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Retribuzione aggiuntiva sanità: no a compensi extra

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di alcuni dipendenti di un Centro Trasfusionale che richiedevano una retribuzione aggiuntiva. I lavoratori sostenevano di aver diritto al 20% del fatturato derivante da prestazioni a terzi. La Corte ha stabilito che la remunerazione dei dipendenti pubblici è regolata solo da leggi e contratti collettivi. Un atto amministrativo, come una delibera regionale, non può creare nuovi diritti retributivi. Inoltre, il contributo del 20% era destinato a coprire i costi di funzionamento della struttura, non a pagare il personale.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Retribuzione Aggiuntiva Sanità: La Cassazione Sancisce i Limiti per i Compensi Extra

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 32498/2024, ha affrontato un tema di grande interesse per il settore pubblico: la possibilità di riconoscere una retribuzione aggiuntiva sanità al personale per attività svolte a favore di terzi durante l’orario di lavoro. La Corte ha stabilito principi chiari, ribadendo che i compensi dei dipendenti pubblici sono vincolati rigidamente alle previsioni di legge e della contrattazione collettiva, escludendo la possibilità che atti amministrativi possano generare nuovi diritti economici.

I Fatti del Caso: La Richiesta del Personale Sanitario

La vicenda trae origine dalla richiesta di un gruppo di dipendenti di un Centro Trasfusionale di una Azienda Sanitaria Locale (ASL). I lavoratori sostenevano di aver diritto a un compenso aggiuntivo, quantificato nel 20% del fatturato derivante da una convenzione tra l’ASL e strutture esterne. A loro avviso, tale importo era destinato a ripagare il maggior carico di lavoro sostenuto per garantire il servizio a soggetti terzi.

La pretesa si fondava sull’interpretazione di alcune delibere regionali e di un Decreto Ministeriale del 1995, che prevedeva un contributo pari al 20% del fatturato complessivo per le spese di funzionamento della struttura. I ricorrenti ritenevano che tale somma, di fatto, dovesse essere riconosciuta a loro come compenso per l’aumentato impegno lavorativo. La Corte d’Appello, tuttavia, aveva respinto la loro domanda, portando la questione dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’Interpretazione degli Atti e la Retribuzione Aggiuntiva Sanità

Il principale motivo di ricorso si basava sulla presunta errata interpretazione, da parte dei giudici di merito, delle delibere regionali. I lavoratori sostenevano che queste norme, lette alla luce di una nota dell’Assessorato regionale alla sanità, non lasciassero dubbi sul loro diritto a percepire il compenso rivendicato.

La Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, ricordando un principio consolidato: l’interpretazione di atti amministrativi non normativi (come una delibera di Giunta) costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito. In sede di legittimità, tale interpretazione può essere censurata solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e ss. c.c.), cosa che i ricorrenti non avevano adeguatamente argomentato, limitandosi a proporre una propria lettura alternativa.

Il Ruolo della Contrattazione Collettiva

Un punto cruciale della decisione riguarda il Decreto Ministeriale del 1995. La Corte ha osservato che, sebbene tale decreto menzionasse un contributo del 20%, la sua finalità era quella di coprire le “spese di funzionamento generale della struttura trasfusionale” e non di remunerare direttamente il personale.

Perché tale importo potesse essere destinato ai dipendenti, sarebbe stata necessaria una successiva contrattazione collettiva che ne definisse le modalità e le misure. Il trattamento economico dei pubblici impiegati, infatti, non può essere incrementato da un semplice atto amministrativo o da una scelta discrezionale del datore di lavoro pubblico, ma deve trovare fondamento esclusivo nella legge o nei contratti collettivi (come previsto dagli artt. 24 e 45 del D.Lgs. 165/2001).

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha motivato il rigetto del ricorso basandosi su argomentazioni solide e coerenti. In primo luogo, ha distinto nettamente tra l’attività lavorativa svolta in orario istituzionale e quella in regime di libera professione intramuraria (c.d. intramoenia). La delibera regionale del 2001, su cui i ricorrenti basavano parte delle loro pretese, era intitolata “linee guida per l’esercizio della libera professione intramuraria”. Di conseguenza, le sue previsioni non potevano essere applicate all’attività svolta durante il normale orario di servizio, che era pacificamente il caso di specie.

L’incremento del 20% menzionato nel D.M. del 1995, se riferito all’attività istituzionale, rappresenta un costo per l’ASL che deve essere coperto senza che ciò comporti automaticamente un aumento retributivo per i dipendenti. Se invece fosse stato riferito all’attività intramoenia, sarebbe servito a rimborsare i costi della struttura, ma non era questo il caso rivendicato.

Infine, la Corte ha sottolineato l’irrilevanza di eventuali note assessorili o di delibere aziendali non attuate. Tali atti non hanno la forza di creare diritti retributivi che non derivino da fonti normative primarie o da contratti collettivi. La pretesa dei lavoratori era, quindi, priva di un fondamento giuridico valido.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame riafferma un principio cardine del pubblico impiego: la rigida determinazione delle fonti della retribuzione. Qualsiasi compenso aggiuntivo deve essere esplicitamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Il personale sanitario non può rivendicare una percentuale sui ricavi generati da servizi a terzi se non esiste una specifica norma contrattuale che lo preveda. La decisione chiarisce che i contributi versati da esterni per coprire i costi di funzionamento di una struttura pubblica non si traducono automaticamente in un diritto economico per i lavoratori coinvolti, ponendo un freno a interpretazioni estensive di delibere e atti amministrativi che potrebbero alterare l’equilibrio retributivo stabilito dalle fonti competenti.

Un atto amministrativo come una delibera regionale può creare un diritto a una retribuzione aggiuntiva per i dipendenti pubblici?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che la retribuzione dei pubblici impiegati può essere incrementata solo da fonti normative (leggi) o dalla contrattazione collettiva, non da un semplice atto amministrativo.

Il personale sanitario ha diritto a una percentuale del fatturato generato da prestazioni a terzi durante l’orario di lavoro istituzionale?
No, non automaticamente. Secondo la sentenza, se tale compenso non è previsto da un contratto collettivo, non spetta ai dipendenti. Un eventuale contributo versato da terzi, come il 20% del fatturato citato nel caso, è destinato a coprire le spese generali della struttura sanitaria e non a remunerare direttamente il personale.

Qual è la differenza tra attività “istituzionale” e “intramoenia” ai fini della retribuzione?
L’attività “istituzionale” è quella svolta durante il normale orario di lavoro e remunerata dallo stipendio base. L’attività “intramoenia” è una libera professione svolta dal medico al di fuori dell’orario di servizio, utilizzando le strutture pubbliche, che dà diritto a un compenso aggiuntivo basato sulle prestazioni erogate. La sentenza sottolinea che le regole sui compensi per l’attività intramoenia non si applicano al lavoro istituzionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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