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Prestazioni aggiuntive medici: la guida completa

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27233/2024, ha chiarito il regime contributivo delle prestazioni aggiuntive medici. La Corte ha stabilito che i compensi per tali attività, svolte per ridurre le liste d’attesa, non sono assimilabili a retribuzione da lavoro dipendente e, pertanto, non sono soggetti a contribuzione INPS a carico del datore di lavoro, bensì a quella del fondo di previdenza di categoria (ENPAM). La decisione si fonda sulla natura libero-professionale di tali prestazioni, sebbene svolte per l’ente datore di lavoro.

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Pubblicato il 25 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Prestazioni aggiuntive medici: INPS o cassa professionale? La Cassazione fa chiarezza

Il corretto inquadramento contributivo delle prestazioni aggiuntive medici è un tema di grande rilevanza che incide direttamente sulla posizione previdenziale dei dirigenti sanitari e sugli obblighi delle aziende sanitarie. Con la recente sentenza n. 27233 del 21 ottobre 2024, la Corte di Cassazione ha fornito un’interpretazione decisiva, stabilendo che i compensi derivanti da tali attività non rientrano nella base imponibile per i contributi dovuti all’INPS, ma devono essere assoggettati alla contribuzione della cassa di previdenza professionale di categoria.

I fatti del caso

Un dirigente medico si era rivolto al tribunale per accertare l’obbligo della propria Azienda Sanitaria Locale (ASL) di versare all’INPS i contributi previdenziali sui compensi percepiti per lo svolgimento di prestazioni aggiuntive. Tali attività erano state richieste dall’ASL per far fronte a situazioni di eccezionalità e urgenza, come la necessità di ridurre le lunghe liste d’attesa. Sia in primo grado che in appello, i giudici avevano respinto la domanda del medico, qualificando tali prestazioni come attività libero-professionali svolte al di fuori dell’impegno di servizio e, di conseguenza, soggette a contribuzione verso l’ente di previdenza dei medici (ENPAM). Il medico ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che, trattandosi di attività svolte per il proprio datore di lavoro, i relativi compensi dovessero essere considerati retribuzione da lavoro dipendente a tutti gli effetti.

L’analisi della Corte di Cassazione sulle prestazioni aggiuntive medici

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del dirigente, confermando la decisione dei giudici di merito. Il fulcro del ragionamento della Cassazione risiede nella distinzione netta tra l’attività lavorativa ordinaria, anche se svolta oltre l’orario previsto (lavoro straordinario), e le prestazioni aggiuntive medici disciplinate dall’art. 55 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di settore.

La Corte ha chiarito che queste ultime, sebbene connesse al rapporto di lavoro subordinato, non ne costituiscono un’estensione automatica. Esse presentano caratteristiche peculiari:
1. Eccezionalità e Temporaneità: Vengono richieste solo per far fronte a esigenze specifiche e transitorie.
2. Consenso del Dirigente: Non possono essere imposte dal datore di lavoro, ma richiedono il consenso espresso del medico e un apposito accordo scritto.
3. Finalità Specifica: Sono finalizzate a obiettivi precisi, come l’abbattimento delle liste d’attesa.

Questi elementi configurano le prestazioni aggiuntive non come un obbligo derivante dal rapporto di lavoro dipendente, ma come un’attività assimilabile a quella libero-professionale, sebbene svolta in un contesto intramurario.

La natura delle prestazioni e l’inquadramento contributivo

La questione centrale, secondo la Corte, è la corretta interpretazione delle norme sulla determinazione della base imponibile contributiva. La legge (art. 12, L. n. 153/1969, come modificato dall’art. 6, D.Lgs. n. 314/1997) stabilisce un principio di armonizzazione tra la base imponibile fiscale e quella previdenziale, facendo riferimento ai redditi da lavoro dipendente definiti dall’art. 49 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (T.U.I.R.).

Tuttavia, la stessa normativa fiscale distingue i redditi da lavoro dipendente (art. 49) dai redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (art. 50). Tra questi ultimi, la lettera e) menziona espressamente “i compensi per l’attività libero professionale intramuraria del personale dipendente del Servizio sanitario nazionale”.

La Cassazione ha concluso che le prestazioni aggiuntive medici, per la loro natura consensuale e distinta dalle mansioni ordinarie, generano un reddito che, ai fini previdenziali, non rileva come retribuzione da lavoro dipendente. Di conseguenza, su tali compensi non è dovuta la contribuzione all’INPS a carico del datore di lavoro, ma quella specifica al fondo pensionistico professionale del medico.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si basano su un’interpretazione sistematica delle norme contrattuali e legislative. La previsione del CCNL (art. 55, comma 2) che disciplina le prestazioni aggiuntive non deroga alle norme previdenziali, ma si inserisce nell’ambito della delega concessa dalla legge (art. 15-quinquies, D.Lgs. 502/1992) per regolare le “modalità di svolgimento” delle attività svolte “al di fuori dell’impegno di servizio”. Sebbene il rapporto di lavoro subordinato sia l’occasione per cui tali prestazioni vengono offerte, la loro causa non è l’obbligo contrattuale, ma un accordo specifico e volontario. Il rapporto di lavoro subordinato è la mera occasione, non la causa della prestazione. Questa distinzione è cruciale: se fosse un’estensione dell’orario di lavoro, sarebbe soggetta alla contribuzione ordinaria. Essendo invece un’attività autonoma concordata, segue il regime contributivo proprio della professione medica.

Le conclusioni

In conclusione, la sentenza consolida un principio fondamentale: i compensi per le prestazioni aggiuntive dei dirigenti medici non costituiscono retribuzione imponibile ai fini della contribuzione INPS. Essi devono essere assoggettati al regime previdenziale del fondo di categoria. Questa decisione offre certezza giuridica alle aziende sanitarie e ai medici, chiarendo che la natura volontaria e concordata di tali attività le colloca al di fuori del perimetro del lavoro dipendente per quanto riguarda gli obblighi contributivi, assimilandole di fatto all’attività libero-professionale.

Come devono essere trattati i compensi per le prestazioni aggiuntive dei medici ai fini previdenziali?
Secondo la Corte di Cassazione, tali compensi non sono considerati retribuzione da lavoro dipendente. Pertanto, devono essere assoggettati alla contribuzione dovuta al fondo di previdenza professionale di categoria (es. ENPAM) e non a quella generale dell’INPS.

L’azienda sanitaria è obbligata a versare i contributi INPS sulle prestazioni aggiuntive di un dirigente medico?
No. La sentenza chiarisce che, dato che tali compensi non rientrano nella nozione di retribuzione da lavoro dipendente ai fini previdenziali, l’azienda sanitaria non è tenuta al versamento dei relativi contributi all’INPS.

Qual è la differenza fondamentale tra prestazioni aggiuntive e lavoro straordinario?
La differenza risiede nella loro natura giuridica. Il lavoro straordinario è un’estensione dell’orario di lavoro imposta dal datore, mentre le prestazioni aggiuntive sono attività eccezionali e temporanee che richiedono un accordo specifico e il consenso volontario del medico, configurandosi come un’attività assimilabile a quella libero-professionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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