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Premio di risultato: spetta in caso di licenziamento?

La Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto al premio di risultato spetta anche ai lavoratori licenziati prima della data di maturazione, se l’accordo aziendale esclude dal beneficio solo chi “risolve” volontariamente il rapporto. Il termine “risolvono” è stato interpretato come riferito alle dimissioni e non al licenziamento, in quanto la cessazione del rapporto non è dipesa dalla volontà del lavoratore. La Corte ha quindi rigettato il ricorso di un’azienda che negava il premio a un gruppo di dipendenti che aveva licenziato.

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Pubblicato il 23 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Premio di Risultato: Spetta anche in Caso di Licenziamento? La Cassazione Fa Chiarezza

L’erogazione del premio di risultato è spesso subordinata a specifiche condizioni previste negli accordi collettivi aziendali. Ma cosa accade se un lavoratore viene licenziato prima della data stabilita per la maturazione del premio? Ha comunque diritto a riceverlo? Con l’ordinanza n. 26909/2024, la Corte di Cassazione ha fornito un’interpretazione cruciale di una clausola contrattuale, stabilendo un principio fondamentale a tutela dei lavoratori.

I fatti del caso

La vicenda trae origine dalla richiesta di un gruppo di lavoratori nei confronti di una società di servizi. I dipendenti chiedevano il pagamento della quota del premio di risultato previsto da un accordo aziendale per l’anno 2016. L’accordo stabiliva due condizioni principali: il premio spettava al personale con contratto a tempo indeterminato in forza alla data del 31 dicembre 2016 e con un’anzianità di almeno sei mesi. Una seconda clausola precisava, tuttavia, che “Nulla verrà erogato ai dipendenti […] che risolvono il rapporto di lavoro prima del 31.12.2016”.

Il problema sorgeva dal fatto che i lavoratori in questione erano stati licenziati dalla società stessa nell’aprile del 2016 e, pertanto, non erano più “in forza” alla fine dell’anno. L’azienda, facendo leva su questa circostanza, aveva negato il pagamento del premio. La Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva invece dato ragione ai lavoratori, spingendo la società a presentare ricorso in Cassazione.

L’interpretazione della clausola sul premio di risultato

Il cuore della controversia risiedeva nell’interpretazione del verbo “risolvono” utilizzato nella clausola di esclusione. Secondo la società ricorrente, tale termine doveva essere inteso in senso impersonale e onnicomprensivo, includendo quindi qualsiasi tipo di cessazione del rapporto di lavoro avvenuta prima del 31 dicembre, compreso il licenziamento. A suo avviso, la condizione essenziale era la permanenza in servizio fino a fine anno, e la seconda clausola serviva solo a rafforzare questo concetto, escludendo esplicitamente anche chi si fosse dimesso.

La Corte d’Appello, e successivamente la Cassazione, hanno adottato un’interpretazione differente e più attenta al contesto. Hanno ritenuto che il secondo comma della clausola avesse lo scopo di delimitare la portata generale del primo. Il verbo “risolvono” non poteva essere letto in modo neutro, ma andava inteso come un’azione attribuibile al soggetto della frase, ovvero i dipendenti. Di conseguenza, la clausola escludeva dal premio solo i lavoratori che avevano attivamente e volontariamente posto fine al rapporto di lavoro (ad esempio, tramite dimissioni) prima della data stabilita.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando la decisione dei giudici d’appello e basando la propria decisione su solidi principi di ermeneutica contrattuale. In primo luogo, ha ribadito che l’interpretazione di un contratto è un’attività riservata al giudice di merito e che in sede di legittimità è possibile censurare solo la violazione dei canoni legali di interpretazione (artt. 1362 e ss. c.c.), non la scelta di una tra più possibili interpretazioni plausibili.

Nel caso specifico, l’interpretazione della Corte d’Appello è stata giudicata logica e plausibile. I giudici hanno sottolineato che se le parti avessero voluto escludere dal premio tutti i lavoratori non in servizio al 31 dicembre per qualsiasi motivo, la seconda clausola sarebbe stata superflua. La sua presenza, invece, indicava chiaramente l’intenzione di specificare e limitare l’esclusione ai soli casi di recesso volontario del lavoratore. Questa lettura è coerente con il principio sancito dall’art. 1359 c.c. (finzione di avveramento della condizione), secondo cui una condizione si considera avverata qualora sia mancata per una causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario al suo avveramento. In questo caso, è stata proprio la società, con il licenziamento, a impedire che si verificasse la condizione della permanenza in servizio, e non può quindi avvalersi di tale mancanza per negare il premio di risultato.

Conclusioni

La sentenza stabilisce un importante principio: nell’interpretare le clausole degli accordi aziendali sui premi di risultato, bisogna dare peso alla volontà effettiva delle parti e al comportamento tenuto. Una clausola che esclude dal beneficio i lavoratori che “risolvono” il rapporto prima della data di maturazione va intesa, salvo diversa ed esplicita previsione, come riferita ai soli casi di interruzione volontaria da parte del dipendente (dimissioni). Il datore di lavoro non può, quindi, licenziare un dipendente e poi negargli il premio adducendo il mancato rispetto di una condizione che lui stesso ha reso impossibile da adempiere. Questa decisione rafforza la tutela dei lavoratori contro interpretazioni contrattuali eccessivamente penalizzanti e formalistiche.

Un lavoratore licenziato prima della data di maturazione ha diritto al premio di risultato?
Sì, secondo questa ordinanza ha diritto al premio se l’accordo aziendale esclude dal beneficio solo i dipendenti che “risolvono” il rapporto. Tale termine è stato interpretato come riferito a un’azione volontaria del lavoratore (dimissioni) e non a una subita (licenziamento).

Cosa significa “risolvere il rapporto di lavoro” in un accordo aziendale?
La Corte ha stabilito che, nel contesto analizzato, il termine non ha un significato neutro ma si riferisce a un’azione attiva e volontaria del lavoratore. Di conseguenza, esclude solo coloro che decidono di porre fine al rapporto, come nel caso delle dimissioni, e non chi viene licenziato.

La Corte di Cassazione può sostituire l’interpretazione di un contratto fatta da un giudice di merito?
No, la Corte di Cassazione non può sostituire l’interpretazione del giudice di merito con una diversa, se quella fornita è una delle possibili e plausibili interpretazioni del testo contrattuale e non viola i canoni legali di ermeneutica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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