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Psicologo in carcere: lavoro autonomo o subordinato?

Una psicologa che lavorava in un istituto penitenziario ha richiesto il riconoscimento del suo rapporto come lavoro subordinato. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13059 del 2024, ha stabilito che si tratta di lavoro autonomo. La Corte ha precisato che gli elementi quali orari concordati, obbligo di comunicazione delle assenze e coordinamento con la direzione non indicano subordinazione, ma sono necessità organizzative e di sicurezza imposte dal peculiare contesto carcerario.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Psicologo in Carcere: Lavoro Autonomo o Subordinato? La Cassazione Fa Chiarezza

La qualificazione del rapporto di lavoro degli esperti che operano all’interno degli istituti penitenziari è un tema complesso e dibattuto. La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 13059 del 13 maggio 2024, offre un chiarimento fondamentale, stabilendo che la prestazione dello psicologo incaricato in carcere rientra nella sfera del lavoro autonomo e non in quella del lavoro subordinato. Questa decisione, che si pone in contrasto con alcuni precedenti, delinea un principio di diritto destinato a orientare la giurisprudenza futura.

I Fatti del Caso: La Richiesta della Psicologa

Una psicologa, che per anni aveva prestato la sua attività professionale presso un complesso carcerario in base a convenzioni stipulate con il Ministero della Giustizia, si è rivolta al tribunale. La sua richiesta era di accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro. A sostegno della sua tesi, ha evidenziato diversi elementi: la necessità di concordare con la direzione presenze, giorni e orari; l’obbligo di giustificare le assenze per ferie, malattia o motivi familiari; la necessità di autorizzazione per essere sostituita da colleghi; l’assegnazione dei casi da trattare e la ricezione di indicazioni sulle modalità di intervento. In sostanza, sosteneva di essere soggetta al potere direttivo e organizzativo tipico del datore di lavoro.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto le sue domande, ritenendo che tali modalità operative non configurassero un vero e proprio vincolo di subordinazione, ma fossero piuttosto riconducibili a un rapporto di natura autonoma, seppur inserito in un contesto particolare come quello carcerario.

La Decisione della Corte di Cassazione sul lavoro autonomo

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della professionista, confermando la natura autonoma del rapporto. La sentenza si basa su un’analisi approfondita del quadro normativo e delle specificità del contesto in cui la prestazione viene svolta.

Il Contesto Normativo: L’Art. 80 dell’Ordinamento Penitenziario

Il punto di partenza dell’analisi della Corte è la legge sull’ordinamento penitenziario (L. 354/1975). L’art. 80, comma 4, prevede espressamente che l’amministrazione penitenziaria possa avvalersi di ‘professionisti esperti’ in varie discipline (psicologia, pedagogia, criminologia, etc.) per le attività di osservazione e trattamento dei detenuti. La norma specifica che a tali professionisti vengono corrisposti ‘onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate’.

Secondo la Corte, questa scelta legislativa indica chiaramente la volontà di instaurare rapporti di lavoro autonomo, distinti da quelli del personale di ruolo. Gli esperti sono liberi professionisti chiamati in convenzione per la loro specifica competenza, al fine di supportare il personale stabile nel percorso rieducativo dei condannati.

L’Analisi degli Indici di Subordinazione nel Contesto Carcerario

Il cuore della motivazione risiede nel modo in cui la Corte interpreta i classici indici della subordinazione (orari, direttive, controllo) alla luce della realtà carceraria. Gli Ermellini, richiamando anche una precedente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 76/2015) relativa alle guardie infermieristiche, hanno affermato che il contesto penitenziario impone per sua natura un elevato livello di coordinamento e controllo.

L’organizzazione del lavoro per turni, l’obbligo di attenersi a direttive impartite dal direttore del carcere e la necessità di comunicare e giustificare le assenze non sono espressione del potere datoriale (eterodirezione), ma rispondono a imperative esigenze di sicurezza, ordine e coordinamento con le complesse attività dell’istituto. Tali vincoli non sminuiscono l’autonomia professionale dello psicologo nella gestione del proprio intervento tecnico, ma servono a integrare la sua attività nel sistema di detenzione in modo sicuro ed efficiente.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che il legislatore ha volutamente creato una figura di professionista esterno per affiancare il personale di ruolo. Questa scelta risponde all’esigenza di flessibilità e di alta specializzazione necessarie per il trattamento rieducativo. Qualificare tale rapporto come subordinato snaturerebbe la volontà della legge.

Inoltre, la Corte ha specificato che le modalità operative contestate dalla ricorrente – come la programmazione degli interventi e la verifica delle presenze – sono pienamente compatibili con un rapporto di lavoro autonomo coordinato. Sono strumenti indispensabili per gestire un’attività complessa all’interno di una struttura che richiede rigore e organizzazione, ma non trasformano il committente in un datore di lavoro subordinato. Il potere di revoca dell’incarico, infine, non è assimilabile al licenziamento, ma è tipico dei rapporti professionali basati sulla fiducia.

Le Conclusioni: Il Principio di Diritto Affermato

Con questa sentenza, la Cassazione stabilisce un importante principio di diritto: ‘il rapporto di lavoro degli psicologi carcerari ex art. 80, comma 4, della I. n. 354/1975 […] è un rapporto di lavoro autonomo’. Le modalità concrete di svolgimento, inclusi turni e direttive organizzative, non integrano indici di subordinazione ma sono espressione del necessario coordinamento con l’attività dell’Amministrazione e con la complessa realtà del carcere. La Corte distingue nettamente questa figura da quella degli psicologi dipendenti di ruolo, che invece esercitano funzioni sanitarie come personale stabile dell’amministrazione. Questa decisione consolida un orientamento giurisprudenziale che valorizza la specificità del contesto lavorativo nell’interpretazione degli indici di subordinazione.

Il rapporto di lavoro di uno psicologo incaricato in un carcere è considerato subordinato?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che si tratta di un rapporto di lavoro autonomo, come previsto dalla specifica normativa (art. 80, comma 4, L. 354/1975) che parla di ‘onorari’ per ‘singole prestazioni’ da parte di ‘professionisti esperti’.

Perché orari fissi, turni e l’obbligo di giustificare le assenze non sono considerati indici di subordinazione in questo caso?
Perché, secondo la Corte, questi elementi non derivano dal potere direttivo del datore di lavoro, ma sono imposti dalle eccezionali esigenze di sicurezza, ordine e coordinamento del contesto carcerario. Sono modalità operative necessarie per integrare l’attività del professionista nel complesso sistema penitenziario.

Qual è la differenza tra gli psicologi dipendenti di ruolo e quelli incaricati ai sensi dell’art. 80 della legge 354/1975?
Gli psicologi dipendenti di ruolo sono personale stabile dell’Amministrazione Penitenziaria, che esercitano funzioni sanitarie all’interno del Dipartimento. Gli psicologi incaricati ex art. 80 sono invece liberi professionisti esterni, chiamati in convenzione per le loro competenze specifiche nelle attività di osservazione e trattamento finalizzate alla rieducazione del condannato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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