Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15597 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 15597 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 14177/2019 proposto da:
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Milano, n. 1685/2018, pubblicata il 6 novembre 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME ha proposto opposizione davanti al Tribunale di Varese contro il decreto ingiuntivo emesso in favore dell’RAGIONE_SOCIALE il 10 gennaio 2012 e avente
ad oggetto la somma di € 67.508,75, pagata in eccesso rispetto all’indennità di TFS a lui effettivamente dovuta.
Detta eccedenza era riconducibile all’errata individuazione della base di calcolo nella retribuzione dirigenziale di fatto percepita, corrispondente alle mansioni espletate dal ricorrente all’epoca di cessazione del rapporto in virtù dell’incarico provvisorio di reggenza del 18 marzo 2002, in luogo di quella di suo formale inquadramento di direttore tributario di terza area, livello economico F5.
Il Tribunale di Varese, nel contraddittorio RAGIONE_SOCIALE parti, con sentenza n. 105/17, ha accolto l’opposizione.
L’RAGIONE_SOCIALE ha proposto appello che la Corte d’appello di Milano, nel contraddittorio RAGIONE_SOCIALE parti, con sentenza n. 1685/2018, ha accolto.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
L’RAGIONE_SOCIALE si è difesa con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973 in quanto, a suo avviso, nella specie avrebbero dovuto trovare applicazione il comma 1 e il comma 2 del citato art. 30 in luogo dell’ultimo comma di tale disposizione e dell’art. 26, comma 6, dello stesso d.P.R.
Preliminarmente occorre individuare le circostanze rilevanti nella presente controversia.
Risulta dalla sentenza di appello, e non è qui contestato, che l’RAGIONE_SOCIALE ha autorizzato il versamento al ricorrente di € 151.425,95 lordi a titolo di TFS il 1° settembre 2005, somma liquidata sulla base della retribuzione dirigenziale da lui percepita in ragione dell’incarico di reggenza provvisoria rivestito al m omento della cessazione del rapporto di lavoro.
Il 31 agosto 2006 l’RAGIONE_SOCIALE, datrice di lavoro del ricorrente, ha aumentato la misura dell’ultima retribuzione lorda percepita, con la conseguenza che l’RAGIONE_SOCIALE ha autorizzato il 16 gennaio 20 07 il versamento di ulteriori € 17.709,04.
Il 14 maggio 2010 l’RAGIONE_SOCIALE ha comunicato all’RAGIONE_SOCIALE la necessità di riliquidare il TFS per errato riferimento, nel precedente calcolo, alla retribuzione dirigenziale in luogo di quella relativa alla qualifica di funzionario, inquadramento formale del ricorrente.
In seguito a quest’ultima comunicazione l’RAGIONE_SOCIALE ha riliquidato il TFS nel minore importo di € 101.626,53 e ha chiesto la restituzione, il 14 giugno 2010, di € 67.508,47.
Quindi, occorre stabilire quale sia la normativa rilevante.
Questa è rappresentata dagli artt. 26 e 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973.
Per l’esattezza, l’art. 30 citato dispone che:
‘ I provvedimenti adottati dall ‘ amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE nelle materie previste dal presente testo unico possono essere revocati, modificati o rettificati d ‘ ufficio quando:
vi sia stato errore di fatto o si sia omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti;
vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell ‘ indennità di buonuscita o dell ‘ assegno vitalizio;
siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento;
il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi.
Nei casi previsti dalle precedenti lettere a) e b) il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione; nei casi previsti dalle lettere c) e d) il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti.
Nel caso previsto dall ‘ art. 26, comma sesto, il provvedimento è revocato, modificato o rettificato nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell ‘ amministrazione statale ‘ .
L’art. 26 prescrive, invece, che:
‘ L ‘ indennità di buonuscita, spettante al dipendente statale e ai superstiti, è liquidata di ufficio.
A tal fine l ‘ amministrazione alla quale il dipendente appartiene o apparteneva trasmette all ‘ amministrazione del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE un progetto di liquidazione, a favore del dipendente stesso o dei suoi superstiti, corredato della copia autentica dello stato di servizio.
In caso di cessazione dal servizio per limite di età, gli atti di cui al comma precedente devono essere predisposti dall ‘ amministrazione competente tre mesi prima ed essere inviati almeno un mese prima del raggiungimento del limite predetto all ‘ amministrazione del RAGIONE_SOCIALE, la quale è tenuta ad emettere il mandato di pagamento in modo da rendere possibile la effettiva corresponsione dell ‘ indennità immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima. Non occorre, in ogni caso, alcuna comunicazione da parte dell ‘ amministrazione statale, alla quale compete soltanto la tempestiva segnalazione dell ‘ eventuale esistenza di motivi ostativi.
Nei casi di cui al comma precedente, ai fini della liquidazione e della corresponsione dell ‘ indennità di buonuscita, non occorre che sia preventivamente perfezionato il provvedimento di cessazione dal servizio.
Nei casi di cessazione dal servizio per qualsiasi altra causa, l ‘ amministrazione statale competente è tenuta a trasmettere all ‘ amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE gli atti di cui al secondo comma nel termine massimo di quindici giorni dalla data di cessazione dal servizio, in modo che l ‘ amministrazione del
RAGIONE_SOCIALE predetto possa eseguire, nei confronti del dipendente statale, la effettiva corresponsione dell ‘ indennità nel più breve tempo possibile e comunque non oltre trenta giorni dalla data di ricezione della documentazione; questo ultimo termine vale anche per la corresponsione dell ‘ indennità di buonuscita ai superstiti del dipendente.
Eventuali modifiche relative a provvedimenti dell ‘ amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l ‘ indennità di buonuscita già erogata, saranno comunicate alla amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, ai fini del pagamento di supplementi dell ‘ indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, RAGIONE_SOCIALE somme non dovute.
Non si fa luogo alla corresponsione di acconti.
Alla riliquidazione dell ‘ indennità di buonuscita e alla liquidazione del supplemento di indennità, previste dall ‘ art. 4, si provvede su domanda degli interessati ‘ .
Il Tribunale di Varese ha ritenuto che la presente vicenda fosse regolata dall’art. 30, comma 2, prima parte, del d.P.R. n. 1032 del 1973, il quale dispone che ‘ Nei casi previsti dalle precedenti lettere a) e b) il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione ‘.
In pratica, essendosi verificato un caso di errore nella determinazione del TFS da parte de ll’amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE , la richiesta di restituzione della somma pagata in eccesso avrebbe dovuto essere avanzata entro un anno dalla data di emanazione del relativo provvedimento, individuata nel 1° settembre 2005 e nel 16 gennaio 2007.
Ne sarebbe conseguito che, essendo avvenuto il recupero dell’importo indebito il 14 giugno 2010, tale recupero sarebbe stato tardivo.
Al contrario, la Corte d’appello di Milano ha stabilito che la fattispecie era regolata dall’art. 26, comma 6, d.P.R. n. 1032 del 1973, per il quale ‘ Eventuali
modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata, saranno comunicate alla amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, ai fini del pagamento di supplementi dell’indenni tà predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, RAGIONE_SOCIALE somme non dovute ‘ .
Il citato art. 26, comma 6, sarebbe stato applicabile in ragione del rinvio allo stesso fatto dall’art. 30, u.c., del d.P.R. n. 1032 del 1973, il quale stabilisce che ‘Nel caso previsto dall’art. 26, comma sesto, il provvedimento è revocato, modificato o rettificato nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale’.
Poiché l’RAGIONE_SOCIALE avrebbe comunicato all’RAGIONE_SOCIALE la necessità di riliquidare il TFS il 14 maggio 2010, la ripetizione dell’ammontare non dovuto, avvenuta il 14 giugno 2010, sarebbe stata tempestiva.
Alla luce di quanto esposto, si ritiene di confermare la decisione di appello.
In primo luogo, depone in tal senso un’interpretazione letterale della normativa, che tenga conto della presenza, nell’art. 30 citato, di un rinvio espresso all’art. 26, comma 6.
Inoltre, l’interpretazione sistematica conduce ad affermare che la ratio del sistema è di porre un termine fisso di un anno, decorrente dall’emanazione del provvedimento da correggere, qualora gli errori di calcolo o di fatto che lo inficiano siano da imputare all’ente che eroga il TFS.
In questo caso, detto ente ha da subito tutti gli elementi per avvedersi del suo errore.
Diversamente, se gli errori de quibus sono dovuti ad inesattezze riferibili ad altre PRAGIONE_SOCIALE., il termine per la revoca non può che essere computato da quando siffatte inesattezze sono rese note all’amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE.
Non a caso, in questa seconda eventualità, il tempo per intervenire è più breve, proprio per evitare una eccessiva dilatazione dello spazio entro il quale il beneficiario può essere destinatario di provvedimenti di recupero.
D’altronde, non può non darsi rilievo alla posizione della PRAGIONE_SOCIALE. che paga la somma da restituire e che, quindi, deve essere messa in condizione di determinarla con piena cognizione di causa.
Pertanto, se l’errore è suo, è giusto che il termine per il recupero decorra immediatamente. Invece, se detto errore è di altra RAGIONE_SOCIALE, è logico che si guardi al momento nel quale l’amministrazione del RAGIONE_SOCIALE riceve le informazioni complete.
Infatti, l’art. 30, comma 2, parte seconda, prescrive , sempre con riguardo alla rettifica in questione, che ‘ nei casi previsti dalle lettere c) e d) il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti ‘.
Le lettere c) e d) concernono, quindi, evenienze nelle quali ‘c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento ‘ o ‘ d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi ‘ e il detto termine è di sessanta giorni, similmente a quanto previsto dall’art. 26, comma 6, atteso che la rettifica avviene perché sono stati acquisiti dei nuovi elementi.
A supporto di questa conclusione depone anche un’interpretazione costituzionalmente orientata RAGIONE_SOCIALE disposizioni citate, ai sensi degli artt. 3 e 97 Cost., che miri a garantire, in maniera ragionevole, da un lato, il buon andamento della PRAGIONE_SOCIALE. e l’efficacia della sua azione, e, dall’altro, l’affidamento di coloro che entrino in contatto con la stessa.
Priva di pregio è la considerazione del ricorrente, per il quale il comma 6 dell’art. 26 andrebbe letto in correlazione con i precedenti commi 4 e 5 nei quali si richiama il provvedimento di cessazione del servizio.
In realtà, è l’art. 30 del d.P.R. n. 1072 del 1973 che richiama espressamente l’art. 26, comma 6, e non i precedenti commi 4 e 5.
Sostiene sempre il ricorrente che l’art. 26, comma 6, si riferirebbe a ‘ provvedimenti ‘ della PRAGIONE_SOCIALE. e che la comunicazione della variazione in esame non avrebbe potuto rientrare fra i ‘provvedimenti’ .
Peraltro, non si comprende per quale ragione tale comunicazione non possa essere qualificata come ‘ provvedimento ‘ , ai fini della normativa in questione,
mentre lo potrebbe essere l’atto con il quale l’amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE determina il TFS e ne dispone il pagamento.
Neanche vi sono elementi, ricavabili dall’art. 26, che possano indurre ad adottare una nozione di ‘ provvedimento ‘ ristretta solo ad alcune categorie di atti, come quelli che incidono direttamente sul rapporto di lavoro.
Infatti, l’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 si riferisce espressamente ai provvedimenti che ‘ comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata’.
In realtà, l’art. 26, nella sua interezza, e il comma 6, in particolare, si riferiscono ad atti concernenti la liquidazione dell’indennità di buonuscita, senza distinguerne la tipologia, ma unificandoli in base all’effetto.
2) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 30 d.P.R. n. 1032 del 1973 e degli artt. 3 e 97 Cost. e 1175, 1366 e 1375 c.c. in quanto il termine di sessanta giorni di cui all’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 avrebbe dovuto essere inteso come ulteriore termine da iscrivere all’interno di quello decadenziale di un anno previsto per la correzione di eventuali errori nel calcolo dell’indennità in esame .
Tale assunto non è condivisibile.
Il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 26, comma 6, risponde alla medesima ratio del termine di sessanta giorni stabilito dall’ art. 30, comma 2, parte seconda, dello stesso d.P.R. il quale si riferisce alle ipotesi che si verificano ‘nei casi previsti dalle lettere c) e d)’ del precedente comma 1.
Le lettere c) e d) concernono evenienze nelle quali ‘c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento’ o ‘d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi’ .
In queste situazioni, il detto termine è di sessanta giorni, similmente a quanto previsto dall’art. 26, comma 6, atteso che la rettifica avviene perché sono stati acquisiti dei nuovi elementi.
Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, sarebbe contrario ai precetti di buona amministrazione, al principio di ragionevolezza e alla buona fede imporre alla RAGIONE_SOCIALE, per il recupero di somme indebitamente versate, un termine di
decadenza breve di un anno come quello di cui all’art. 30, comma 1, d.P.R. n. 1032 del 1973, decorrente dall’emanazione del provvedimento, ove l’erroneità del calcolo non sia dipesa da alcuna colpa della stessa P.A., ma da informazioni errate comunicate da altro ente.
D’altronde, non è dato comprendere per quale ragione sia assegnato alla P.A. un nuovo termine di sessanta giorni per recuperare le somme pagate in eccesso, nell’eventualità di rinvenimento di documenti nuovi dopo la emissione del provvedimento o di provvedimento adottato in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi, decorrente da tale rinvenimento o dalla notizia della falsità, e allo stesso risultato non possa giungers i quando l’esigenza di recuperare sorga da un provvedimento di una diversa amministrazione che sopraggiunga a quello che ha disposto il versamento dell’ammontare in contestazione.
Si tratta, infatti, di situazioni sostanzialmente analoghe, nelle quali l’amministrazione del RAGIONE_SOCIALE previdenziale non è in alcun modo responsabile dell’inesatta liquidazione.
Neppure potrebbe sostenersi che si rischierebbe una dilatazione sine die del termine entro il quale la RAGIONE_SOCIALEA. potrebbe agire, atteso che, allora, la medesima esigenza dovrebbe porsi pure ‘nei casi previsti dalle lettere c) e d)’ del comma 1 dell’art. 30 del d.P.R. n. 1072 del 1973.
Priva di pregio è la considerazione del ricorrente, mutuata da parte della giurisprudenza amministrativa, che il termine di sessanta giorni di cui all’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973 avrebbe dovuto essere inteso come ulteriore termine da iscrivere all’interno di quello decadenziale di un anno previsto per la correzione di eventuali errori nel calcolo dell’indennità in esame .
Non è chiaro , d’altronde, come possa inserirsi all’interno del termine annuale di decadenza ex art. 30, comma 1, d.P.R. n. 1032 del 1973, decorrente dall’emanazione del provvedimento che qui interessa, un ulteriore e più breve termine di decadenza specificamente indicato per una situazione particolare e il cui dies a quo è un evento successivo alla detta emanazione.
La soluzione più ragionevole e più rispondente alla lettera della legge è che il nostro legislatore, nella sua discrezionalità, abbia ritenuto di correggere l’estremo rigore del termine annuale di decadenza di cui all’art. 30, comma 1,
d.P.R. n. 1032 del 1973, che risponde, nella sua brevità e nella sua immediata decorrenza, alla volontà di garantire l’affidamento dei destinatari dei provvedimenti, in alcune particolari situazioni, espressamente indicate, nelle quali circostanze oggettive e indipendenti dalla volontà della PRAGIONE_SOCIALE. erogatrice del trattamento consigliavano di permettere un recupero degli importi entro un lasso di tempo ancora più breve del precedente (appunto sessanta giorni).
3) Con il terzo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 38 d.P.R. n. 1032 del 1973 e 19, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 e 48 CCNL personale dirigente area 1 in quanto l’indennità in esame sarebbe stata da considerare correttamente liquidata, come si sarebbe potuto ricavare anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 2012.
La doglianza è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., in quanto contrasta con la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, alla cui motivazione si rinvia in base all’art. 118 disp. att. c.p.c .
Infatti, Cass., SU, n. 10413 del 14 maggio 2014 (seguita, poi, nella stessa direzione, da Cass., Sez. 6-L, n. 24099 del 24 novembre 2016; Cass., Sez. L, n. 22014 del 3 settembre 2019; Cass., Sez. L, n. 17204 del 15 giugno 2023) ha affermato che, nel regime dell ‘ indennità di buonuscita spettante, ai sensi degli artt. 3 e 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell ‘ esercizio di mansioni superiori in ragione dell ‘ affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell ‘ art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella base di calcolo dell ‘ indennità va considerato lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio RAGIONE_SOCIALE superiori mansioni di dirigente.
Da questa giurisprudenza (che richiama espressamente a suo supporto le sentenze della Corte costituzionale n. 243 del 1993 e n. 278 del 1995) può ricavarsi come non vi sia contrasto con la precedente decisione della Corte costituzionale n. 119 del 2012, citata dal ricorrente, anche perché ‹‹l’ indennità di buonuscita dei dipendenti statali ha funzione retributiva unitamente ad una finalità previdenziale – cfr. Corte cost. n. 87 del 2003 che parla di ‘ natura di
retribuzione differita, ma anche (quanto meno, funzione) previdenziale ed assistenziale ‘ – ma non di meno la sua base di calcolo, quale normativamente definita dal D.P.R. n. 1032 del 1973, artt. 1 e 38, è insensibile a trattamenti economici solo contingenti perché riferibili allo svolgimento di mansioni superiori in posizione di reggenza ›› .
Con il quarto motivo il ricorrente contesta la nullità della sentenza e l’omesso esame di un fatto decisivo con riferimento alla sua richiesta che gli importi eventualmente da restituire fossero considerati al netto dei contributi versati.
La doglianza è fondata in quanto la decisione di appello non motiva in ordine al rapporto fra il documento 9, genericamente richiamato in sentenza, e le richieste contenute nel decreto ingiuntivo opposto, come riportate a pagina 5 della decisione.
D’altronde, è principio generale ormai da tempo acquisito in materia che, in ipotesi di indebito pagamento, l’importo capitale che deve essere preso in considerazione ai fini della restituzione e sul quale computare gli accessori di legge è solo quello effettivamente percepito.
Il ricorrente nella sua memoria conclusiva richiama la giurisprudenza della Corte EDU che ha ravvisato la violazione, da parte di uno Stato membro, dell’art. 1 prot. addiz. CEDU a mente del quale ‘ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto interna zionale’ -in fattispecie in cui l’Ente erogatore aveva proceduto al recupero a carico di lavoratori pubblici di somme corrisposte – ma asseritamente non dovute – a titolo previdenziale e/o retributivo.
In particolare, fa riferimento alla sentenza 11 febbraio 2021, n. 4893/13 (Casarin contro Italia), con la quale la Corte EDU ha accertato, a carico dell’Italia, la violazione dell’articolo indicato, a fronte di una fattispecie in cui una dipendente pubblica era stata condannata a restituire proprio all’RAGIONE_SOCIALE, ex art. 2033 c.c., le retribuzioni indebite percepite a titolo di assegno ad personam .
Egli espone che, a i fini dell’accertamento di tale violazione, i giudici di Strasburgo avrebbero valorizzato:
l’erogazione spontanea degli importi ‘indebiti’ da parte RAGIONE_SOCIALE autorità ;
la provenienza dell’attribuzione da un ente pubblico sulla base di una decisione adottata all’esito di un procedimento, fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione sia percepita dal beneficiario come fonte della prestazione;
la mancanza di un’attribuzione manifestamente priva di titolo o basata su semplici errori materiali;
un’erogazione effettuata in relazione a una attività lavorativa ordinaria e non a una prestazione isolata o occasionale;
la mancata previsione di una clausola di riserva di ripetizione.
Così ragionando, essi avrebbero riconosciuto la sostanziale non ripetibilità RAGIONE_SOCIALE somme corrisposte e un risarcimento, alla lavoratrice ricorrente, pari, innanzi tutto, alla somma ‘indebitamente’ percepita.
Secondo il ricorrente, i detti presupposti ricorrerebbero nella presente controversia, atteso che la liquidazione dell’indennità per cui è causa era stata disposta sua sponte dall’autorità competente , l’erogazione prov eniva da un ente pubblico, non si era in presenza di un’attribuzione manifestamente priva di titolo , nei provvedimenti di liquidazione non vi era alcuna clausola di riserva di ripetizione e la richiesta di restituzione era pervenuta al lavoratore a distanza, rispettivamente, di cinque e tre anni dalla liquidazione, dunque dopo un lasso di tempo tale da ingenerare l’incolpevole affidamento sulla spettanza della somma per cui è causa.
Inoltre, detta richiesta di restituzione implicava un considerevole danno per il ricorrente che doveva provvedere, da solo, al sostentamento proprio e della sua famiglia, oltre a dovere sostenere le spese per il ricovero della suocera.
Queste considerazioni non meritano di essere condivise.
Sul punto, si evidenzia che il ricorrente chiede a questa corte valutazioni di merito che non le competono e che concernono circostanze di fatto che non
risulta siano state dedotte in precedenza e sulle quali non si è svolto il contraddittorio.
In particolare, sono estremamente generiche le allegazioni concernenti il mantenimento del ricorrente e della sua famiglia nonché il ricovero della suocera, trattandosi, peraltro, di eventi non eccezionali e non tali da incidere significativamente, almeno per come dedotti, sul patrimonio del lavoratore.
Il ricorrente, infine, sempre nella sua memoria conclusiva, richiama la sentenza n. 8 del 2023 della Corte costituzionale che, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c. ‘ nella parte in cui non prevede l’irripetibilità dell’indebito previdenziale non pensionistico laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato un legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita’, lo ha fatto in quanto, a suo giudizio, le norme sulla buona fede vigenti nel nostro ordinamento ( in primis gli artt. 1175 e 1337 c.c.) già sono poste a presidio e tutela dei lavoratori percettori di buona fede.
Premesso che la sentenza n. 8 del 2023 della Corte costituzionale non consente al debitore di non pagare il creditore, si rileva che, nella specie, viene in rilievo una richiesta di rimborso che trova il suo titolo nella specifica disciplina di cui al d.P.R. n. 1032 del 1973, che contiene una rigida regolamentazione sostanzialmente favorevole a chi riceve l’indebito pagamento e che, nella specie, ricorre una particolare ipotesi individuata dalla legge nella quale è possibile per la PRAGIONE_SOCIALE. agire entro un termine molto breve per recuperare quanto dato senza titolo.
Il ricorso è accolto limitatamente al quarto motivo, rigettati il primo e il secondo e dichiarato inammissibile il terzo.
La sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa è decisa nel merito ex art. 384, comma 2, c.p.c., con condanna del ricorrente a corrispondere all’RAGIONE_SOCIALE l’importo percepito al netto RAGIONE_SOCIALE ritenute di legge applicate, alla luce del seguente principio di diritto:
‘ Il provvedimento di liquidazione dell’indennità di buonuscita adottato dall ‘ amministrazione del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE può essere revocato, modificato o rettificato dalla stessa nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione del successivo provvedimento con il quale l’amministrazione di appartenenza ricalcoli il TFS del dipendente per errato riferimento, nel precedente conteggio, alla retribuzione dirigenziale in luogo di quella relativa alla qualifica di funzionario di inquadramento formale, trovando applicazione il disposto dell’art. 26, comma 6, del d.P.R. n. 1032 del 1973, come richiamato dal successivo art. 30, u.c., del medesimo d.P.R. ‘.
Le spese di lite di tutto il giudizio sono compensate in ragione della novità della questione trattata.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo e il secondo e dichiarato inammissibile il terzo;
la sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa è decisa nel merito ex art. 384, comma 2, c.p.c., con condanna del ricorrente a corrispondere all’RAGIONE_SOCIALE l’importo percepito al netto RAGIONE_SOCIALE ritenute di legge applicate;
-compensa le spese dell’intero giudizio .
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 5 aprile