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Retribuzione aggiuntiva: serve il contratto collettivo

La Cassazione ha negato il diritto di alcuni dipendenti di un’ASL a una retribuzione aggiuntiva, precedentemente percepita, derivante da servizi a privati. La Corte ha stabilito che, nel pubblico impiego, ogni compenso deve fondarsi su un contratto collettivo o su una legge, non bastando delibere regionali o prassi aziendali precedenti a una fusione.

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Pubblicato il 9 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Retribuzione Aggiuntiva nel Pubblico Impiego: Senza Contratto Collettivo, Nessun Diritto

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un principio fondamentale per i dipendenti del settore pubblico: la retribuzione aggiuntiva non può basarsi su vecchie prassi aziendali o su atti amministrativi come le delibere regionali. La Corte ha stabilito che qualsiasi compenso deve trovare la sua fonte esclusiva nella legge o nella contrattazione collettiva. Il caso riguardava alcuni lavoratori di un centro trasfusionale che, a seguito di una fusione aziendale, si sono visti negare un compenso extra che percepivano in precedenza.

I Fatti del Caso: Dalla Prassi Aziendale alla Causa Legale

La vicenda ha origine quando due dipendenti di un centro trasfusionale, in servizio presso un’azienda ospedaliera autonoma, ottengono un decreto ingiuntivo per il pagamento di spettanze maturate negli anni 2015 e 2016. Tali somme derivavano da una prassi consolidata che prevedeva la distribuzione al personale di una quota del 20% del fatturato generato dalle attività trasfusionali fornite a cliniche private convenzionate.

Il problema sorge quando l’azienda ospedaliera viene soppressa e incorporata in una più grande Azienda Sanitaria Locale (ASL). Il nuovo datore di lavoro interrompe l’erogazione di tale compenso, ritenendolo non dovuto. Mentre il Tribunale di primo grado dà ragione ai lavoratori, la Corte d’Appello ribalta la decisione, accogliendo l’opposizione dell’ASL. I lavoratori decidono quindi di ricorrere in Cassazione.

Le Argomentazioni dei Lavoratori

I ricorrenti sostenevano che il loro diritto al compenso dovesse continuare anche dopo la fusione. La loro difesa si basava principalmente su atti normativi regionali e su un decreto ministeriale che, a loro avviso, fondavano il diritto a percepire quella quota. Essi contestavano inoltre che il nuovo datore di lavoro potesse applicare un trattamento economico peggiorativo in assenza di un nuovo contratto collettivo aziendale che lo prevedesse esplicitamente.

La Decisione della Cassazione: la Retribuzione Aggiuntiva Richiede una Fonte Certa

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dei lavoratori, ritenendolo infondato. Gli Ermellini hanno chiarito che, nel pubblico impiego privatizzato, il trattamento economico dei dipendenti è rigidamente disciplinato dalla legge e dai contratti collettivi. Non è possibile che un atto amministrativo, come una delibera di una giunta regionale, possa creare o modificare diritti retributivi.

Le Motivazioni: la Gerarchia delle Fonti nel Pubblico Impiego

La Corte ha smontato la tesi dei ricorrenti analizzando la gerarchia delle fonti normative. Il punto centrale della motivazione è che la retribuzione aggiuntiva vantata non trovava fondamento in nessuna norma di legge né in un contratto collettivo nazionale o aziendale.

I giudici hanno osservato che il decreto ministeriale del 1995, invocato dai lavoratori, destinava la famosa quota del 20% non ai dipendenti, ma a coprire le spese di funzionamento generale della struttura trasfusionale. Era quindi un contributo per l’azienda, non uno stipendio per i lavoratori. Per poter essere distribuito al personale, sarebbe stata necessaria una successiva contrattazione collettiva, mai avvenuta.

Inoltre, le delibere regionali citate dai ricorrenti sono state ritenute inidonee a fondare il diritto per due motivi cruciali:
1. Rango gerarchico inadeguato: Essendo atti amministrativi, non possono derogare al principio secondo cui la retribuzione dei pubblici dipendenti è fissata solo da contratti collettivi.
2. Oggetto diverso: Quelle delibere disciplinavano l’attività libero-professionale intra moenia dei dirigenti medici, un contesto completamente diverso dal lavoro ordinario svolto dai dipendenti coinvolti nel caso.

In definitiva, la pretesa dei lavoratori era contraddittoria: in assenza di un contratto collettivo che riconoscesse il loro diritto, si basavano su atti amministrativi che non avevano la forza di legge per creare un diritto al compenso.

Le Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio cardine del diritto del lavoro pubblico: le fonti della retribuzione sono tassative. I dipendenti pubblici non possono rivendicare compensi basandosi su prassi aziendali precedenti, anche se consolidate, o su atti amministrativi. L’unico fondamento valido per una retribuzione aggiuntiva è la sua previsione esplicita in una norma di legge o, più comunemente, in un contratto collettivo. Questa decisione, pur correggendo la motivazione della Corte d’Appello, ne ha confermato il risultato, stabilendo che la richiesta dei lavoratori era priva di una valida fonte legale o contrattuale.

Un dipendente pubblico può pretendere una retribuzione aggiuntiva basata su una prassi aziendale precedente a una fusione?
No. Secondo la Corte di Cassazione, nel pubblico impiego il trattamento economico è determinato esclusivamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Una prassi precedente, anche se consolidata, non costituisce una fonte di diritto sufficiente a giustificare la continuazione di un pagamento dopo il subentro di un nuovo datore di lavoro.

Una delibera regionale può stabilire un compenso aggiuntivo per i dipendenti di un’ASL?
No. La Corte ha stabilito che un atto amministrativo, come una delibera regionale, non ha il rango normativo adeguato per creare diritti retributivi per i dipendenti pubblici. Tali diritti devono essere previsti dalla contrattazione collettiva, nel rispetto dei vincoli di legge.

Il 20% del fatturato per servizi trasfusionali a privati spetta automaticamente ai dipendenti che svolgono il servizio?
No. La sentenza chiarisce che la norma originaria (un Decreto Ministeriale del 1995) destinava tale quota a coprire le spese di funzionamento generale della struttura, non a remunerare direttamente il personale. Una sua eventuale distribuzione ai dipendenti avrebbe richiesto una specifica previsione in un contratto collettivo, che nel caso di specie mancava.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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