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Codice Penale

Restituzione delle somme corrisposte, sentenza cassata

In sede di legittimità non è mai ammissibile una pronuncia di restituzione delle somme corrisposte sulla base della sentenza cassata.

Pubblicato il 04 December 2020 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE II LAVORO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice, dott.ssa, all’esito della camera di consiglio del 30/11/2020 dà lettura della seguente

sentenza n. 8099/2020 pubblicata il 30/11/2020

nella causa iscritta al n. /2020 R.G. controversie di lavoro promossa

da

XXX S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avv., per procura allegata alla comparsa di costituzione,

RICORRENTE

contro

YYY, rappresentato e difeso dagli Avv.ti , per procura allegata alla memoria di costituzione,

RESISTENTE

OGGETTO: ripetizione di indebito.

CONCLUSIONI: per le parti, come nei rispettivi scritti difensivi e nelle note scritte di udienza.

FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con atto di ricorso depositato in forma telematica il 19/03/2020 la società ricorrente in epigrafe conveniva in giudizio YYY per sentirlo condannare alla restituzione dell’importo di € 7.925,19, corrispostogli con la busta paga di luglio 2003 in esecuzione del disposto giudiziale del Tribunale di Trieste, sentenza n. /2003 del 21/03/2003, successivamente riformata dalla Corte di Appello di Trieste con sentenza n. /2005 del 12/11/2005, confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. /2009 del 1/06/2009.

Ritenendo trattarsi di un indebito oggettivo e deducendo di avere inutilmente diffidato il lavoratore alla restituzione dell’importo con lettera del 30/05/2017, ricevuta l’8/06/2017, la ricorrente domandava la condanna del convenuto al pagamento in proprio favore dell’importo di € 7.925,19, oltre rivalutazione monetaria e interessi di legge dal dovuto al saldo, con vittoria di spese.

Ritualmente instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio YYY, eccependo, in via preliminare, l’incompetenza per territorio del Tribunale adito e, nel merito, l’intervenuta prescrizione delle somme pretese, nonché, comunque, l’infondatezza della pretesa relativa alla rivalutazione monetaria.

Disposta la sostituzione della udienza di comparizione con lo scambio di note scritte, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, lettera b), n. 7), del D.L. 125/2020, in ragione della emergenza nazionale sanitaria per il rischio di contagio da Covid-19, la controversia, ritenuta di natura documentale, veniva istruita mediante l’acquisizione della documentazione allegata agli scritti delle parti.

Lette le note di discussione scritta depositate da entrambe le parti, nelle quali ciascuna insisteva per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate, la causa veniva assunta nella odierna camera di consiglio per la decisione.

Così ricostruito l’iter procedimentale, deve, in primo luogo, respingersi l’eccezione di difetto di competenza territoriale del Tribunale di Roma.

La parte ricorrente, facendo riferimento all’articolo 389 c.p.c. e citando i precedenti di legittimità n. 13461/2006 e 12218/2012, ha ritenuto sussistente la competenza territoriale del Tribunale di Trieste, che ebbe a pronunciare la sentenza poi cassata.

Il principio affermato dalla Suprema Corte, tuttavia, a ben vedere, si sostanza nell’affermare che “in sede di legittimità non è mai ammissibile una pronuncia di restituzione delle somme corrisposte sulla base della sentenza cassata, neanche nel caso in cui la Corte di cassazione, annullando la sentenza impugnata, decida la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., in quanto per tale domanda accessoria non opera, in mancanza di espressa previsione, l’eccezione al principio generale secondo cui alla Corte compete solo il giudizio rescindente, sicché la stessa, ove il pagamento sia avvenuto sulla base della sentenza annullata, va proposta al giudice che ha pronunciato quest’ultima, a norma dell’art. 389 c.p.c., il quale attribuisce alla Corte di cassazione, senza eccezione alcuna, il solo giudizio rescindente (tra le tante, sentt. nn. 12218/12 e 667/16)” (cfr., da ultimo, Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 24852 del 4/10/2019).

La lettura integrale della motivazione della sentenza consente di apprezzare che il principio, ormai consolidato, espresso dalla Suprema Corte è l’impossibilità di agire in sede di legittimità per ottenere la restituzione di quanto corrisposto in adempimento di una pronuncia cassata, trattandosi di questione di merito, da proporsi al giudice di merito.

Non v’è sovvertimento, tuttavia, delle regole fissate per l’individuazione della competenza territoriale, sicché, nel rito del lavoro, ai sensi dell’articolo 413 C.p.c., non v’è dubbio che accanto al luogo in cui è sorto o si è svolto il rapporto, sussista la competenza territoriale concorrente del luogo nel quale ha sede l’azienda.

Poiché è dedotto – e non è contestato – che la sede legale della odierna ricorrente sia in Roma, sussiste la competenza territoriale concorrente del Tribunale di Roma adito.

Nel merito, è fondata l’eccezione di prescrizione.

Sono in atti le sentenze della Corte di Appello di Trieste n. /2005 del 12/11/2005 e della Corte di Cassazione n. /2009 del 1/06/2009 con le quali è stata definitivamente riformata la pronuncia del Tribunale di Trieste, n. /2003 del 21/03/2003, con il definitivo rigetto della domanda originariamente introdotta da YYY (documenti nn. 1, 4, 5 del ricorso).

È, pertanto, certa la definitiva non debenza della somma oggetto di condanna in primo grado, che la società ricorrente ha documentato di avere corrisposto al resistente con la busta paga di luglio 2003 (documenti nn. 2 e 3).

Invero, “il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno “ex tunc” e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza” (cfr. Cassazione, Sezione Lavoro, n. 16559 del 05/08/2005), poiché l’obbligo di restituzione, è noto, sorge per il solo fatto della avvenuta cassazione o riforma della sentenza, ancorché quest’ultima non contenga la condanna alle restituzioni. D’altro canto, è fondata l’eccezione di prescrizione, poiché in fattispecie di restituzione di somme corrisposte in esecuzione di sentenza di primo grado riformata – già – in appello, deve condividersi il principio secondo cui “Il termine di prescrizione del diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di condanna di primo grado, riformata in appello, comincia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dalla data di pubblicazione della sentenza di riforma in ragione dell’immediata efficacia di quest’ultima, ed è interrotta dalla notifica dell’atto di appello, con effetti permanenti fino al passaggio in giudicato, solo a condizione che in tale atto (o successivamente, in caso di esecuzione avviata dopo la proposizione dell’impugnazione) sia stata espressamente formulata la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado; in assenza di tale domanda, infatti, non può operare automaticamente l’effetto interruttivo previsto dal combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c., in quanto il diritto alla restituzione non ha alcuna correlazione con lo specifico rapporto controverso in appello, trovando la sua fonte in un fatto nascente dal processo (l’avvenuta esecuzione di un titolo giudiziale poi riformato), che potrebbe del tutto mancare (o, comunque, sopravvenire) al momento dell’impugnazione, con la conseguenza che tale fatto deve essere autonomamente portato alla cognizione del giudice di appello” (cfr. Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 27131 del 25/20/2018).

Ancora di recente la Suprema Corte ha confermato tali principi, ribadendo che “il termine di prescrizione del diritto alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado comincia a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza di riforma, a mente dell’articolo 2935 cod.civ. e non dal momento, successivo, del passaggio in giudicato della stessa sentenza” (cfr. Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 6942 dell’11/03/2019), poiché l’eliminazione, per effetto della legge 26/11/1990 n. 353, dell’inciso “con sentenza passata in giudicato” dal testo dell’articolo 336, comma 2, C.p.c. ha comportato l’immediata efficacia della sentenza di riforma sugli atti di esecuzione dipendenti dalla sentenza di primo grado riformata.

Ne consegue che, pubblicata la sentenza di riforma, viene meno tanto l’efficacia esecutiva della condanna resa nel primo grado, tanto la giustificazione degli atti di esecuzione compiuti, siano essi spontanei o coattivi, con conseguente obbligo di restituzione delle somme riscosse ed, in generale, di ripristino dello status quo ante (ex plurimis: Cass. sez. III 30 aprile 2009 n. 10124; sez. lav. 05 marzo 2009 n. 5323).

Né, d’altro canto, può ritenersi che la notificazione dell’atto di appello costituisca atto interruttivo della prescrizione, con effetti permanenti fino al giudicato, anche della domanda di restituzione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 2943, commi 1 e 2, e dell’articolo 2945, comma 2 c.c., a meno che nell’atto di appello (ovvero nel corso del giudizio d’appello, in caso di esecuzione avvenuta successivamente alla proposizione della impugnazione) sia stata effettivamente proposta una domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado.

Invero, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare la ammissibilità di una tale domanda, precisando che la stessa, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello (Cass. nr. 18611/2013; nr. 16152/2010; nr.10124/2009; nr. 5323/2009).

Né, infine, può ravvisarsi la sussistenza di un legame di stretta conseguenzialità del diritto della cui prescrizione si discute rispetto al rapporto oggetto di causa, poiché il diritto alla restituzione di quanto corrisposto non ha alcuna relazione con lo specifico rapporto controverso in appello, essendovi un autonomo obbligo di ripristino dello status quo ante, che ha la sua fonte non nella vicenda sostanziale da cui origina il giudizio, ma in un fatto nascente dal processo, ovvero la avvenuta esecuzione di un titolo giudiziale e la sua sopravvenuta caducazione, indipendentemente dalle vicende relative al rapporto controverso (così Cass. 27131/2018, cit.). Nel caso in esame, pur non essendo prodotto l’atto di appello di XXX S.p.A., dalla lettura della sentenza n. /2005 emessa dalla Corte di Appello di Trieste il 12/11/2005 si apprende che la società aveva agito per la riforma della sentenza n. /2003 emessa il 21/03/2003 dal Tribunale di Trieste, sollevando cinque motivi di doglianza, senza, tuttavia, domandare la restituzione delle somme a quella data già corrisposte al YYY, in esecuzione della sentenza di primo grado.

Ne consegue che, in pieno accordo ai principi sopra espressi, il termine di prescrizione, iniziato a decorrere dalla pronuncia della sentenza di riforma, pubblicata dalla Corte di Appello di Trieste il 12/11/2005, era già interamente decorso alla data della lettera di diffida inviata da R.F.I. S.p.A. il 30/05/2017.

Senza necessità di esaminare l’ulteriore questione della spettanza della rivalutazione monetaria, pertanto, il ricorso deve essere respinto, per essere i crediti oggetto di domanda ormai estinti per integrale decorso del termine di prescrizione.

Le spese di lite vanno liquidate come in dispositivo alla luce della regola generale sulla soccombenza, nonché delle vigenti tabelle allegate al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 37/2018, con riguardo allo scaglione di valore della causa.

P.Q.M.

Lette le note di discussione scritta, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso.

Condanna la società ricorrente a rifondere al resistente le spese di lite, che liquida nella misura di € 2.008, oltre rimborso forfettario spese generali, I.v.a. e c.p.a., come per legge.

Roma, 30 novembre 2020.

Il Giudice

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