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Pensione di anzianità: no se il lavoro continua

La Corte di Cassazione nega il diritto alla pensione di anzianità a una lavoratrice che, dopo le dimissioni, è stata immediatamente riassunta dallo stesso datore di lavoro con un contratto part-time. La Corte ha ritenuto tale operazione una cessazione simulata del rapporto di lavoro, confermando l’annullamento della pensione da parte dell’ente previdenziale e la richiesta di restituzione delle somme percepite, data la provata mala fede della ricorrente.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Pensione di anzianità e riassunzione: la Cassazione chiarisce i limiti

Il diritto alla pensione di anzianità è strettamente legato a un presupposto fondamentale: la reale cessazione del rapporto di lavoro. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, negando la prestazione a una lavoratrice che, il giorno dopo le dimissioni, aveva ripreso a lavorare per lo stesso datore. Questo caso offre spunti cruciali per comprendere i requisiti necessari e i rischi di una cessazione del rapporto solo apparente.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda una lavoratrice che, dopo aver presentato le dimissioni con decorrenza 28 febbraio 2006, aveva ottenuto la liquidazione della pensione di anzianità a partire dal 1° marzo 2006. Tuttavia, lo stesso giorno di decorrenza della pensione, la lavoratrice aveva stipulato un nuovo contratto di lavoro subordinato part-time con il medesimo datore di lavoro.

Nel 2012, l’istituto previdenziale, venuto a conoscenza della situazione, ha annullato il provvedimento di concessione della pensione, ritenendo che non vi fosse stata una reale interruzione dell’attività lavorativa. La lavoratrice ha impugnato tale decisione. Mentre il Tribunale le ha dato ragione in primo grado, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza, accogliendo le tesi dell’ente previdenziale. La questione è così giunta all’esame della Corte di Cassazione.

La questione giuridica: cessazione del lavoro e presunzione di bisogno

Il fulcro della controversia risiede nell’interpretazione del requisito della cessazione del rapporto di lavoro per accedere alla pensione di anzianità. Secondo la giurisprudenza consolidata, tale requisito si fonda su una “presunzione di bisogno”. L’erogazione della pensione, infatti, è giustificata dalla cessazione dell’attività lavorativa e dalla conseguente perdita del reddito, che crea per il lavoratore uno stato di necessità che la prestazione previdenziale mira a colmare.

La prosecuzione del rapporto di lavoro, anche se con modalità diverse (come un contratto part-time), esclude questo stato di bisogno. La Corte ha chiarito che, quando la riassunzione avviene immediatamente e con lo stesso datore di lavoro, si configura una presunzione di simulazione dell’effettiva risoluzione del rapporto, finalizzata unicamente a ottenere la pensione pur continuando a percepire un reddito da lavoro.

Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della lavoratrice, confermando la decisione della Corte d’Appello. I giudici hanno sottolineato l’assenza di qualsiasi “iato temporale” tra le dimissioni e la riassunzione. La continuità dell’attività lavorativa, seppure in regime part-time, ha reso evidente il carattere simulato della cessazione.

Un elemento decisivo per la Corte è stata una “dichiarazione di responsabilità” sottoscritta dalla lavoratrice l’8 marzo 2006, in cui attestava di non essersi rioccupata dopo la data di decorrenza della pensione. Questa dichiarazione, palesemente non veritiera, ha non solo rafforzato la tesi della simulazione, ma ha anche dimostrato la mala fede della pensionata. Tale accertamento è stato fondamentale per escludere l’applicazione del principio di irripetibilità delle somme indebitamente percepite, condannando la ricorrente alla restituzione di quanto ricevuto.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso: per ottenere la pensione di anzianità, la cessazione del rapporto di lavoro deve essere effettiva e non meramente formale. Una riassunzione immediata presso lo stesso datore di lavoro è un forte indizio di simulazione che può portare all’annullamento della pensione e, in caso di mala fede, all’obbligo di restituire tutte le somme percepite. La decisione serve da monito per i lavoratori, evidenziando che l’accesso alle prestazioni previdenziali richiede il rispetto sostanziale, e non solo formale, dei requisiti di legge.

È possibile ottenere la pensione di anzianità e continuare a lavorare per lo stesso datore di lavoro senza interruzioni?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che una riassunzione immediata presso lo stesso datore di lavoro configura una presunzione di simulazione della cessazione del rapporto, un requisito essenziale per il diritto alla pensione di anzianità, poiché viene a mancare una reale interruzione dell’attività lavorativa.

Cosa succede se un pensionato viene riassunto subito dopo essere andato in pensione?
L’ente previdenziale può annullare il provvedimento di concessione della pensione. Se, come in questo caso, viene accertata la mala fede del pensionato (ad esempio, tramite false dichiarazioni), l’ente può anche richiedere la restituzione di tutte le somme già versate a titolo di pensione.

Una dichiarazione non veritiera all’ente previdenziale può influire sulla restituzione delle somme percepite?
Sì, in modo decisivo. Nel caso esaminato, la pensionata aveva dichiarato sotto la propria responsabilità di non essersi rioccupata. La Corte ha ritenuto questa dichiarazione non veritiera come prova della sua mala fede, escludendo il suo diritto a trattenere le somme percepite e giustificando pienamente la richiesta di restituzione da parte dell’ente previdenziale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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