribuito che non sia compreso nei doveri di ufficio.
Evidenzia che la disciplina contenuta nella legge n. 109/1994, nella legge regionale n. 7/2002, nel d.p.r. n. 554/1999 e nel Decreto RAGIONE_SOCIALE Lavori Pubblici 6 marzo 1989 non distingue tra componenti interni ed esterni, ma fissa un compenso per la Commissione e che l’incarico svolto dall’AVV_NOTAIO è extraistituzionale.
Richiama le deliberazioni D.G. n. 374 del 17.3.2006 e n. 648 del 4.6.2004, evidenziando che la ‘voce’ per la commissione giudicatrice è specifica e a destinazione vincolata, e poteva essere attribuita solo ai componenti della commissione giudicatrice per l’affidamento dell’appalto e che l’RAGIONE_SOCIALE non è pertanto legittimata ad agire per il recupero forzoso.
Con il secondo motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 821/84 e violazione dei principi di contrattazione, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.
Evidenzia che le somme di cui è stata chiesta la restituzione sono state percepite in buona fede e che i componenti della Commissione di aggiudicazione dei precedenti lotti sono stati regolarmente retribuiti, come dichiarato dal teste COGNOME.
Torna a sostenere l’irrilevanza della distinzione tra componenti interni e componenti esterni della Commissione ed il carattere extraistituzionale dell’incarico; richiama la deposizione del teste NOME COGNOME, nonché il Regolamento dell’Ufficio Legale, la deliberazione DG n. 240 del 17.2.2011 e le deliberazioni del Commissario Straordinario n. 229 del 15.2.2017, n. 762 del 3.7.2008, n. 262 del 27.2.2008 e n. 33 del 18.1.2008.
Argomenta che gli artt. 17, 18 e 21 della legge n. 109/1994 non si pongono in conflitto con l’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, in quanto prevedono incarichi autonomamente remunerati, che si autofinanziano; aggiunge che il caso in esame sfugge al principio di onnicomprensività, in quanto riguarda un incarico occasionale.
Con il terzo motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.
Assume che i compensi per incarichi aggiuntivi devono cumularsi ad un incarico dirigenziale vero e proprio, e dunque ad un incarico principale.
Addebita RAGIONE_SOCIALE Corte territoriale di avere sovrapposto istituti diversi, in quanto ha ricondotto l’incarico conferito RAGIONE_SOCIALE COGNOME al meccanismo di remunerazione dell’incarico che afferisce RAGIONE_SOCIALE posizione organizzativa.
Sostiene che è improprio estendere il principio dell’onnicomprensività di cui all’art. 24 del d.lgs. 165/2001 alle ipotesi nelle quali l’interessato è dirigente, ma non opera come tale, essendo in tali casi dominante l’ intuitus personae rispetto al profilo funzionale.
Aggiunge che ai sensi dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, i compensi dovuti dai terzi confluiscono nel fondo della dirigenza e non sono redistribuiti a tutti i dirigenti, ma solo a chi ha prodotto il risultato; evidenzia che l’Amministrazione non ha mai provato che tali somme siano confluite nella contrattazione integrativa e ripartite tra tutti i dirigenti.
I motivi, da trattarsi congiuntamente per ragioni di connessione logica e giuridica, presentano innanzitutto profili di inammissibilità.
Le censure, nella parte in cui deducono che l’incarico conferito all’AVV_NOTAIO è stato autorizzato e svolto al di fuori dell’attività di servizio e che le relative somme sono state acquisite al bilancio dell’RAGIONE_SOCIALE datrice di lavoro, richiamano le deliberazioni del D.G., il Regolamento dell’Ufficio Legale e le risultanze della prova testimoniale e sollecitano un giudizio di merito, inammissibile in questa sede, peraltro facendo leva su circostanze di fatto che non risultano dRAGIONE_SOCIALE sentenza impugnata.
Deve in proposito rammentarsi che nel giudizio di cassazione, il quale ha ad oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto RAGIONE_SOCIALE regolarità formale del processo e alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi
argomenti di fatto dedotti (Cass. SU n. 19874/2018; Cass. n. 2190/2014; Cass. n. 4787/2012; Cass. n. 8993/2003; Cass. n. 3881/2000; Cass. n. 5845/2000; Cass. n. 12020/1995); pertanto, nel caso in cui il ricorrente per cassazione proponga una determinata questione giuridica che implichi un accertamento in fatto e non risulti in alcun modo trattata nella sentenza impugnata, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, deve denunciarne l’omessa pronuncia indicando, in conformità con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in quale atto del giudizio di merito abbia già dedotto tale questione, per dar modo RAGIONE_SOCIALE Corte di controllare ex actis la veridicità e la ritualità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la relativa censura (hanno richiamato Cass. n.1273/2003; Cass. n. 6542/2004; Cass. n. 3664/2006; Cass. n. 20518/2008; Cass. n. 2190/2014; Cass. n. 18719/2016).
Inoltre il secondo motivo, nel dedure che la percezione è avvenuta in buona fede, non censura le statuizioni della sentenza impugnata, secondo cui il generale principio dell’irripetibilità delle somme percepite in buona fede dal pubblico dipendente presuppone che la privazione delle somme oggetto dell’indebito sia idonea a compromettere le esigenze di vita del dipendente stesso, in rapporto ai suoi redditi complessivi e che tale condizione, preliminare anche rispetto all’indagine sulla buona fede, non era stata neppure allegata dall’appellata.
Nelle restanti parti le censure sono infondate.
In una fattispecie analoga, questa Corte ha infatti chiarito che l’atto con il quale il datore di lavoro pubblico assegna al dipendente un incarico, stabilendone il compenso, in quanto attinente RAGIONE_SOCIALE gestione del rapporto, ha natura privatistica e, conseguentemente, rispetto a tale atto non può essere esercitato il potere di autotutela, né quello di disapplicazione limitato agli atti amministrativi presupposti; qualora l’atto adottato risulti in contrasto con norma imperativa, l’ente pubblico, tenuto a conformare la propria condotta RAGIONE_SOCIALE legge nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente all’adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo ed in tal caso, al di là dello strumento formalmente utilizzato e dell’autoqualificazione, la condotta della P.A. è equiparabile a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità (v. Cass. n. 3278/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata ).
Si è inoltre affermato che in relazione al trattamento economico ed ai principi inderogabili fissati al riguardo dal d.lgs. n. 165/2001, l’atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al dipendente, occorrendo anche la conformità alle previsioni della legge e della contrattazione collettiva, in assenza della quale l’atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, a ciò tenuta in forza della previsione di cui al richiamato art. 97 Cost., deve ripristinare la legalità violata (cfr. fra le più recenti Cass. n. 3826/2016, Cass. 16088/2016 e Cass. n. 25018/2017, tutte richiamate da Cass. n. 3278/2020).
E’ inoltre consolidato l’indirizzo di questa Corte, secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo
il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall’amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa.
Il meccanismo non muta qualora si sia in presenza di compensi dovuti da terzi in quanto il trattamento economico per i dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti ai medesimi attribuiti, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa; i compensi dovuti dai terzi sono corrisposti direttamente RAGIONE_SOCIALE medesima amministrazione e confluiscono nelle risorse destinate al trattamento economico accessorio della dirigenza.
Si è inoltre chiarito che non può trovare applicazione l’art. 2126 c.c., riferibile alle ipotesi in cui la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque riconducibili RAGIONE_SOCIALE qualifica posseduta (v. tra le tante: Cass. n. 3094/2018; Cass. n. 20150/2018 e Cass. n. 8261/2017).
Ciò premesso, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo affermato la natura doverosa della ripetizione (v. Consiglio di Stato, sezione III, 9 giugno 2014, n. 2903) atteso che la percezione di emolumenti non dovuti impone all’Amministrazione l’esercizio del diritto -dovere di ripetere le relative somme in applicazione dell’art. 2033 cod. civ.
In tal caso, infatti, l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede neppure specifica motivazione in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l’atto oggetto di recupero produce di per sé un danno per l’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente (cfr. Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8; Consiglio Stato, sez. VI, 14 luglio 2011, n. 4284; Consiglio Stato, sez. VI, 27 novembre 2002, n. 6500).
A i sensi dell’art. 2033 cod. civ., è diritto -dovere della Pubblica Amministrazione ripetere somme indebitamente erogate; di conseguenza, l’affidamento del dipendente e la sua buona fede nella percezione non sono di ostacolo all’esercizio di tale diritto -dovere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 28 novembre 2011, n. 6278; Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 5043).
La PRAGIONE_SOCIALEA. non ha dunque alcuna discrezionalità al riguardo, tanto che il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate configura danno erariale, con il solo temperamento costituito dRAGIONE_SOCIALE regola per cui le modalità dello stesso non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle esigenze di vita del debitore ed alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie, avuto riguardo RAGIONE_SOCIALE natura degli importi richies ti in restituzione, alle cause dell’errore nell’erogazione, al lasso di tempo trascorso tra la stessa e l’emanazione del provvedimento di recupero, all’entità delle somme corrisposte, riferita alle singole mensilità e nel totale determinato dRAGIONE_SOCIALE relativa sommatoria (v., già prima di Corte cost. n. 8/2023, Consiglio di Stato, sez. V, 13 aprile 2012, n. 2118; id . 15 ottobre 2003, n. 6291).
È inoltre granitico l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di indebito oggettivo, la restituzione delle somme è del tutto estranea RAGIONE_SOCIALE buona fede del percipiente.
Infatti, una volta qualificata l’azione in esame come indebito oggettivo, non potrebbe che discenderne, avuto riguardo RAGIONE_SOCIALE specificità della materia del pubblico impiego, l’applicazione integrale della disciplina dettata dall’art. 2033 cod. civ., tanto in tema di irrilevanza di un’eventuale buona fede dell’ accipiens .
Questa Corte ha sul punto chiarito che ‘ In materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da un’amministrazione nei confronti di un proprio dipendente, in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora risulti accertato che l’erogazione è avvenuta “sine titulo”, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c. per la buona fede dell'”accipiens”, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi’ (v. Cass. n. 4323/2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Con la sentenza n. 8/2023, il giudice delle leggi ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. affermando che non è illegittima per contrarietà RAGIONE_SOCIALE Costituzione l’omessa previsione dell’irripetibilità dell’indebito retri butivo e previdenziale non pensionistico là dove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato nel percettore un legittimo affidamento circa la loro spettanza, con il solo limite che la richiesta di restituzione deve avvenire con modalità conformi a buona fede oggettiva.
Vanno, dunque, tenuti distinti il piano della tutela dell’affidamento e quello della prestazione pecuniaria restitutoria (e del quomodo della stessa).
Ai sensi dell’art. 2033 cod. civ. la buona fede dell’ accipiens rileva solo ai fini della decorrenza degli interessi; il principio di buona fede all’Amministrazione impone soltanto il ‘dovere di rateizzare la somma richiesta in restituzione, tenendo conto delle condizioni economicopatrimoniali in cui versa l’obbligato, che, ex abrupto , si trova a dover restituire ciò che riteneva di aver legittimamente ricevuto’ (v. Corte cost. n. 8 del 2023, punto 12.2.1.) , con la conseguenza che la pretesa restitutoria dell’Amministrazione ‘si dimostra dunque inesigibile fintantoché non sia richiesta con modalità che il giudice reputi conformi a buona fede oggettiva’ (idem sentenza e punto citati).
Peraltro nel caso di specie, le modalità della restituzione di tali somme non hanno formato oggetto di causa (la questione dibattuta attiene solo RAGIONE_SOCIALE legittimità della richiesta di restituzione, esulando dal perimento dell’odierna decisione ogni aspetto afferente alle suddette moda lità).
La sentenza impugnata è conforme a tali principi, in quanto ha applicato il criterio di onnicomprensività, ha ravvisato la sussistenza di un indebito oggettivo ed ha ritenuto irrilevante la buona fede del percipiente.
Va respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza, rientrando la valutazione degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, u.c., c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533/2017; Cass. n. 26480/2020); il collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della
trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437/2018)’.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi ed in € 3.000,00 per competenze professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 18 aprile 2024.