Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16147 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 16147 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 4187-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1678/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 23/07/2019 R.G.N. 1432/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/03/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME.
R.G.N. 4187/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 18/03/2025
CC
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Bari ha respinto l’appello della RAGIONE_SOCIALECittà di Bari RAGIONE_SOCIALE confermando la decisone di primo grado che aveva riconosciuto il diritto di NOME COGNOME, infermiere dipendente della società, alla remunerazione come lavoro straordinario delle ore di pronta disponibilità eccedenti l’orario normale di lavoro, quest’ultimo calcolato come comprensivo anche delle ore di assenza per ferie e per malattia, ed aveva condannato la datrice di lavoro al pagamento della somma indicata in dispositivo, oltre accessori di legge, per il periodo dal 2002 al 2008.
La Corte territoriale ha preliminarmente respinto la censura della società per la omessa pronuncia del tribunale sull’eccezione, dalla stessa sollevata nella memoria di costituzione in primo grado, riguardo alla carenza di allegazioni e prove nel ricorso introduttivo del lavoratore; nel merito, ha premesso che l’art. 60 del contratto collettivo Sanità privata 2002-2005 prevede la possibilità che il lavoratore sia chiamato a svolgere, in aggiunta al normale orario di lavoro, turni di pronta disponibilità, durante i quali ha l’obbligo di essere reperibile e, in caso di chiamata, di raggiungere il presidio nel più breve tempo possibile; ha osservato che, mentre nel caso di pronta disponibilità ‘in attesa’ è prevista solo una specifica indennità di pronta disponibilità per il disagio, nel caso di chiamata effettiva l’attività espletata deve essere computata come lavoro straordinario, a meno che l’interessato non formuli una specifica richiesta di compensazione con recuperi orari; ha dato atto del criterio di calcolo applicato dalla società, secondo cui il turno di pronta disponibilità può costituire attività di lavoro
straordinario, da compensare come tale, solo se il dipendente abbia effettivamente già prestato attività di lavoro per l’intero orario ordinario di lavoro settimanale; al contrario, se durante la settimana il dipendente non ha esaurito l’intero orario ordinario, perché in ipotesi assente per malattia ferie o permessi, la prestazione resa in pronta disponibilità, sino alla concorrenza dell’orario ordinario, va compensata con la retribuzione ordinaria; ha ritenuto non corretta la lettura e l’applicazione dell’articolo 60 c.c.n.l. come eseguite dalla società, rilevando che il lavoratore legittimamente assente dal lavoro per il godimento di istituti normativi o contrattuali non assume alcun debito sul monte ore di lavoro da rendere, con la conseguenza che le ore di lavoro aggiuntive in ‘pronta disponibilità’ dovranno essere compensate come lavoro straordinario o comunque eccedente il limite orario ordinario.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALECittà di Bari RAGIONE_SOCIALE con otto motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per motivazione apparente e meramente assertiva sugli snodi essenziali del ragionamento che sorreggono il decisum nonché sulla ‘scarsa pertinenza’ dell’apparato normativo e contrattuale invocato dalla società.
Con il secondo motivo le medesime censure sono formulate quale violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Con il terzo motivo si addebita alla sentenza d’appello la violazione o falsa applicazione dell’art. 60 del c.c.n.l. AOIS ARIS Fondazione Don COGNOME per il personale non medico delle strutture sanitarie private 20022005 e dell’art. 1362 c.c., in rel azione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. La società ricorrente critica l’interpretazione data dai giudici di merito in quanto basata sul solo dato letterale e priva delle necessarie indagini sull’effettiva volontà delle parti contraenti e ribadisce la correttezza del criterio di calcolo applicato, assumendone la coerenza con la natura della maggiorazione per lavoro straordinario, che è quella di remunerare la gravosità del lavoro svolto oltre l’orario normale, in cui non vanno computate le assenze per ferie, malattia, permessi.
Con il quarto motivo (erroneamente numerato come II) si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 60 del c.c.n.l. AOIS -ARIS, degli artt. 1, 4 e 6 d.lgs. 66 del 2003 e degli artt. 2107 e 2108 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. La ricorrente analizza le disposizioni del d.lgs. 66 del 2003, oltre che del regio decreto n. 692 del 1923 e del codice civile per affermare come l’ordinamento definisca l’orario di lavoro sempre in termini di effettività, correlata alla concreta esecuzione della prestazione di lavoro ed assume di avere interpretato l’art. 60 del c.c.n.l. in coerenza con tale cornice normativa.
Con il quinto motivo di ricorso (rubricato come III) si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 59 e 60 del c.c.n.l. AOIS -ARIS, e dell’art. 1363 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Si afferma che una lettura coordinata
delle citate disposizioni contrattuali conferma la tesi esposta, della definizione normativa dell’orario normale e straordinario nell’accezione di lavoro effettivo in coerenza con la funzione della maggiorazione per il lavoro straordinario come diretta a compensare la accentuata gravosità della prestazione resa oltre l’orario normale.
Con il sesto motivo (rubricato come IV) si denuncia la nullità della sentenza nella parte in cui la Corte d’appello, esaminando il vizio di omessa pronuncia (del tribunale) sull’eccezione (sollevata dalla società) di nullità del ricorso introduttivo della lite per mancato rispetto degli oneri di allegazione e prova di cui all’art. 414 c.p.c., ha statuito che il mancato esame di una questione solo processuale non dà luogo ad omessa pronuncia e non può assurgere a causa autonoma di nullità della sentenza. La ricorrente trascrive (p. 27 del ricorso per cassazione) il motivo di appello sul punto ed evidenzia come la questione posta non aveva natura meramente processuale ma coinvolgeva i presupposti sostanziali della pretesa; sottolinea come il lavoratore, pur assumendo lo svolgimento di turni di pronta disponibilità oltre l’orario ordinario, non ave va allegato e specificato il proprio orario di lavoro ordinario settimanale e la relativa articolazione e che la Corte d’appello ha considerato pacifico un dato fat tuale (l’espletamento della pronta disponibilità oltre l’orario ordinario) non allegato e non provato.
Con il settimo motivo (rubricato come V) la medesima censura è formulata come violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 2 c.p.c.
Con l’ottavo motivo (rubricato come VI) si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per la disposta condanna della società soccombente alla rifusione delle
spese di lite sebbene la assoluta novità della questione giustificasse la loro compensazione.
I primi cinque motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente perché pongono, sia pure da diversi angoli di visuale, la medesima questione giuridica che ruota attorno all’interpretazione dell’art. 60 del c.c.n.l. AOIS –RAGIONE_SOCIALE Fondazione COGNOME per il personale non medico delle strutture sanitarie private 2002-2005 e concerne le modalità di calcolo della retribuzione delle ore di lavoro prestate dal dipendente in pronta disponibilità. Più esattamente, occorre stabilire se la remunerazione come lavoro straordinario delle ore di lavoro effettuate in pronta disponibilità, prevista dal contratto collettivo, sia dovuta in ogni caso in cui la prestazione così resa superi l’orario normale di lavoro inteso come debito orario oppure soltanto qualora l ‘orario normale sia superato in ragione di prestazioni effettivamente eseguite, dovendosi escludere dal computo orario le assenze per ferie, malattia e permessi.
L’art. 2 della direttiva 93/104/CE, modificata dalla direttiva 2000/34/CE e poi codificata dalla direttiva 2003/88/CE, definisce orario di lavoro «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali» e periodo di riposo «qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro». La stessa definizione è ripetuta dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 66 del 2003.
Come precisato in più occasioni dalla Corte di Giustizia, le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo», ai sensi della direttiva 2003/88, costituiscono nozioni di diritto dell’Unione che occorre definire secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alla finalità di tale direttiva,
intesa a stabilire prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti.
La Corte europea adotta un approccio decisamente binario: il tempo del lavoratore è lavoro o è riposo e le due nozioni di orario di lavoro e periodo di riposo si escludono a vicenda.
Nell’occuparsi dei periodo di guardia, la Corte di Giustizia, fin dalle prime pronunce (sentenza del 3.10.2000 in causa C303/98), ha distinto il servizio di guardia svolto secondo un regime di presenza fisica sul luogo di lavoro da quello eseguito secondo un sistema di reperibilità che non obbliga il medico ad essere presente nel luogo di lavoro.
Ha ritenuto integrati gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro» nel primo caso poiché configura «esercizio delle funzioni» l’obbligo di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la propria opera; diversamente, nel caso in cui il servizio di guardia non si svolga secondo un regime di presenza fisica sul luogo di lavoro, si è considerato «orario di lavoro» solo il tempo di prestazione effettiva del servizio poiché, in tal caso, il dipendente, pur essendo a disposizione del datore di lavoro -in quanto deve essere raggiungibile -può gestire il suo tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi (v. sentenza 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02, EU:C:2003:437; sentenza 5 ottobre 2004, Pfeiffer, C-397/01 e C-403/01; sentenza 1° dicembre 2005, Dellas, C-14/04; sentenza 9 marzo 2021 C-580/19).
Con successive pronunce (sentenza 21.02.2018, Ville De Nivelles, C-518/2015), la CGUE ha esteso la nozione di «orario di lavoro» ai servizi di reperibilità eseguiti dal lavoratore presso il proprio domicilio, distinguendo la posizione del lavoratore che deve, durante le ore di guardia, essere semplicemente a disposizione del datore di lavoro affinché quest’ultimo possa
contattarlo, da quella in cui il lavoratore sia tenuto «a passare il periodo di guardia nel suo domicilio, a tenersi a disposizione del datore di lavoro ed essere in grado di raggiungere il luogo di lavoro entro otto minuti» (sentenza citata, punto 65). Ha affermato che in tali condizioni le ore di guardia costituiscono «orario di lavoro» poiché i vincoli imposti al lavoratore sono di natura tale da limitare molto fortemente le possibilità di svolgere altre attività.
Tale approdo binario di origine europea è stato fatto proprio da questa Corte in più pronunce. In particolare, sul regime di pronta disponibilità dei dirigenti medici (Cass. n. 34125 del 2019), si è specificato che, alla stregua del criterio di cui alla direttiva 2003/88/CE in base all’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 10 settembre 2015, causa C-266/14), secondo cui non costituisce “orario di lavoro” il tempo in cui il lavoratore può liberamente dedicarsi alla cura dei propri interessi personali e sociali, il servizio di pronta disponibilità prestato dal dirigente medico in giorno festivo, ai sensi dell’art. 20 del c.c.n.l. del 5 dicembre 1996 e dell’art. 17 del c.c.n.l. del 3 novembre 2005, obbliga l’azienda sanitaria alla concessione del riposo compensativo, indipendentemente dalla domanda del lavoratore, là dove limiti in modo oggettivo la possibilità del dirigente medico di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali, in relazione al vincolo derivante, da un punto di vista geografico e temporale, dalla disciplina aziendale sull’obbligo di essere fisicamente presente nel luogo di lavoro (v. anche Cass. n. 30301 del 2021 sul servizio di “reperibilità speciale” prestato da un dipendente dell’Enel; Cass. n. 32418 del 2023 sui vigili del fuoco addetti ai servizi antincendio e dipendenti della base USA di stanza a Napoli).
Richiamati i principi affermati dalle sentenze della CGUE, non può esservi dubbio, in relazione al caso di specie, che costituisca orario di lavoro l’attività resa dal dipendente in servizio di pronta disponibilità chiamato a rendere effettivamente la prestazione.
11. Sugli aspetti retributivi, la CGUE (sentenza del 9 marzo 2021 in causa C580/19, cit.) ha ricordato (§ 56) che ‘eccezion fatta per l’ipotesi particolare di ferie annuali retribuite, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, quest’ult ima si limita a disciplinare taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di garantire la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, cosicché, in linea di principio, essa non si applica alla retribuzione dei lavoratori ‘. Pertanto (§ 57) ‘la modalità di retribuzione dei lavoratori per i periodi di guardia rientra nell’ambito non della direttiva 2003/88, bensì di quello delle disposizioni pertinenti di diritto nazionale. Suddetta direttiva non osta di conseguenza all’applicazione della disciplina di uno Stato membro, di un contratto collettivo di lavoro o di una decisione di un datore di lavoro il quale, ai fini della retribuzione di un servizio di guardia, prenda in considerazione in modo differente i periodi nel corso dei quali sono state realmente effettuate prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non è stato realizzato nessun lavoro effettivo, anche quando i periodi in parola devono essere considerati, nella loro integralità, come «orario di lavoro» ai fini dell’applicazione della summenzionata direttiva’ (vedi anche, negli identici termini, CGUE -Grande Sezione – sentenza 15 luglio 2021 in causa C- 742/19, B. K. contro Republika Slovenija (Ministrstvo za obrambo).
12. Ai fini di causa, l’art. 60 del c.c.n.l. per il personale dipendente non dirigenziale delle strutture sanitarie associate all’Aiop, all’Aris e alla Fondazione Don Carlo COGNOME 2002 -2005 prevede che il servizio di pronta disponibilità ‘è caratterizzato dalla immediata reperibilità del dipendente e dall’obbligo per lo stesso di raggiungere il presidio nel più breve tempo possibile dalla chiamata, secondo intese da definirsi in sede locale’; tale servizio ‘di norma va limitato a periodi al di fuori del normale orario di lavoro programmato, ha durata di 12 ore e dà diritto ad un co mpenso di 21,69 € lorde per ogni 12 ore’; ‘in caso di chiamata, l’attività prestata viene computata come lavoro supplementare o straordinario, o compensata con recupero orario in relazione alle esigenze di servizio e a richiesta dell’interessato’.
La disposizione contrattuale disciplina le diverse ipotesi che possono verificarsi nel caso in cui al dipendente sia richiesto di garantire la pronta disponibilità, giacché quest’ultima, che si risolve in un obbligo di attesa della eventuale chiamata, può esaurirsi nel mero rispetto di detto obbligo, senza che a tale disponibilità segua un effettiva prestazione di servizio (cosiddetta reperibilità passiva), o può dare luogo alla prestazione lavorativa, nei casi in cui si verifichi la effettiva chiamata, a seguito della quale il dipendente raggiunga il posto di lavoro (cosiddetta reperibilità attiva).
In particolare, l’art. 60 cit. contempla una specifica indennità ove il lavoratore presti servizio di pronta disponibilità ‘in attesa’ e stabilisce, per il caso di chiamata e quindi di effettiva prestazione di lavoro, che questo sia considerato lavoro straordinario, salvo richiesta di compensazione con recupero orario.
Tale norma contrattuale disciplina il trattamento economico spettante per le ore di effettiva prestazione rese a seguito del servizio di pronta disponibilità e prevede una maggiorazione giustificata dalla gravosità della prestazione, che ‘di norma’ si aggiunge al normale orario di lavoro programmato.
Dal punto di vista sistematico, occorre considerare che il decreto legislativo n. 66 del 2003, all’art. 1, lett. c) definisce lavoro straordinario quello ‘prestato oltre l’orario normale di lavoro così come definito all’art. 3’ e quest’ultima disposizione fissa in 40 ore settimanali ‘l’orario normale di lavoro’. Il successivo art. 4 demanda ai contratti collettivi di stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro con la prescrizione, posta dal secondo comma, per cui ‘la durata media dell’orar io di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario’.
Le nozioni legali di orario normale e straordinario di lavoro fanno riferimento ad un dato numerico, in cui si condensa il debito orario del lavoratore dipendente; questo debito orario si considera adempiuto sia a fronte della concreta esecuzione della prestazione e sia in presenza di legittime cause di sospensione dell’obbligo di prestazione, come nel caso di godimento delle ferie o di assenze per malattia. Il rilievo costituzionale dei diritti a cui si collegano le citate cause di sospensione dell’obbligo di prestazione impone di equiparare le relative assenze all’adempimento della prestazione, ai fini dell’assolvimento del debito orario, altrimenti vanificandosi le finalità di tutela poste a base del riconoscimento del diritto alle ferie e, più in generale, del diritto alla protezione del bene salute.
Conclusioni di diverso contenuto non possono ricavarsi, come invece pretende la società ricorrente, dall’art. 6, del d.lgs. n. 66
del 2003, che esclude ‘i periodi di ferie annue e i periodi di assenza per malattia’ solo ‘ai fini del computo della media di cui all’articolo 4’, cioè della durata media settimanale, e non ai fini dell’orario normale di lavoro stabilito dall’art. 3, tenut o conto delle diverse finalità della disciplina dettata dalle due disposizioni (art. 3 e 4).
La durata media settimanale, poiché prevista dall’art. 4 in funzione di un limite massimo di 48 ore di lavoro che non può ‘in ogni caso’ essere superato, deve essere calcolata in relazione all’attività effettivamente prestata; ciò comporta che il segmento temporale di riferimento, ai fini del calcolo della media settimanale, deve essere epurato dai periodi di sospensione della prestazione e, specificamente, dalle assenze per ferie e per malattia e che di queste non deve tenersi conto nel computo del tempo di lavoro eseguito. Nel calcolo della media settimanale, le assenze per ferie e malattia devono essere neutralizzate in maniera da conseguire la prova del superamento o meno, in base alle concrete ore di lavoro prestate, del tetto massimo di 48 ore su sette giorni.
L’espresso richiamo fatto dall’art. 6 all’art. 4, e non all’art. 3, induce a ritenere, contrariamente all’assunto di parte ricorrente, come i periodi di assenze per ferie o malattia non possano considerarsi neutri rispetto al computo dell’orario normale di lavoro, coincidente con le 40 ore settimanali (o con le minori ore previste dai contratti collettivi) e il cui superamento dà luogo allo straordinario, ma concorrono a riempire il debito orario in base ad una sorta di fictio iuris (non essendo il lavoratore in quei giorni ‘a disposizione del datore e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni’) imposta dalla ratio su cui si fondano i diritti, costituzionalmente e comunitariamente tutelati, al riposo e alla protezione della salute.
Alla luce di tali premesse, l’interpretazione data dalla Corte d’appello all’art. 60 del contratto collettivo risulta assolutamente coerente con le previsioni normative e con i principi di diritto richiamati e si sottrae ai denunciati vizi di violazione di legge, là dove è la tesi propugnata dalla società ricorrente che pretende di trattare le assenze per ferie o malattia come forme di inadempimento, non idonee ad estinguere l’obbligo temporale della prestazione, così da estendere l’orario normale di lavoro oltre il confine di legge e comprimere lo spazio del lavoro straordinario e dei connessi oneri retributivi datoriali, con l’ulteriore effetto di mortificare le finalità di tutela della salute psicofisica del lavoratore e dei diritti fondamentali connessi al tempo di non lavoro.
Il sesto e il settimo motivo, esaminabili congiuntamente per connessione logica, sono parimenti infondati.
Non vi è spazio per ritenere integrato il vizio di cui all’art. 112 c.p.c. Anzitutto, perché il mancato esame da parte del giudice, sollecitato dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronuncia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito (Cass. n. 26913 del 2024; n. 6174 del 2018; n. 321 del 2016). Inoltre, perché la Corte territoriale si è espressamente pronunciata sulla questione posta col motivo di appello ed ha ritenuto infondata l’eccezione della società sul difetto di allegazioni e prove da parte del lavoratore., evidenziando come il lavoratore avesse allegato i fatti costitutivi in modo idoneo a consentire l’esercizio del diritto di difesa della società, diritto compiutamente svolto. La critica ora mossa investe null’altro che l’interpretazione degli atti processuali di primo grado, neanche trascritti, neppure pure per estratto, o localizzati, in violazione delle prescrizioni imposte dall’art. 366 n. 6 c.p.c., e senza che sia f atto alcun riferimento
alla violazione di specifici canoni ermeneutici. Per il resto, le critiche investono la valutazione della Corte d’appello sulla adeguatezza delle prove rispetto ai fatti allegati e sono come tali inammissibili in ragione della disciplina cd. della doppia c onforme di merito, di cui all’art. 348 ter c.p.c., ora art. 360, quarto comma, c.p.c.
L’ultimo motivo di ricorso è inammissibile poiché, con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza r eciproca, quanto nelle altre ipotesi previste dall’art. 92 c.p.c., sia provvedere alla loro quantificazione, salvo il rispetto dei parametri minimi e massimi stabiliti dalle tabelle vigenti (cfr. Cass. n. 19613 del 2017; n. 8421 del 2017; Sez. 6 n. 24502 del 2017; n. 4782 del 2020).
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del
2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 1.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese
forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. NOME COGNOME antistatario. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 18 marzo 2025