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Qualificazione rapporto di lavoro: il caso navigator

La Corte d’Appello ha esaminato la richiesta di un gruppo di lavoratori, noti come ‘navigator’, di veder riconosciuto il loro rapporto di collaborazione come lavoro subordinato. La Corte ha rigettato l’appello, confermando la decisione di primo grado. La motivazione principale si fonda sull’assenza di prova di un effettivo potere direttivo e di controllo da parte del committente, elemento essenziale per la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato. Le direttive impartite sono state considerate mere forme di coordinamento compatibili con un’attività autonoma.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Qualificazione Rapporto di Lavoro: La Sottile Linea tra Collaborazione e Subordinazione

La corretta qualificazione del rapporto di lavoro è una delle questioni più delicate e cruciali del diritto del lavoro. Distinguere tra un contratto di collaborazione autonoma e un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato ha implicazioni enormi in termini di tutele, contributi e diritti. Una recente sentenza della Corte di Appello di Napoli si è pronunciata sul caso emblematico dei cosiddetti ‘navigator’, offrendo chiarimenti fondamentali su quali elementi concreti determinino la natura di un rapporto lavorativo, al di là del nome formale del contratto.

Il Contesto: La Richiesta di Riconoscimento della Subordinazione

Un gruppo di lavoratori, assunti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa per svolgere attività di assistenza tecnica legata a politiche attive del lavoro, si era rivolto al Tribunale per chiedere il riconoscimento della natura subordinata del loro rapporto. Sostenevano che, nei fatti, le modalità di svolgimento della loro attività fossero identiche a quelle di un dipendente, con direttive, controlli e un’organizzazione imposta dal committente. Dopo il rigetto in primo grado, i lavoratori hanno presentato appello, insistendo sulla presenza degli indici tipici della subordinazione.

La Decisione della Corte: Nessuna Prova di Potere Direttivo

La Corte di Appello ha respinto il ricorso, confermando la decisione del Tribunale. Il punto centrale della sentenza è che i lavoratori non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di un vero e proprio potere direttivo da parte della società committente. Secondo i giudici, le istruzioni ricevute, i manuali operativi e le richieste di report periodici non configuravano un esercizio di potere gerarchico, ma rientravano in un’attività di coordinamento necessaria per garantire l’efficacia del servizio, pienamente compatibile con un rapporto di collaborazione autonoma.

Analisi della qualificazione del rapporto di lavoro e il potere direttivo

La Corte ha ribadito un principio consolidato: per aversi subordinazione, non basta un generico coordinamento. È necessario che il datore di lavoro eserciti un potere di conformazione della prestazione, impartendo ordini specifici sulle modalità esecutive, controllando costantemente l’attività e inserendo il lavoratore stabilmente nella propria organizzazione aziendale. Nel caso di specie, è emerso che:

* Flessibilità operativa: I lavoratori godevano di autonomia nell’organizzazione della giornata lavorativa e non erano soggetti a un rigido orario di inizio e fine prestazione.
* Natura delle direttive: Le istruzioni fornite erano principalmente di natura tecnica (uso di piattaforme digitali) o organizzativa (scadenze per la consegna di report), finalizzate al raggiungimento di un risultato, non a un controllo pervasivo sulla persona del lavoratore.
* Assenza di controllo disciplinare: Non è stata provata l’esistenza di un potere disciplinare, tipico del rapporto subordinato.

Etero-organizzazione e Accordi Collettivi

I lavoratori avevano anche invocato, in subordine, la disciplina dell’etero-organizzazione (art. 2, D.Lgs. 81/2015), che estende le tutele del lavoro subordinato a collaborazioni organizzate dal committente. Tuttavia, la Corte ha respinto anche questa tesi. Ha evidenziato che la legge stessa prevedeva delle deroghe in presenza di accordi collettivi nazionali che disciplinassero specificamente il trattamento economico e normativo per determinate collaborazioni. Nel caso in esame, esisteva un accordo quadro nazionale, richiamato nel bando e nei contratti, che forniva un quadro di tutele specifico e che, secondo la Corte, era sufficiente a escludere l’applicazione automatica della disciplina sulla subordinazione.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si basano sulla distinzione tra ‘coordinamento’ e ‘direzione’. Il coordinamento, anche se intenso, è finalizzato a raccordare l’attività del collaboratore con gli obiettivi del committente e non implica di per sé subordinazione. Il potere direttivo, invece, si manifesta attraverso un’ingerenza penetrante e continua nelle modalità di esecuzione della prestazione, che assoggetta il lavoratore alla volontà del datore. La prova testimoniale e documentale, secondo la Corte, ha dimostrato che le attività si svolgevano in un contesto di lavoro agile e per obiettivi, dove le direttive erano finalizzate a monitorare l’avanzamento dei risultati e non a controllare il processo lavorativo minuto per minuto. La qualificazione del rapporto, quindi, non poteva che rimanere quella, autonoma, originariamente pattuita tra le parti, poiché la realtà fattuale non l’aveva smentita.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma che il nomen iuris (il nome dato al contratto) non è decisivo, ma spetta al lavoratore che chiede la riqualificazione fornire la prova rigorosa degli indici della subordinazione. In contesti di lavoro moderno, specialmente quelli da remoto e basati su obiettivi, la linea di demarcazione è sottile. Le aziende possono legittimamente coordinare e monitorare l’attività dei collaboratori senza che ciò si traduca automaticamente in subordinazione. Per i lavoratori, ciò significa che per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro dipendente è necessario dimostrare in modo inequivocabile di essere stati sottoposti a un potere gerarchico che ha annullato la loro autonomia organizzativa.

Un contratto denominato ‘di collaborazione’ può essere considerato di lavoro subordinato?
Sì, il nome del contratto (nomen iuris) non è vincolante per il giudice. Se nella pratica quotidiana il rapporto si svolge con le caratteristiche della subordinazione (in particolare, l’esercizio del potere direttivo da parte del committente), il giudice può riqualificarlo come rapporto di lavoro subordinato.

Qual è l’elemento decisivo per distinguere la collaborazione dal lavoro subordinato secondo la Corte?
L’elemento decisivo è la prova della soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. Non è sufficiente un mero coordinamento sull’attività, ma è necessaria la prova di un’ingerenza pervasiva del committente sulle modalità di esecuzione della prestazione.

Le direttive su scadenze e la richiesta di report sono sufficienti a dimostrare la subordinazione?
No. Secondo la sentenza, queste attività rientrano nel potere di coordinamento del committente, finalizzato a verificare il raggiungimento degli obiettivi e l’efficacia del servizio. Da sole, non sono sufficienti a provare l’esistenza di un potere direttivo e gerarchico tipico del lavoro subordinato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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