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Premio di risultato: spetta anche se licenziati?

Una società negava il premio di risultato a lavoratori licenziati prima della data di riferimento prevista da un accordo aziendale. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, stabilendo che la clausola di esclusione si applicava solo alle risoluzioni volontarie del rapporto (dimissioni) e non ai licenziamenti. Di conseguenza, i lavoratori hanno diritto a ricevere il premio di risultato maturato, poiché la cessazione del rapporto non è dipesa dalla loro volontà.

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Pubblicato il 1 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Premio di Risultato: Spetta Anche ai Lavoratori Licenziati? L’Analisi della Cassazione

L’interpretazione degli accordi aziendali è spesso fonte di contenzioso tra datori di lavoro e dipendenti, specialmente quando si tratta di emolumenti economici come il premio di risultato. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito un importante chiarimento su una clausola comune: quella che lega l’erogazione del premio alla permanenza in servizio a una certa data. La questione centrale è se un lavoratore licenziato prima di tale data perda automaticamente il diritto al premio maturato.

I Fatti del Caso: Il Contesto della Controversia

Un gruppo di lavoratori era stato licenziato da un’importante società di servizi nell’aprile del 2016. Successivamente, nel dicembre dello stesso anno, un accordo aziendale aveva istituito un premio di risultato per l’anno 2016. L’accordo conteneva una clausola specifica secondo cui il premio spettava al personale in forza al 31 dicembre 2016, aggiungendo che “Nulla verrà erogato ai dipendenti […] che risolvono il rapporto di lavoro prima del 31.12.2016”.

Basandosi su questa clausola, l’azienda aveva negato il pagamento del premio ai lavoratori licenziati, sostenendo che non erano più in servizio alla data richiesta. I lavoratori, ritenendo di aver comunque maturato il diritto per il periodo di lavoro prestato (da gennaio ad aprile 2016), hanno adito le vie legali.

L’Interpretazione dell’Accordo sul Premio di Risultato

La Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva dato ragione ai lavoratori. I giudici di secondo grado hanno interpretato la clausola in modo non restrittivo. Hanno sostenuto che il verbo “risolvono” utilizzato nell’accordo non si riferisse a qualsiasi forma di cessazione del rapporto, ma specificamente a un’azione volontaria del dipendente, come le dimissioni. Poiché i lavoratori erano stati licenziati, e quindi la cessazione del rapporto non era dipesa dalla loro volontà, la clausola di esclusione non poteva applicarsi a loro.

L’azienda ha impugnato questa decisione in Cassazione, sostenendo che i giudici avessero interpretato erroneamente la volontà delle parti. Secondo la società, il termine “risolvono” doveva essere inteso in senso impersonale, includendo ogni tipo di cessazione del rapporto di lavoro avvenuta prima del 31 dicembre 2016, licenziamento compreso.

La Decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando integralmente la sentenza della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno ribadito un principio fondamentale: l’interpretazione di un contratto o di un accordo aziendale è un’attività riservata al giudice di merito. La Cassazione può intervenire solo se tale interpretazione viola palesemente i canoni legali di ermeneutica contrattuale (come l’interpretazione letterale o quella basata sull’intenzione delle parti) o se la motivazione è illogica o contraddittoria.

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto l’interpretazione dei giudici d’appello non solo possibile, ma anche pienamente logica e plausibile, e quindi non censurabile in sede di legittimità.

Le Motivazioni

La motivazione della Corte si basa su un’analisi logica e sistematica della clausola contrattuale. I giudici hanno spiegato che se le parti avessero voluto escludere dal premio tutti coloro che non erano in servizio al 31 dicembre, sarebbe bastata la prima parte della clausola. L’aggiunta della seconda parte, che esclude chi “risolve” il rapporto, avrebbe perso di significato.

Questa seconda specificazione, invece, assume un ruolo cruciale: essa serve a delimitare la portata della regola generale, escludendo dal beneficio solo coloro che, per propria scelta, decidono di interrompere il rapporto di lavoro. L’interpretazione data dalla Corte d’Appello è l’unica che dà un senso logico a entrambe le parti della clausola. Estende il diritto al premio a coloro il cui rapporto si è interrotto per cause indipendenti dalla loro volontà (come il licenziamento), equiparandoli di fatto, ai fini del diritto maturato, a chi era ancora in servizio alla data di riferimento. Questa lettura è coerente con il principio generale secondo cui una condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario al suo avveramento.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre due importanti spunti di riflessione. In primo luogo, sottolinea l’importanza della chiarezza e precisione nella redazione degli accordi aziendali. L’uso di termini ambigui può portare a interpretazioni inaspettate in sede giudiziaria. In secondo luogo, rafforza la tutela del lavoratore, affermando un principio di equità: il diritto a una componente retributiva maturata nel corso dell’anno non può essere vanificato da un evento successivo, come il licenziamento, che non dipende dalla volontà del dipendente, a meno che l’accordo non lo preveda in modo esplicito e inequivocabile.

Un lavoratore licenziato prima della data di riferimento ha diritto al premio di risultato?
Sì, secondo questa ordinanza, il lavoratore ha diritto al premio se l’accordo aziendale esclude esplicitamente solo i casi di risoluzione volontaria del rapporto (dimissioni) e non ogni forma di cessazione.

Come va interpretato il termine “risolvono il rapporto” in un accordo aziendale?
La Corte ha stabilito che, nel contesto specifico dell’accordo esaminato, il termine “risolvono” si riferisce all’azione volontaria del lavoratore di porre fine al rapporto, escludendo quindi i licenziamenti decisi dal datore di lavoro.

La Corte di Cassazione può cambiare l’interpretazione di un contratto fatta da un giudice di grado inferiore?
No, la Corte di Cassazione non può sostituire la propria interpretazione a quella del giudice di merito, a meno che quest’ultima non violi i criteri legali di ermeneutica contrattuale o presenti vizi di motivazione. Se l’interpretazione è una delle possibili e plausibili, viene confermata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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