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Processo penale e licenziamento disciplinare

La sentenza conferma il principio di diritto secondo cui il datore di lavoro può attendere la definizione del processo penale prima di avviare un procedimento disciplinare a carico del dipendente, in presenza di un fatto di rilevanza penale estraneo al rapporto di lavoro, soprattutto quando questo sia di difficile accertamento e la norma collettiva ancori il licenziamento alla condanna definitiva.

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Pubblicato il 14 aprile 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE CIVILE In funzione di Giudice del Lavoro, composta dai magistrati NOME COGNOME PRESIDENTE RELATRICE NOME COGNOME CONSIGLIERA NOME COGNOME CONSIGLIERA in esito all’udienza del 12 febbraio 2025, sostituita dal deposito di note scritte ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c, ha pronunciato la seguente

SENTENZA N._58_2025_- N._R.G._00000261_2024 DEL_04_04_2025 PUBBLICATA_IL_04_04_2025

nel reclamo ex art. 1, comma 58 l. 92-2012, in materia di lavoro iscritto al n. 261 di R.G. dell’anno 2024, proposto da:

, elettivamente domiciliato in Cagliari presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale su allegato foglio separato RECLAMANTE-APPELLANTE CONTRO in persona del legale rappresentante pro tempore, dott.ssa , con sede in Cagliari, ivi elettivamente domiciliato, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende, in virtù di procura speciale alle liti in calce alla memoria difensiva RECLAMATO-APPELLATO

Conclusioni:

Per la parte reclamante:

“voglia l’Ill.ma Corte d’Appello intestata –in funzione di Giudice del lavoro- rigettata ogni contraria istanza:

– Annullare e/o riformare, per i motivi su esposti, la sentenza n. 1188/2024 resa dal Tribunale Ordinario di Cagliari, Sezione Lavoro, a definizione del giudizio iscritto al n. 2143/2021 RACL e, per l’effetto, accogliere la domanda originaria, nei termini invocati sin dal ricorso introduttivo.

Vinte le spese”.

Per la parte reclamata:

“1) Rigettare, per le ragioni di cui alla superiore narrativa, il ricorso proposto dal signor e per l’effetto confermare la sentenza n. n. 1188/2024, emessa in data 6 settembre 2024 dal Giudice del Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, mandando assolto il convenuto da ogni avversa pretesa;

2) Con vittoria di spese e onorari del giudizio”.

Svolgimento del processo con ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, c. 42 e ss. della l. n. 92/2012, introducendo la fase sommaria, aveva allegato di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze del Consorzio Industriale Direttore Generale del Consorzio in data 31.08.2020, in esito alla contestazione di addebiti che l’aveva preceduta, con la quale era stata censurata la sua condotta extralavorativa, siccome integrante il reato di favoreggiamento personale nei confronti di sottoposti ad indagine preliminare per i delitti di cui agli artt. 12 quinquies Dl n. 306/1992, 73 e 74 DPR 309/1990. Più precisamente, con lettera raccomandata prot. NUMERO_DOCUMENTO, consegnata a mani il 10.08.2020, gli era stato contestato il seguente illecito disciplinare:

“Con lettera in data 20/07/2020, il *** le chiedeva informazioni in merito agli sviluppi del procedimento penale originariamente promosso nei suoi confronti per i reati di riciclaggio e favoreggiamento personale.

In particolare, la richiesta era volta a conoscere se la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari-Prima Sezione Penale, il cui dispositivo era stato da Lei trasmesso al *** in data 2 febbraio 2018, fosse o meno passata in giudicato o se il procedimento sia ancora pendente oppure se, dal febbraio 2018, siano state emesse ulteriori sentenze”.

L’ultimo aggiornamento che lei ci aveva inviato, infatti, era proprio la lettera in data 2 febbraio 2018, benché, informalmente, lei ci avesse comunicato di aver presentato ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza.

Tale richiesta di informazioni era riscontrata dal suo legale, avvocato NOME COGNOME che, il 4 agosto 2020, comunicava “il procedimento penale è stato definito con sentenza passata in giudicato”.

Il ***, preso atto di quanto comunicato le chiedeva copia della sentenza definitiva per verificare l’esito del procedimento penale.

Tale richiesta era riscontrata dal suo legale esclusivamente per domandare la ragione per la quale il suo datore di lavoro chiedeva copia della sentenza che aveva definito il giudizio.

Orbene, è evidente come tale richiesta non fosse dettata da un interesse per una questione meramente personale ma dalla necessità di verificare se i gravi fatti contestati fossero stati confermati nel procedimento penale al fine di valutare la rilevanza disciplinare degli stessi.

Il suo rifiuto di trasmettere immediatamente alla scrivente la sentenza passata in giudicato evidenzia, quindi, una palese violazione delle più elementari regole di diligenza, correttezza e buona fede che deve caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato.

In ogni caso, preso atto del suo rifiuto, con le informazioni in nostro possesso, abbiamo effettuato una ricerca e, nella pagina web ..

abbiamo trovato la sentenza della Corte di Cassazione n. 40531 depositata in cancelleria il 3 ottobre 2019, che ha definito i ricorsi avverso la sentenza del 11/07/2017 della Corte di Appello di Cagliari.

La predetta sentenza della Suprema Corte nel rigettare il suo ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari dell’11 luglio 2017 ha confermato, definitivamente, la sua responsabilità per il reato di favoreggiamento personale, condannandola a otto mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale.

Tale circostanza, tenuto conto della particolare gravità del reato anche in relazione alle mansioni da Lei espletate ed alla posizione ricoperta azienda, è idonea a giustificare l’avvio del procedimento disciplinare.

Il favoreggiamento personale nell’ambito di un reato che desta particolare allarme sociale, quello del traffico di sostanze stupefacenti, è comportamento idoneo a ledere la figura morale del lavoratore.

Con la presente, pertanto, le contestiamo la condanna ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato per una azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro che lede la figura morale del lavoratore, il fatto di essersi reso responsabile del reato di favoreggiamento, nonché di aver taciuto tale condanna all’Ente.

Alla luce di quanto sopra, si invita la S.V. a far pervenire, entro e non oltre dieci giorni dal ricevimento della presente, le sue giustificazioni scritte..

del rapporto di lavoro in essere, anche alla luce delle previsioni del CCNL operante nella specie, tanto da giustificare la sanzione espulsiva, adottata con nota prot. 6113 del 31.08.2020, con cui gli era stato intimato il licenziamento per giusta causa.

Per tutelare le proprie ragioni aveva quindi dovuto adire il giudice del lavoro del Tribunale di Cagliari per domandare l’accertamento della nullità e/o invalidità del licenziamento, con condanna di controparte alla sua immediata reintegrazione ed al risarcimento dei danni.

A sostegno delle proprie ragioni, dopo avere premesso di ritenere il Consorzio una pubblica amministrazione ai sensi della legge regionale sarda n. 10/2008 e dell’art. 31 del D.lg. n. 267/2000, aveva lamentato quanto segue:

– il provvedimento espulsivo, disposto dal direttore generale dell’ente, era nullo, essendo stato adottato da un organo incompetente, spettando per statuto e regolamento tale prerogativa al Presidente del Consiglio di Amministrazione, in qualità di rappresentante legale del Consorzio;

– il fatto contestato non rientrava, ai sensi del CCNL operante nella specie, tra le fattispecie sanzionate con il licenziamento, potendo al più integrare un illecito meritevole di una sanzione conservativa, poiché la condanna da lui riportata si riferiva al solo reato di favoreggiamento personale, peraltro derivante da un comportamento imprudente, e come tale “disancorato” dal reato presupposto, ossia produzione, traffico, detenzione illegale di sostanze stupefacenti, “inesistente” come sancito dal Supremo Collegio penale, dunque inidoneo a ledere la personalità e la integrità morale del lavoratore; – il datore di lavoro era incorso in decadenza per aver contestato gli addebiti ed avviato il relativo procedimento disciplinare tardivamente (anni dopo), rispetto al momento in cui era conoscibile la condotta ritenuta meritevole della massima sanzione disciplinare, in violazione dell’art. 7 l. n. 300/1970, tutelata dal novellato art. 18, commi 5 e 6, l. n. 300/1970.

Sotto altro profilo, aveva dedotto che il direttore generale del consorzio aveva posto in essere un comportamento persecutorio e violento nei suoi confronti, per aver richiesto copia del certificato del casellario giudiziario e, inoltre, per aver diffuso una circolare indirizzata al personale, con la quale si rendeva pubblica la notizia del suo avvenuto licenziamento “per giusta causa” ed aveva perciò domandato la condanna di controparte al ristoro del danno non patrimoniale causato da tale comportamento.

Il Consorzio si era costituito e aveva contestato in fatto e in diritto le istanze avverse, sostenendo che era reso responsabile di una condotta per la quale aveva riportato una condanna definitiva ad otto mesi di reclusione per il reato di favoreggiamento personale, tanto più grave in quanto posto in essere per aiutare un soggetto condannato per traffico di sostanze stupefacenti ad eludere le investigazioni dell’autorità e che tale condotta extralavorativa, rilevante sotto il profilo disciplinare, in quanto gravemente lesiva della sua figura morale, rientrava nell’ipotesi di licenziamento per giusta causa senza preavviso, prevista dall’art 62 bis del CCNL vigente. A ciò si era aggiunto il comportamento non corretto dal medesimo tenuto nei confronti dell’ente, consistito procedimento disciplinare era stato, quindi, correttamente espletato, sia nel rispetto delle competenze attribuite al direttore generale dallo statuto e dal regolamento adottati, sia sotto il profilo del principio dell’immediatezza della contestazione.

Il consorzio aveva, peraltro, contestato la natura di pubblica amministrazione attribuitagli dal ricorrente, rientrando tra gli enti pubblici economici ai sensi dell’art. 36, comma 4, della l. n. 317/1991, non senza evidenziare come non avrebbe comunque giovato a il riconoscimento dell’eventuale natura pubblicistica del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, che avrebbe comportato la necessità di un mutamento del rito (la legge Fornero non era applicabile ai pubblici dipendenti) e l’applicazione della disciplina dell’art. 63 D. lg. n. 165/2001, come modificato dal D. lg. n. 75/2017, che aveva introdotto un limite di ventiquattro mensilità alla tutela indennitaria conseguente alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Il giudice della fase sommaria, istruita la causa con le produzioni documentali, con ordinanza n. 2618, in data 2/8/2021, aveva dichiarato “in parte inammissibile e per il resto infondato il ricorso nei termini di cui in motivazione”, escludendo l’incompetenza del direttore generale all’adozione della sanzione espulsiva, avendo l’ente agito in conformità al regolamento per l’organizzazione degli uffici e dei servizi, restando in ogni caso indifferente la natura di pubblica amministrazione del consorzio.

Nel merito, il giudicante, aveva ritenuto che la condanna, ormai passata in giudicato, di non potesse essere liquidata come una semplice condotta imprudente, rivestendo al contrario una particolare gravità in ragione del ruolo dal medesimo svolto in seno al consorzio dove si era occupato, in posizione di rilievo e visibilità, di supportare il responsabile del servizio affari legali anche nei rapporti con soggetti esterni.

La determinazione del consorzio di intimare il recesso doveva ritenersi, infatti, immune da vizi, in quanto rispettosa della previsione dell’art. 62 bis del CCNL, sul quale era fondato il licenziamento, essendo riferita la condanna al rilascio da parte di di dichiarazioni concordate con gli autori di gravi delitti, finalizzate allo scopo, peraltro non raggiunto, di preservarli dall’attività investigativa in corso nei loro confronti, ovvero ad una condotta esecrabile in sé ed ancor più censurabile ove posta in essere da un appartenente all’ordine forense, qual era , qualità che avrebbe richiesto una condotta irreprensibile, vulnerata certamente dal delitto ascrittogli. Si trattava in ogni caso di comportamento inconciliabile con la prosecuzione del rapporto di lavoro anche in ragione dell’affidamento che l’ente aveva riposto sul suo operato, solo a voler considerare che la condotta ascrittagli aveva reso evidente che intratteneva rapporti di particolare vicinanza con soggetti dediti al traffico internazionale di stupefacenti.

Il giudice della fase sommaria aveva poi ritenuto tempestivo il licenziamento, perché adottato nel rispetto dell’insegnamento della Suprema Corte secondo cui la tempestività va intesa in senso relativo, ossia contestualizzato rispetto alla singola vicenda in disamina, ritenendo provato in capo al consorzio un contegno rispettoso dei diritti difensivi, realizzato attraverso una ponderata e responsabile valutazione dei fatti prima della contestazione, laddove invece aveva palesato una condotta non pienamente ispirata alla buona ascritte e dell’esito del relativo vaglio processuale nei diversi gradi del giudizio, deponendo in tal senso un adeguato esame della sequenza delle richieste avanzate dal consorzio e delle risposte offerte da Ed infatti solamente con l’accesso al sito istituzionale della Corte di Cassazione il resistente era venuto a conoscenza del contenuto della condanna definitiva dal medesimo riportata, riferita ad una condotta menzognera, siccome concordata con altri imputati e finalizzata a favorirli eludendo le investigazioni in corso, tenuta durante le indagini preliminari. Correttamente, pertanto, aveva concluso il giudicante, il consorzio si era risolto ad attivare il procedimento disciplinare solamente nel momento in cui il fatto reato era stato accertato con sentenza irrevocabile, elemento peraltro necessario secondo l’accordo collettivo operante nella specie per procedere in via disciplinare relativamente all’addebito contestato, non potendosi neppure pretendere, a fronte della complessità delle vicende che lo avevano visto coinvolto in sede penale, che l’ente potesse procedere autonomamente a sanzionare siffatto consegno in presenza di elementi di conoscenza di difficile inquadramento. Dichiarata poi inammissibile la pretesa risarcitoria, in quanto fondata su fatti costitutivi differenti da quelli posti a fondamento del recesso, il cui esame era quindi precluso ai sensi dell’art. 1, c. 48, l. n. 92/2012, il giudice della fase sommaria aveva infine escluso la natura pubblicistica del consorzio rilevando che RAGIONE_SOCIALE rientrava nel novero degli enti pubblici economici, come tale sottratto alla disciplina pubblicistica, valorizzando al proposito il tenore dello statuto e del regolamento, ma soprattutto quanto previsto dall’art. 5, comma 8. della legge regionale sarda n. 10/2008, escludendo che in questo caso fosse intervenuta la trasformazione in consorzi di cui all’art. 31 D. lg. 276/2000, non essendosi perfezionato il relativo iter disegnato dal legislatore regionale. Ed in ogni caso, anche qualora il consorzio fosse risultato una pubblica amministrazione, le conclusioni in ordine all’infondatezza del ricorso non sarebbero mutate per le ragioni compiutamente esposte in sentenza, alle pagine 16 e 17, da intendersi qui richiamate.

Né, aveva rilevato il giudice, la comunicazione al personale del licenziamento per giusta causa di , senza qualsivoglia indicazione sulla vicenda sottesa alla decisione dell’ente, appariva tale da recare concreti pregiudizi al ricorrente, che nulla infatti aveva allegato al riguardo, e non poteva ricavarsi un apprezzabile pregiudizio sul piano morale neppure dall’asserita indebita richiesta del certificato del casellario giudiziale.

Ritenuto, pertanto, che nell’addebito contestato potesse ravvisarsi una giusta causa di recesso, ai sensi dell’art. 62 bis dell’accordo collettivo operante nella specie, ma anche ove fosse mancata un’apposita clausola pattizia, il giudice della fase sommaria aveva quindi concluso ritenendo la sanzione espulsiva legittima e proporzionata alla gravità del fatto contestato.

Avverso l’ordinanza aveva proposto opposizione davanti al medesimo Tribunale, cui il Consorzio aveva resistito, sostanzialmente ribadendo entrambi le difese già formulate nella prima fase del giudizio, il lavoratore in particolare quelle riferite alla natura pubblicistica del consorzio, alla conseguente nullità del provvedimento espulsivo per incompetenza assoluta della direttrice generale del consorzio ad erogarla, all’insussistenza dei presupposti per l’irrogazione di una sanzione espulsiva rientrando il fatto contestato tra le condotte punibili a quest’ultimo punto, in particolare, il lavoratore aveva ribadito di avere provveduto ad informare tempestivamente il datore di lavoro, cui già nel 2011, ma anche nei mesi di giugno 2014, di febbraio 2018 e di ottobre 2019, aveva offerto sufficienti elementi, in ragione dei quali il Consorzio avrebbe potuto procedere alla contestazione disciplinare, sospendendo il procedimento fino all’esito del processo penale avviato a suo carico. Il Tribunale adito aveva definito il giudizio con sentenza n. 1188/2024, pubblicata il 06.09.2024, con la quale il giudice dell’opposizione aveva ritenuto, alla luce delle complessive difese svolte dalle parti, di dover confermare la decisione assunta dal giudice della fase sommaria, senza necessità di ulteriore istruttoria, ritenendo di dover richiamare, per farle proprie ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., le già ampie motivazioni poste a sostegno dell’ordinanza n. 18/2021, in quanto fondata su un percorso argomentativo condivisibile “perché ampiamente supportato alla luce della documentazione versata in atti”. Innanzitutto, quanto alla contestata competenza del direttore generale del Consorzio, il Tribunale, ribadendo l’impostazione del primo giudice, aveva rilevato l’infondatezza della doglianza, richiamando il regolamento deliberato dal C.d. A. del *** e lo statuto dell’Ente, che attribuivano al Direttore Generale la competenza nella gestione del personale in servizio presso il consorzio e nella gestione del relativo rapporto di lavoro del personale dipendente, inclusi i profili di carattere disciplinare, competenza di cui era invece privo il presidente, ma anche il consiglio di amministrazione competente, in termini generali, all’adozione degli atti di programmazione delle assunzioni del personale, e non già di concreta gestione dei rapporti lavorativi intrattenuti dal consorzio, spettante solo al direttore generale. Riguardo, poi, al merito delle contestazioni disciplinari, il Tribunale, in coerenza con il primo giudice, aveva richiamato l’art. 62 bis del CCNL per i dipendenti dei consorzi ed enti di sviluppo industriale, che contemplava, tra le diverse fattispecie, il caso del lavoratore che incorre in una condanna a pena detentiva, con sentenza passata in giudicato, per un’azione connessa commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, idonea a ledere la figura morale del lavoratore.

In concreto, aveva specificato il giudice, era stato condannato in via definitiva ad otto mesi di reclusione per favoreggiamento personale commesso nell’occasione in cui, sentito dalla polizia giudiziaria il 15/04/2010, in qualità di persona informata sui fatti, aveva agevolato ad eludere le investigazioni, dopo la commissione da parte di costoro dei delitti di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 12 quinquies Dl 306/1992, nonché 73 e 74 DPR 309/1990, dichiarando falsamente, nello specifico, che alcune somme che aveva erogato con bonifico in favore di costituivano il prezzo pagato al primo per opere edili presso un suo appartamento, circostanza che era poi risultata in fase di indagini falsa e finalizzata unicamente a consentire a questi ultimi di eludere le investigazioni in corso a loro carico, con riguardo in particolare alla provenienza di somme di denaro sottoposte a sequestro preventivo, come riportato nella sentenza penale della Corte d’Appello di Cagliari n. 604/2017, ma anche della seconda sezione della Corte di Cassazione, n. 40531/2019, a seguito della quale la condanna era divenuta definitiva, non senza sottolineare che era stato poi effettivamente condannato in via definitiva per importazione di cocaina (così a pag. 19 della sentenza della sezione sesta della Cassazione penale n. 21888/2014). nell’organizzazione del consorzio, tale da comportare il mantenimento di rapporti con soggetti esterni, in supporto al responsabile del servizio degli affari legali, che rendeva immune da vizi la determinazione del *** con la quale, in applicazione della clausola contrattuale citata, era stato disposto il suo licenziamento sulla scorta della ritenuta inconciliabilità della condotta censurata con la prosecuzione del rapporto di lavoro per il ruolo di responsabilità da lui rivestito in seno al consorzio.

Anche riguardo al profilo dell’asserita decadenza nella quale sarebbe incorso il datore di lavoro, per aver contestato tardivamente l’addebito, il Tribunale aveva respinto la censura, ribadendo a tal proposito il principio ormai consolidato in giurisprudenza, secondo cui la tempestività dell’addebito deve essere intesa non in senso assoluto, ma relativo e contestualizzandolo alla singola vicenda esaminata, da un lato a garanzia del lavoratore incolpato, del quale doveva essere preservato il diritto ad una pronta ed effettiva difesa, tale da consentirgli di contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti e dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, in modo da tutelare il legittimo affidamento del lavoratore stesso in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede, con la precisazione che, in presenza di un illecito disciplinare di rilevanza anche penale, la tempestività deve essere valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiano ragionevolmente sussistenti. E, nel caso di specie, il Consorzio aveva agito correttamente – anche alla luce del contegno tenuto da che aveva ripetutamente omesso di trasmettere gli atti del processo penale che lo riguardava nella loro integralità, di fatto impedendo al datore di lavoro di avere compiuta e tempestiva contezza delle imputazioni ascrittegli e dell’esito del relativo vaglio processuale nei diversi gradi del giudizio – attendendo che la condanna divenisse definitiva prima di attivare il procedimento disciplinare, non solo perché era il CCNL a prevederlo, ma anche perché aveva avuto la ragionevole certezza dei fatti solo dopo la pubblicazione della sentenza di condanna definitiva. Ed infatti il Consorzio, nonostante le reiterate richieste rivolte a , era venuto a conoscenza della sentenza definitiva, e del dettaglio della condotta potenzialmente rilevante sotto il profilo disciplinare, solo attraverso l’accesso al sito istituzionale della Corte di Cassazione, come dimostravano i documenti prodotti se letti nella loro sequenza temporale.

In particolare, aveva rilevato il giudice dell’opposizione, “a fronte della richiesta di chiarimenti avanzata dal CONSORZIO con nota del 16.06.2011 (doc. n. 3, prodotto con la memoria di costituzione), il aveva inviato un estratto della sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Cagliari (1048/2011), che non riportava neppure il capo di imputazione ascritto e non avrebbe consentito, pertanto, al CONSORZIO stesso di attivare un procedimento disciplinare (cfr. doc. n. 4, prodotto con la memoria di costituzione). E ancora con successiva nota del 24.02.2014 il ricorrente aveva comunicato all’ex datore di lavoro che la Cassazione, con sentenza n. 21888 del 19.02.2014, aveva integralmente annullato i capi della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dalla Corte di Appello di Cagliari (cfr. doc. n. 5, prodotto con la memoria di costituzione).

Ebbene, solo a seguito di ulteriori sollecitazioni del ***, il ricorrente aveva trasmesso, con nota del 30.06.2014, copia integrale della predetta sentenza della Corte di Cassazione che aveva, in realtà, ’Appello di Cagliari n. 604/2017 nella sola parte relativa al dispositivo, trascurando, tuttavia, di trasmettere il provvedimento integrale, comprensivo della motivazione che avrebbe consentito al CONSORZIO di conoscere in modo sufficientemente dettagliato la condotta ascrittagli dinanzi al giudice penale (cfr. doc. n. 8, prodotto con la memoria di costituzione). Peraltro, la motivazione della predetta sentenza era stata depositata e resa disponibile fin dal 28.05.2018 e, dunque, alcun ostacolo impediva allo stesso coerentemente all’invocato canone della buona fede contrattuale, di portare a conoscenza del *** le ragioni della conferma della sua condanna per favoreggiamento personale.

Vieppiù, non è emersa neppure in questo giudizio alcuna prova circa eventuali comunicazioni del ricorrente all’Ente in data successiva e prossima al 03.10.2019 in ordine alla sopraggiunta definitività della predetta sentenza d’appello.

Ancora una volta era rimasto inadempiente rispetto ai propri obblighi in confronto del ***, che era stato costretto a sollecitarlo con nota del 20.07.2020 (cfr. doc. n. 9, prodotto con la memoria di costituzione) affinché fornisse chiarimenti circa la eventuale irrevocabilità della sentenza menzionata.

Tale inadempienza si era, peraltro, protratta dal momento che per il tramite del suo Difensore, aveva ulteriormente omesso di dar corso alla legittima richiesta del CONSORZIO (cfr. doc. n. 12, prodotto con la memoria di costituzione)”.

Da ciò la conclusione riportata in sentenza che la condotta dell’ente fosse legittima e corretta, essendosi risolto ad attivare il procedimento disciplinare solamente nel momento in cui il reato ascritto a era stato accertato con sentenza di condanna irrevocabile, fatto, quest’ultimo, pure necessario, secondo l’accordo collettivo operante nel rapporto di lavoro intercorrente tra le parti, per procedere in via disciplinare relativamente all’addebito contestato, tanto più evidente anche alla luce della condotta gravemente e reiteratamente omissiva del lavoratore, il quale si era limitato a rappresentare al datore di lavoro soltanto una parte minima degli elementi conoscitivi necessari ai fini del legittimo esercizio del potere disciplinare. Ritenuta, infine, la correttezza dell’ordinanza impugnata sotto gli altri profili esaminati, il Tribunale aveva rigettato il ricorso.

Avverso la sentenza ha proposto reclamo cui ha resistito RAGIONE_SOCIALE

Motivi della decisione Con un unico motivo di reclamo ha domandato la riforma della sentenza con cui il Tribunale aveva definito la fase di opposizione del giudizio proposto ex l. n. 92/2012, perché a suo dire errata nella parte in cui non aveva ritenuto la nullità e/o l’inefficacia del licenziamento irrogato in ragione della tardività della contestazione di addebiti che aveva dato avvio al procedimento disciplinare.

In particolare, il reclamante ha lamentato che il primo giudice, dopo avere richiamato la ratio del principio dell’immediatezza della contestazione, finalizzato “da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato un effettivo diritto di difesa, tale da consentirgli di contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento dello stesso lavoratore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare” e dopo avere dato atto, in linea con quanto dichiarato dallo stesso consorzio, dell’elemento fattuale secondo cui l’ente datoriale era “venuto a conoscenza nel novembre 2010, in seguito ad una perquisizione eseguita nei propri uffici della polizia tributaria, del fatto che il ricorrente fosse indagato nell’ambito di un procedimento penale legato al traffico di sostanze stupefacenti”, avesse omesso ogni considerazione in ordine alla di dover avviare all’epoca alcuna indagine o di doverlo invitare a fornire chiarimenti in proposito, così ingenerando in lui un legittimo affidamento in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro è tenuto a comportarsi in conformità ai canoni della buona fede, sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, in linea con i principi ormai da tempo affermati dalla Suprema Corte (da ultimo con l’ordinanza n. 7467 del 2023). Non vi erano neppure ragioni, delle quali comunque il giudicante non aveva dato atto, idonee a far ritardare la contestazione, come il tempo necessario per l’espletamento delle indagini dirette all’accertamento dei fatti, peraltro avviate solo dopo la conoscenza della sentenza della Corte di Cassazione n. 40531 del 03/10/2019.

E, in quest’ottica, nessuna rilevanza decisiva poteva assumere il contegno da lui tenuto, consistente nell’aver ripetutamente omesso di trasmettere gli atti del processo penale che lo riguardava nella loro integralità o di aver trasmesso solo un estratto della sentenza del GUP, che non riportava il capo di imputazione ascritto, poiché, anche davanti a queste circostanze, il datore di lavoro aveva richiesto chiarimenti solo con nota del 16/06/2011, tardivamente, a distanza di ben sette mesi dalla conoscenza dell’indagine a carico del dipendente, non manifestando quindi alcun interesse all’integrale conoscenza dei fatti, omettendo ogni ulteriore richiesta di chiarimenti, tanto che il rapporto di lavoro era proseguito in maniera lineare per diversi anni, fino alla nota indirizzata al Consorzio in data 24.02.2014, con la quale egli aveva, per correttezza, comunicato al datore di lavoro che la Cassazione, con sentenza n. 21888 del 19/02/2014, aveva integralmente annullato i capi della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dalla Sezione Penale della Corte d’Appello di Cagliari. E solo a partire da tale momento il consorzio aveva chiesto al dipendente copia integrale della predetta sentenza, trasmessa con nota del 30 giugno 2014, con la conseguenza che la decisione gravata era inficiata da un vizio logico consistente nell’aver dato applicazione in modo non coerente con la stessa giurisprudenza citata in sentenza al principio dell’immediatezza che, seppure da intendersi in senso relativo, poiché si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per l’espletamento delle indagini dirette all’accertamento dei fatti o la complessità dell’organizzazione aziendale, non si poteva non tener conto del fatto che il principio ha comunque una pacifica portata pluridirezionale. Accanto, quindi, alla fondamentale funzione di garantire il diritto di difesa del lavoratore, vi era anche quella di non perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, che non consente al datore di lavoro imprenditore di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente, ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, come nel caso di specie.

Il vizio delineato, inoltre, non era superato nemmeno dalla clausola del CCNL che aveva previsto il licenziamento senza preavviso in ipotesi di “condanna ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che lede la figura morale del lavoratore”, poiché, tale norma poteva trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui il datore fosse posto a conoscenza, per la prima volta, di fatti aventi rilevanza disciplinare con la comunicazione della sentenza definitiva di condanna. Pertanto, ha concluso il reclamante, considerato il fatto che il consorzio aveva immotivatamente omesso ogni che aveva coinvolto solo a distanza di quattro anni, stante la mancanza di allegazioni da parte del *** in merito alle ragioni per le quali non aveva ritenuto di assumere iniziative volte ad accertare meglio i fatti disciplinarmente rilevanti, il giudice avrebbe dovuto ritenere la contestazione tardiva ed imputabile alla cattiva organizzazione dello stesso datore di lavoro, accogliendo la domanda originaria, nei termini invocati sin dal ricorso introduttivo. Da ciò la necessaria riforma della sentenza reclamata.

Il reclamo è infondato.

Va, peraltro, preliminarmente evidenziato che la sentenza è stata censurata da solo nella parte in cui il primo giudice aveva escluso la tardività della contestazione di addebito che aveva dato avvio al procedimento disciplinare e non aveva perciò dichiarato la nullità e/o inefficacia del licenziamento.

In merito alle altre domande non accolte dal primo giudice – che nello specifico hanno riguardato le questioni relative alla natura del *** (se ente pubblico economico o meno) e del rapporto di lavoro (se di pubblico impiego o meno), all’incompetenza del direttore generale del Consorzio ad adottare il provvedimento espulsivo, alla proporzionalità del licenziamento e alla natura persecutoria e violenta della condotta posta in essere dal Direttore Generale del Consorzio nei suoi confronti – si è quindi formato il giudicato e la sentenza risulta in proposito ormai incontrovertibile. Di conseguenza, non è più neppure contestata la sussistenza degli addebiti e dei fatti come accertati dal giudice penale con sentenza ormai definitiva, di cui aveva cercato di sminuire la portata in modo, a dire il vero, singolare, attribuendoli cioè ad una condotta semplicemente imprudente e poco accorta da parte sua, in questo smentito dalla ricostruzione, anche in termini di gravità, ormai pacifica, dei giudici penali e del primo giudice.

Venendo, quindi, alla controversa tardività della contestazione degli addebiti, il collegio ritiene che la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare alla fattispecie concreta, attribuendo una giusta considerazione alla circostanza che si verteva in materia di fatti estranei al rapporto lavorativo aventi rilevanza penale, letta alla luce sia dello svolgersi della vicenda in fatto come attestata dalla documentazione prodotta che dell’importante ruolo rivestito da all’interno del Consorzio, con motivazione sorretta da un ragionamento logico-giuridico ricondotto in modo pertinente alla documentata ricostruzione dei fatti. Il primo giudice, dopo aver richiamato integralmente, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. il percorso argomentativo seguito dal giudice della fase sommaria, ha affermato la validità del licenziamento intimato a perché tempestivo e rispettoso della previsione dell’art. 62 bis del CCNL per i “ ” applicato al rapporto, che disciplina i “comportamenti sanzionabili” e prevede la comminazione del licenziamento senza preavviso “a quei lavoratori che commettano infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro che siano così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro o che commettano azioni che costituiscono delitto a termine di legge, anche non specificamente richiamate nel azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che lede la figura morale del lavoratore”. Tale previsione, infatti, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante non opera alcuna distinzione tra l’ipotesi in cui il datore di lavoro venga a conoscenza dei fatti estranei al rapporto lavorativo aventi rilevanza penale e disciplinare, per la prima volta, con la comunicazione della sentenza definitiva di condanna e quella in cui, come nel caso di specie, la vicenda processuale fosse emersa in precedenza, ma in modo parziale, non idoneo a far comprendere la natura della condotta penalmente rilevante ascritta al lavoratore e la scelta delle parti collettive di ancorare la sanzione espulsiva alla condanna passata in giudicato in tali ipotesi si spiega agevolmente in termini di maggior favore per il lavoratore, proprio perché si è in presenza di una condotta estranea al rapporto di lavoro, idonea ad assumere rilevanza quando diventi definitivamente chiara, come quando sia accertata con condanna passata in giudicato. , nel caso di specie, ha effettivamente riportato una condanna ad otto mesi di reclusione per favoreggiamento personale commesso nell’occasione in cui, sentito dalla Polizia Giudiziaria il 15.04.2010, nella sua qualità di persona informata sui fatti, aveva agevolato ad eludere le investigazioni, dopo la commissione da parte di costoro dei delitti di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 12 quinquies, d.l. n. 306/1992, nonché 73 e 74, D.P.R. n. 309/1990 (in tal senso la sentenza n. 604/2017, della Corte di Appello di Cagliari, prima sezione penale, in atti come doc. 17, ormai definitiva perché confermata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 40531/2019). Non è più controvertibile, quindi, che egli avesse dichiarato falsamente agli investigatori di avere versato con bonifico alcune somme a quale prezzo pagato al primo per opere edili presso un proprio appartamento, e che tale circostanza fosse poi risultata, in fase di indagine, falsa e unicamente finalizzata a consentire a questi ultimi di eludere le investigazioni in corso a loro carico con riguardo in particolare alla provenienza di somme di denaro sottoposte a sequestro preventivo (così n. 604/2017 citata e Cass. Pen. n. 40531/2019) e che fosse stato effettivamente condannato per importazione di cocaina in via definitiva (in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sezione sesta, n. 21888/2014 a pag. 19).

E posto che si trattava di condotta inconciliabile con la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche avuto riguardo al ruolo di particolare responsabilità rivestito da in seno al Consorzio, circostanza questa ormai non più contestata in questo grado del giudizio, correttamente quest’ultimo aveva disposto il licenziamento per giusta causa.

Riguardo alla lamentata tardività della contestazione degli addebiti – che secondo sarebbe frutto di una colpevole inerzia del Consorzio, che avrebbe dovuto procedere alla contestazione dei fatti che avevano portato alla sua condanna senza attendere l’esito del procedimento penale, salvo poi sospendere il procedimento disciplinare in attesa della condanna penale definitiva, eventualmente sospendendolo cautelarmente dal servizio in attesa della sua definizione, avendo così al contrario ingenerato un affidamento da parte sua sulla volontà datoriale di mantenere in vita il rapporto lavorativo – è parere del collegio che il giudice dell’opposizione, al pari peraltro del giudice della fase sommaria, abbia correttamente valutato la sequenza lavorativo, solamente nel momento in cui ne aveva avuto piena contezza anche in termini di gravità e dello stesso vi era stato un accertamento definitivo, con sentenza di condanna irrevocabile, pure necessario, secondo l’accordo collettivo operante nel rapporto di lavoro intercorrente tra le parti, per procedere in via disciplinare relativamente all’addebito contestato e per intimare la sanzione espulsiva. Ritiene, infatti, il collegio che nel momento in cui il consorzio aveva avuto una prima (ma generica) notizia del coinvolgimento di in un procedimento penale, in occasione cioè della perquisizione da lui subita negli uffici nel mese di novembre 2010, che aveva rivelato l’esistenza di indagini preliminari in corso, non fossero proprio delineati, o delineabili altrimenti, gli elementi necessari per comprendere quale fatto reato gli fosse esattamente contestato e per valutarne la relativa responsabilità, in quel momento del tutto ignoto in quanto avvenuto al di fuori del luogo di lavoro, tanto più che la perquisizione aveva dato solo avvio alla vicenda processuale, all’epoca ancora in fase di indagini (suscettibili di archiviazione) e che non vi era quindi alcun modo per il datore di lavoro di acquisire conoscenza della riferibilità del fatto al lavoratore stesso e per ritenere sussistente un illecito rilevante anche disciplinarmente. E la vicenda processuale si era poi rivelata lunga, oltre che caratterizzata dal susseguirsi di sentenze, come correttamente sottolineato dal consorzio, anche contraddittorie se si considera che la Suprema Corte nel 2014 aveva in parte annullato con rinvio la sentenza della sezione penale della Corte d’appello di Cagliari nella parte a carico di , che si protestava innocente, tanto da supportare la convinzione datoriale di dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza per valutare la gravità della sua condotta, in questo supportato anche dalle previsioni del contratto collettivo. Se è vero, infatti, che il consorzio aveva saputo che vi erano indagini che avevano coinvolto nell’ambito di un non meglio precisato procedimento penale nel mese di novembre 2010, quando la polizia giudiziaria aveva perquisito gli uffici e sequestrato un computer a lui in uso, è anche vero che nessun elemento gli era stato fornito, neppure da , in quell’occasione in merito al suo reale coinvolgimento nell’indagine, né il datore di lavoro, estraneo ai fatti, aveva titolo alcuno per acquisire altrimenti più compiuti elementi, visto che si trattava di vicende estranee all’ambito lavorativo. ha contestato che il consorzio solo nel mese di giugno 2011 avesse appreso, attraverso notizie di stampa, che era stato condannato dal Gup del Tribunale Penale di Cagliari per una vicenda non lavorativa, quando si era subito attivato per domandargli una copia autentica della sentenza, con l’attestazione del passaggio o meno in giudicato della stessa (v. doc. 3 ***).

Ed è anche vero che, a fronte di tali inequivoca richiesta datoriale, egli aveva risposto inviando soltanto un ridotto estratto della sentenza del Gup, che non conteneva neppure una specifica indicazione del capo di imputazione e non consentiva affatto di ricavare quali fossero i fatti al medesimo ascritti e che comunque egli aveva accompagnato l’estratto del provvedimento con una nota nella quale aveva precisato che avrebbe interposto appello sul presupposto che il procedimento fosse ingiusto, concludendo che sarebbe stata sua “cura trasmettere annotazione della cancelleria competente relativa all’avvenuta presentazione del gravame”, segno evidente che aveva ben compreso la volontà del datore di lavoro di avere compiuta notizia della sorte del procedimento evince poi dal documento 5 prodotto dal consorzio, il cui oggetto è “nota di chiarimento del giugno 2011 relativa a sentenza pronunciata dal GUP del Tribunale penale di Cagliari del 24 maggio 2011 – comunicazione” che reca la data del 24 febbraio 2014 e la firma di , come egli avesse ben compreso e fosse quindi consapevole, da un lato, del persistere dell’interesse datoriale, già manifestatogli dal legale rappresentante pro tempore del consorzio, in merito alla sorte della sua vicenda processuale (a chiarimenti richiestigli è fatto riferimento nel documento), tanto che in quella data aveva comunicato all’ente che “la Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi con sentenza del 19 febbraio 2014, ha integralmente annullato i capi della sentenza di condanna data nei miei riguardi della Corte d’appello il 20 Aprile 2012, che confermava quella del G.U.P. menzionata in oggetto”, e dall’altro che siffatta informativa fosse dovuta al datore di lavoro nell’ambito dei doveri di correttezza che dovrebbero caratterizzare il rapporto (si legge testualmente in chiusura del documento “tanto era dovuto per correttezza, nella mia qualità di lavoro dipendente del Consorzio”). E tale nota di chiarimento, lungi dall’essere spontanea, si spiega se si considera la successiva nota del commissario del consorzio in data 28 marzo 2014 (doc. 6), nella quale questi aveva dato atto di una precedente richiesta, formulata con nota riservata del consorzio in data 24/02/2014, peraltro ulteriormente reiterata, sollecitando ancora la richiesta di una copia autentica della sentenza, manifestando perciò, inequivocabilmente, ancora una volta la volontà datoriale di avere compiuta notizia del procedimento penale e del suo esito. Già la lettura di tale carteggio consente quindi di ritenere che il consorzio, lungi dall’avere ingenerato nel lavoratore l’idea di voler mantenere il rapporto manifestando inerzia, si era invece fin dal principio attivato per avere notizia del procedimento penale a suo carico riferito a fatti non lavorativi, cui l’ente era rimasto estraneo, di cui nulla aveva ritenuto di riferire nel dettaglio , e si comprende altresì, anche dal successivo carteggio, che i doveri di correttezza propri del lavoratore erano stati interpretati da in modo unidirezionale, dato che aveva ritenuto di informare nel dettaglio compiutamente il datore di lavoro, a fronte dei solleciti rivoltigli, solo quando questo fosse per lui conveniente. Ed infatti , con nota del 30 giugno 2014, si era determinato a trasmettere la copia integrale della sentenza della Suprema Corte n. 21888/2014, datata 19 febbraio 2014, depositata in cancelleria il 28 maggio successivo e notificata nei giorni seguenti al suo difensore, precisando che, per la parte che lo interessava, la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari del 20 aprile 2012 era stata annullata con rinvio ad altra sezione, richiamando la motivazione nella medesima riportata alle pagine da 23 a 25, concludendo, ad ulteriore riprova della esatta consapevolezza della volontà non certamente omissiva datoriale, che sarebbe stata “sua cura e scrupolo informare l’amministrazione in indirizzo degli ulteriori, successivi sviluppi della vicenda giudiziaria” (doc. 7).

Con nota in data 2 febbraio 2018 aveva poi trasmesso al consorzio “copia libera” della sentenza della Corte d’Appello penale di Cagliari del giorno 11 luglio 2017, precisando che si era ancora in attesa delle motivazioni del dispositivo, dal quale si evinceva che pur assolto dal reato di cui al non riportato capo 15, era stato invece condannato per il reato di cui al capo 9), anch’esso non precisato, con rideterminazione quindi della pena in otto mesi di reclusione (doc.

8) era stata trasmessa a copia della sentenza della prima sezione penale della Corte d’appello di Cagliari del 2017, risaliva al 2 febbraio 2018 e aveva ulteriormente sollecitato notizie in merito alla pendenza del procedimento e domandato se da febbraio 2018 fossero state emesse ulteriori sentenze (doc. 9).

, che in precedenza aveva sempre risposto personalmente, con note a sua firma, a quel punto aveva fatto rispondere al suo difensore che, con nota redatta in nome e nel suo interesse, aveva precisato che il procedimento penale era stato definito con sentenza passata in giudicato, senza aggiungere ulteriori specificazioni (doc. 10), tanto da costringere il consorzio a dare atto che nel corso del tempo, reiteratamente, gli erano state chieste informazioni sul predetto procedimento penale e a richiamarlo al rispetto delle regole di correttezza e buona fede secondo cui avrebbe dovuto informare l’ente immediatamente sulla definizione del procedimento in questione, domandandogli, alla luce della comunicazione sopra citata, di fornire tempestivamente copia della sentenza passata in giudicato in modo da consentirgli di effettuare le conseguenti valutazioni di competenza (doc. 11). A ciò aveva fatto seguito una comunicazione in data 4 agosto 2020, sempre a firma del suo difensore, che stigmatizzava il comportamento del consorzio, rilevando che avrebbe dovuto doverosamente fare riferimento al legale scrivente e non a , cui dichiarava di rispondere proprio in applicazione delle regole di correttezza e buona fede invocate, evidenziando nel merito della questione, sempre nel rispetto delle regole di correttezza e buona fede, di dover osservare che nelle precedenti richieste mai il consorzio aveva indicato le ragioni per cui era interessato ad una questione definita “squisitamente personale e datata nel tempo, che aveva turbato non poco il suo assistito e che non poteva che trovare sollievo dalla conclusione della triste vicenda”. Il legale aveva poi proseguito invitando il consorzio a fargli conoscere le ragioni della richiesta di avere copia della sentenza, posto che il suo assistito aveva già comunicato la definizione del procedimento che lo aveva visto interessato e che tanto allo stato avrebbe dovuto essere sufficiente per il datore di lavoro, non senza aggiungere che la tempestività invocata del consorzio sarebbe dipesa dal contenuto delle richieste precisazioni e comunque dal suo rientro dalle ferie, in data 8 settembre 2020 (doc. 12). Da ciò la decisione del consorzio di acquisire autonomamente la sentenza della Suprema Corte, con la quale era stato definito il giudizio, di cui ancora fino a quel momento mai aveva compiutamente reso edotto il datore di lavoro in modo da consentirgli di comprendere, in modo sufficientemente dettagliato, la condotta ascrittagli in via definitiva dal giudice penale, tenendo quindi una condotta omissiva certamente non conforme ai canoni di correttezza e buona fede che dovrebbero improntare il rapporto tra le parti e di cui egli era ben consapevole, come si evince dalle note a sua firma più volte inviate al consorzio in cui a tali doveri da parte sua aveva fatto richiamo. Si tratta di documenti che mostrano chiaramente in capo a la consapevolezza della volontà del consorzio di conoscere adeguatamente la vicenda penale che lo aveva riguardato e che atteneva a fatti estranei al rapporto lavorativo, di cui nulla il consorzio poteva compiutamente conoscere se non attraverso la sua iniziativa e che altrettanto chiaramente dimostrano altresì come il consorzio si fosse prontamente attivato per domandare notizie di tale procedimento fin dal 2011, non appena aveva avuto dalla stampa certezza dell’esito alle scostanti risposte del suo difensore, che si era mostrato perfino contrariato dalle richieste rivolte dal datore di lavoro, stigmatizzandone apertamente il comportamento, addirittura domandando di conoscere le ragioni, a dire il vero evidenti, per le quali si era determinato a chiedere notizie in merito. Alla luce di tali circostanze documentate dal consorzio, non può farsi a meno di rilevare come correttamente entrambi i giudici del primo giudizio (della fase sommaria e della fase di opposizione) abbiano ritenuto che parte reclamante avesse a suo tempo tenuto costantemente una condotta inadempiente rispetto ai suoi obblighi in confronto del datore di lavoro, che reiteratamente gli aveva invece domandato di avere contezza, per ogni opportuna valutazione, delle vicende non lavorative di rilievo penale che lo avevano coinvolto, riferendosi nelle diverse missive inviategli alla sentenza e al suo passaggio in giudicato, come si rileva fin dalla prima nota del 16 giugno 2011, segno evidente della volontà, già sottolineata dai giudici del primo grado, di riservare ogni decisione al momento in cui i fatti fossero stati definitivamente accertati in modo incontrovertibile, secondo buona fede e correttezza contrattuale, ed in conformità alle previsioni del contratto collettivo di riferimento, a sua garanzia. La documentazione prodotta contiene un’evidente manifestazione della volontà datoriale, già dal 2011, di procedere a valutare i fatti di rilevanza penale ed estranei all’attività lavorativa che lo avevano coinvolto, una volta passata in giudicato la sentenza, dimostrando quindi una volontà di segno contrario alla dedotta rinuncia all’esercizio dell’azione disciplinare, circostanza questa a lui ben nota e di cui aveva ben compreso il significato, come si evince dai numerosi documenti prodotti, idonei ad attestare che fin dal 2011 gli fossero stati sollecitati più volte chiarimenti, anche in via documentale, circa il contenuto e la definizione in modo irrevocabile del procedimento penale. E della sua condotta inadempiente, non ispirata a buona fede contrattuale, come già rilevato dagli altri giudici, è significativa non solo la ripetuta omissione da parte sua nel trasmettere gli atti del processo penale che lo riguardava completi e nella loro integralità, salvo quelli che erano a lui favorevoli, ma anche la singolare condotta da lui complessivamente tenuta, addirittura attraverso il suo difensore che, forse dimenticandosi che il consorzio era il suo datore di lavoro e il suo non trascurabile ruolo in seno al consorzio, era addirittura giunto a stigmatizzare la legittima richiesta del consorzio di avere informazioni, una volta che il difensore gli aveva comunicato genericamente il passaggio in giudicato della sentenza, necessarie per effettuare le opportune valutazioni sotto il profilo disciplinare a fronte di fatti accaduti fuori dall’ambito lavorativo, tanto più se si considera la complessità delle vicende che lo avevano visto coinvolto in sede penale, e le difficoltà di valutarne la condotta sul piano strettamente tecnico-giuridico, anche in termini di gravità e di conseguenti riflessi sulla posizione lavorativa, come dimostra l’annullamento con rinvio della prima sentenza pronunziata dalla Corte d’Appello penale di Cagliari ed il contenuto della successiva pronuncia della medesima Corte di Appello del 2017, poi confermata dalla Suprema Corte. La tempestività della contestazione deve essere valutata quindi con riferimento alla data in cui il consorzio – che pure ha dato prova di essersi attivato per avere dettagliate informazioni fin dalla prima notizia di una condanna nel 2011, senza trovare la sua leale collaborazione – ha avuto conoscenza del passaggio in giudicato di condanna, il *** non disponeva degli elementi per valutare la responsabilità sia penale che disciplinare , anche perché si trattava di una condotta tenuta al di fuori del luogo di lavoro e la vicenda processuale, che aveva interessato il lavoratore, era durata diversi anni ed era stata caratterizzata dal susseguirsi di una pluralità di sentenze, non tutte concordanti nel suo caso. L’attesa della definizione del procedimento penale prima di avviare il procedimento disciplinare, deve essere intesa nel senso di maggior favore e di garanzia nei confronti del lavoratore ed è questa anche la ratio alla base dello stesso art. 62 bis del CCNL.

Sul punto, il giudice ha fatto buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza in materia di licenziamento disciplinare e di immediatezza della contestazione, correttamente escludendo che vi fosse stata da parte del datore di lavoro una “acquiescente rinuncia allo strumento disciplinare”, non imponendo la legge, e tantomeno il contratto collettivo di riferimento, immediatezza di reazione, pur sempre nella ragionevole plausibilità del differimento di quest’ultima, plausibilità che deriva dal dovere di considerare, ai fini della tempestività del provvedimento, in relazione alla condotta disciplinarmente sanzionata, il lasso di tempo intercorrente tra passaggio in giudicato della sentenza di condanna del lavoratore e reazione datoriale, essendo la condotta tipizzata, idonea a giustificare la sanzione espulsiva posta fondamento del licenziamento intimato, quella riferita a “condanna ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che lede la figura morale del lavoratore”. Ai fini della valutazione della tempestività della sanzione disciplinare deve, quindi, aversi riguardo alla condanna in sede penale e al relativo passaggio in giudicato, non potendosi non ricordare che la condotta in questo caso era riferita a fatti estranei al rapporto lavorativo e che non erano stati portati compiutamente all’attenzione del datore di lavoro, nonostante le reiterate richieste, che non aveva potuto quindi valutare se fossero determinanti al fine del venir meno della fiducia al corretto temporaneo espletamento del rapporto lavorativo fino alla decisione di condanna in via definitiva, non essendo emersa dal momento della perquisizione e nel periodo successivo, anche a causa delle colpevoli omissioni del lavoratore a dire il vero, oltre che delle contrastanti sentenze avvicendatesi nel tempo, una situazione tale da rendere non proseguibile, anche provvisoriamente, il rapporto lavorativo e da rendere non necessario attendere la sentenza definitiva di condanna, tanto più a fronte della complessità dei fatti emersa già con l’annullamento con rinvio della prima sentenza pronunciata dalla Corte d’appello penale territorialmente competente. Né il consorzio era stato posto in condizioni di avviare alcun accertamento per verificare la fondatezza di fatti avvenuti, occorre ricordarlo, al di fuori dal luogo di lavoro e per i quali nel 2010 era ancora in corso la fase delle indagini preliminari cui il datore di lavoro era del tutto estraneo, avendo invece correttamente domandato fin dalla prima e certa notizia della fondatezza dell’indagine a suo carico perché non archiviata, coincidente con la condanna del 24 maggio 2011 del Gup del Tribunale di Cagliari, peraltro appesa dalla stampa, al lavoratore di avere informazioni sull’andamento del procedimento penale a suo carico, per ogni opportuna valutazione, che le avrebbe dovute fornire adeguatamente nell’ambito dei doveri di correttezza e buona fede. /1992 e, più specificamente, in tema fatti di rilevanza penale estranei al rapporto lavorativo anche n. 6937/2018).

E non può neppure farsi a meno di considerare che il lavoratore, che ancora oggi, e nonostante due provvedimenti per lui sfavorevoli, lamenta la mancata acquisizione altrimenti da parte del Consorzio di notizie in merito al procedimento penale a suo carico e, quindi, la mancata attivazione del procedimento disciplinare senza attendere l’esito del procedimento penale, nel giudizio di primo grado aveva lamentato una condotta illegittima del datore di lavoro, cui aveva pure in parte ricollegato una pretesa risarcitoria riferita a danni non meglio precisati, proprio per essersi attivato al fine di reperire la sentenza passata in giudicato, che si era di fatto rifiutato di produrre e il suo certificato del casellario giudiziale. Il primo giudice ha, quindi, letto i fatti in linea con il principio secondo cui “l’immediatezza della contestazione in materia di licenziamento disciplinare, integra un elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l’interesse del datore di lavoro all’acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest’ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicché, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l’esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida” (cfr. Cass. civ. Sez. L, 13.02.2015, n. 2902), puntualizzato dai giudici di legittimità con la precisazione che la tempestività deve essere intesa in senso non assoluto ma relativo, ossia contestualizzato rispetto alla singola vicenda in disamina. E ciò anche al fine di valutare se la contestazione formulata a distanza di tempo dal fatto addebitato possa fondare la presunzione di mancanza di concreto interesse del datore di lavoro all’esercizio del potere di recesso, ponendosi l’onere di tempestività in connessione con il principio di buona fede oggettiva e al dovere di non vanificare l’aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare.

A tal proposito, invero, la giurisprudenza di legittimità ha specificato che, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività della contestazione di cui alla l. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti, tanto più quando si tratti di fatti accaduti fuori dal contesto lavorativo, aggiungendo che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe altrimenti colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass. n. 23739/2008). E nel caso di , eventuali avventate incolpazioni si sarebbero rivelate tanto più dannose se si considera il ruolo di rilevo ricoperto all’interno dell’ufficio legale dell’ente e la parzialità delle informazioni dal medesimo offerte alla società datrice di lavoro, cui aveva rappresentato la sua estraneità ai fatti, manifestando la volontà di impugnare nelle sedi opportune la sentenza di condanna pronunziata nel 2011 ai suoi danni, peraltro annullata inizialmente dalla Suprema Corte, né il lavoratore avrebbe potuto auspicare l’attivazione del procedimento disciplinare prima che i fatti, si ribadisce verificatisi fuori dall’ambito lavorativo, fossero chiariti, con l’adozione eventualmente della sospensione dal lavoro, espressione di discrezionalità datoriale pura, a corrisposte, senza avere ricevuto la prestazione lavorativa ed il lavoratore al danno di non percepire per un lungo periodo la retribuzione. E se nella giurisprudenza può dirsi ormai consolidato il principio di diritto secondo cui “quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale” (cfr. Cass. 27.3.2008 n. 7983; Cass. civ., Sez. L., 27.02.2014, n. 4724; da ultimo anche Cass. 27/5/2024, n. 14726), è anche vero che tale principio si deve coniugare, al pari di quello della relatività con cui deve essere intesa l’immediatezza della contestazione, con la circostanza che il fatto costituente illecito disciplinare, dotato di rilevanza penale, nel caso di specie era riferito ad una condotta illecita non lavorativa, di difficile accertamento, tipizzata dalla contrattazione collettiva come idonea ad integrare giusta causa di recesso, con la conseguenza che il datore di lavoro era da un lato tenuto a manifestare il proprio interesse verso l’illecito, e ciò ha dimostrato di avere fatto il consorzio nel caso di per le ragioni già sopra evidenziate non appena avuto notizia di una sua prima condanna, ma anche ad attenersi ad un prudente indugio, per evitare che il lavoratore, anche nel suo interesse, fosse colpito da incolpazioni avventate o non sorrette da una sufficiente certezza e da inutili sospensioni in via cautelare, che avrebbero esposto le due parti a consistenti danni. Sul punto si è espressa anche la Cassazione, ribadendo il principio secondo il quale “qualora la contrattazione collettiva tipizzi la condotta idonea a giustificare la sanzione espulsiva collegandola al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, il differimento a una data successiva a tale evento non si configura come rinuncia all’esercizio del potere disciplinare e non lo rende intempestivo, anche in considerazione del fatto che una condotta estranea al rapporto di lavoro non può dirsi determinante ai fini del venir meno della fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento della prestazione lavorativa fino a che non sia accertata con sentenza penale passata in giudicato” (Cass. 20.03.2018, n. 6937). Ed in tal senso giustamente, quindi, il giudice dell’opposizione, ha ritenuto dirimente il contegno tenuto da , il quale aveva ripetutamente omesso di trasmettere gli atti del processo penale nella loro integralità, benchè più volte richiesti dal momento in cui si era rivelato certo il suo coinvolgimento nello stesso, rendendo di fatto più difficoltoso per il datore di lavoro avere compiuta e tempestiva contezza delle imputazioni ascrittegli e dell’esito del relativo procedimento penale nei diversi gradi di giudizio, operando un’esaustiva ricostruzione delle circostanze che hanno caratterizzato il particolare contesto, a dimostrazione della suddetta considerazione, correttamente concludendo che il *** non si era potuto rendere conto della reale rilevanza disciplinare della condotta non lavorativa fino al momento in cui aveva comunicato, peraltro non spontaneamente, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna del 2017 ed il consorzio era riuscito, autonomamente, a reperire la sentenza della Corte Cassazione che ne aveva sancito la definitività, che egli si era sostanzialmente rifiutato di produrre. manifestato dal consorzio fin dal 2011 ad avere contezza delle vicende non lavorative che lo avevano coinvolto e dovendosi altresì escludere che egli potesse avere fatto legittimamente affidamento sulla acquiescenza del datore di lavoro alla sua condotta.

La sentenza reclamata, in ragione di tali considerazioni, va pertanto confermata.

Data la soccombenza, il reclamante è tenuto alla rifusione delle spese del giudizio in favore della parte reclamata, che vanno liquidate come da dispositivo, ai sensi del D.M. 55 del 2014, modificato dal D.M. 147/2022, con riferimento ai parametri minimi della tabella per i giudizi innanzi alla corte d’appello senza fase istruttoria, di valore indeterminabile basso, che tengono conto della reale attività difensiva svolta, concentrata su un unico motivo di censura, peraltro già esaminato compiutamente nella precedenti fasi del giudizio. Sussistono, infine, i presupposti processuali per dichiarare tenuto il reclamante al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Definitivamente pronunciando rigetta il reclamo proposto da e conferma la sentenza impugnata.

Condanna alla rifusione delle spese del giudizio di appello in favore del che liquida in complessivi 3.473,00 euro, oltre spese forfettarie in misura del 15% e accessori dovuti per legge.

Dichiara tenuto il reclamante al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta, secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 1 quater D.P.R. 30-5-2002 n. 115, come modificato dall’art. 1, 17° comma l. 228-2012.

Cagliari, 4 aprile 2025 La Presidente del Collegio NOME COGNOME

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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