Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16066 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 16066 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso 28770-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, domiciliato in INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 680/2021 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/09/2021 R.G.N. 272/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/05/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 08/05/2024
CC
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del giudice di primo grado, ha condannato RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di NOME COGNOME della somma di euro 317.979,60 a titolo di inadempimento delle obbligazioni assunte con il contratto stipulato il 6.3.2014 nonché di risarcimento del danno per la illegittimità del licenziamento intimato il 4.9.2014 (detratto l’importo di 15 mensilità dovute per l’esercizio dell’opzione prevista, a seguito di reintegrazione nel posto di lavoro, dall’art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970).
2. La Corte territoriale -rilevato che il giudice di primo grado ha condannato la RAGIONE_SOCIALE a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento (4.9.2014) all’effettiva reintegrazione e che il lavoratore ha (in data 11.3.2015) esercitato l’opzione di cui all’art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 -ha valutato ed interpretato l’accordo stipulato tra le parti il 6.3.2014 (nonché le lettere di intenti stipulate in precedenza volte a disciplinare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti, con clausola di stabilità pari a 5 anni, nonché la concessione di un’abitazione) ritenendo che l’obbligo di erogare tutte le retribuzioni in caso di ‘recesso/revoca’ anticipata sforniti di giusta causa (rispetto al periodo quinquennale pattuito) operasse non esclusivamente con riguardo al rapporto di lavoro bensì all’inadempimento di tutte le singole pattuizioni in esso contenute (fornendo una tutela rafforzata al lavoratore in c aso di recesso dall’accordo in assenza di giusta causa); accertato il recesso senza giusta causa della RAGIONE_SOCIALE dall’accordo contrattuale (avendo la
RAGIONE_SOCIALE stessa allontanato oralmente il lavoratore impedendogli di rendere la prestazione lavorativa ed estromettendolo dall’abitazione), la Corte territoriale ha riconosciuto al lavoratore le somme previste dal patto di stabilità (tutte le retribuzione come se il lavoratore avesse ‘lavorato per tutto il quinquennio’) essendo irrilevante (con riguardo alla risoluzione del rapporto di lavoro) l’esercizio della facoltà di opzione da parte del lavoratore (essendosi ormai definitivamente realizzati i presupposti di operatività della clausola di stabilità) e dovendo sottolinearsi la differente natura dell’indennità sostitutiva rispetto a quella risarcitoria contrattualmente stabilita per il recesso dall’accordo contrattuale in carenza di giusta causa; infine il datore di lavoro è stato condannato a pagare le somme retributive non regolarmente corrisposte sino alla data del licenziamento, oltre che gli importi relativi alla violazione del patto di stabilità elaborati dal CTU (dai quali sono stati espunti gli importi per indennità ferie non godute) già comprensivi della decurtazione riferita alle somme corrisposte (15 mensilità) quale indennità sostitutiva della reintegra.
La RAGIONE_SOCIALE ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a sette motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso. Entrambi le parti hanno depositato memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e 2 della legge n. 604 del 1966 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente interpretato l’accordo di stabilità concluso tra le parti il 6.3.2014, dovendo attribuirsi al termine
‘recesso e/o revoca senza giusta causa’ esclusivamente il significato di ‘licenziamento e/o dimissioni privi di giusta causa’ senza l’intento di ricondurre il pagamento di somme ingenti a qualsiasi altro inadempimento contrattuale (anche di scarso peso), a prescindere dalla tipologia e/o dalla sua gravità. Posto, quindi, che il datore di lavoro ha manifestato la propria volontà di recedere solamente in forma orale, deve ritenersi che tale atto non ha prodotto alcun effetto (dunque non può dirsi che il datore di lavoro sia receduto, a prescindere dall’esistenza o meno di una giusta causa); conseguentemente, ai fini dell’applicazione della clausola di stabilità, non può ritenersi intervenuto alcun licenziamento.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto che la risoluzione del rapporto sia da ricondurre al datore di lavoro, nonostante il datore di lavoro abbia provveduto a disporre la reintegrazione del lavoratore (con pagamento dell’indennità risarcitoria) e il lavoratore abbia, successivamente, optato per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, ex art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 (che espressamente prevede la riconducibilità della cessazione del rapporto al lavoratore rispetto ad un contratto che è stato ripristinato).
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 1383 c.c. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente riconosciuto al lavoratore il cumulo della penale prevista nell’accordo di stabilità (in caso di recesso anticipato non supportato da giusta causa) con il risarcimento del danno previsto dall’art. 18 della legge n. 300
del 1970, così determinando un ingiustificato arricchimento del lavoratore.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 1384 c.c. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato di rideterminare l’esorbitante ammontare della penale (pari a euro 317.979,60) decurtandola delle somme percepite dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno ex art. 18 della legge n. 300 del 1970, posto che il potere riconosciuto al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all’autonomia negoziale delle parti.
Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente interpretato la volontà dei contraenti desumibile dall’accordo di stabilità, ritenendo esigibile in via anticipata e con pagamento da effettuarsi in un’unica soluzione il credito vantato dal lavoratore (trascurando che detto credito matura mese per mese, alla scadenza di ogni mensilità).
Con il sesto motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, secondo comma, c.c. (ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato di valutare le critiche sollevate dal datore di lavoro alla perizia effettuata dal CTU in ordine al credito riconosciuto lavoratore.
Con il settimo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1277 e 1382 c.c. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente riconosciuto la rivalutazione monetaria sulla somma riconosciuta al lavoratore, considerato che la penale costituisce un debito di valuta (e pertanto non è oggetto di rivalutazione monetaria).
Il primo, il secondo ed il terzo motivo del ricorso non sono fondati.
8.1. Come più volte ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319 del 2017; conforme, da ultimo, Cass. n. 16987 del 2018; Cass. 30137 del 2021).
8.2. La Corte territoriale ha accertato la violazione dell’accordo stipulato (nel 2014) dalle parti sia con riguardo al rapporto di lavoro sia in relazione al profilo abitativo, e coerentemente all’interpretazione offerta alle parole ‘recesso/revoca’ contenute nel patto, ha riconosciuto al lavoratore le somme ivi pattuite a fronte dell’inadempimento di entrambe le obbligazioni (concernenti non solo l’attività lavorativa ma anche l’alloggio); invero, l’ordine di ripristinare il rapporto di lavoro in applicaz ione dell’art. 18, comma 1, della legge n. 300 del 1970 e l’offerta di reintegrazione nel posto di lavoro
rappresentano una fictio iuris che ricostituisce il contratto tra le parti ma che, come correttamente osservato dalla Corte territoriale, non hanno cancellato ‘i presupposti di operatività della clausola già definitivamente concretatisi’ (pag. 10 della sentenza impugnata). La sentenza impugnata si conforma al principio di diritto affermato da questa Corte, in base al quale l’opzione del lavoratore tra reintegra nel posto di lavoro e indennità sostitutiva del preavviso costituisce un atto negoziale autonomo nell’esercizio di un diritto potestativo che deriva dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento (cfr., da ultimo, Cass. n. 5759 del 2019, ed ivi giurisprudenza citata); correttamente, dunque, la Corte di appello ha rilevato che l’atto interruttiv o della prestazione lavorativa andava rinvenuto nel licenziamento (illegittimo), mentre l’opzione effettuata dal lavoratore rappresentava solo una mera conseguenza degli inadempimenti posti in essere dal datore di lavoro.
8.3. Coerentemente all’interpretazione del patto stipulato fra le parti -ossia che l’obbligo di erogare tutte le retribuzioni in caso di ‘recesso/revoca’ sforniti di giusta causa (rispetto al periodo quinquennale pattuito) operasse non esclusivamente con riguardo al rapporto di lavoro bensì all’inadempimento di tutte le singole pattuizioni in esso contenute -la Corte territoriale ha operato il cumulo delle somme previste dal suddetto patto con l’indennità risarcitoria dovuta ai sensi dell’art. 18, primo c omma, della legge n. 300 del 1970, nel rispetto dell’autonomia negoziale delle parti che hanno inteso fornire una tutela rafforzata al lavoratore in caso di recesso dall’accordo in assenza di giusta causa (privandolo sia dell’attività lavorativa che dell’a lloggio).
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
9.1. Questa Corte ha affermato che l’apprezzamento della eccessività dell’importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, e della misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità se non negli aspetti relativi alla motivazione (Cass. n. 23750 del 2018).
9.1. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fornito motivazione coerente con la ricostruzione esegetica del patto stipulato tra le parti, rilevando che ‘la somma individuata risulta già comprensiva della decurtazione riferita alle somme corrisposte quale indennità sostitutiva della reintegra e come tale emerge adeguata rispetto all’inadempimento al patto che ineriva non solo la prestazione lavorativa, ma anche la disponibilità dell’abitazione sicché la riduzione invocata ex art. 1384 c.c., anche volendo reputare la natura di penale della clausola, non appare accoglibile’; la suddetta motivazione non costituisce certamente una anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, come richiesto dal novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. 10. Il quinto motivo di ricorso non merita accoglimento, dovendo ribadirsi i limiti di una denuncia di un errore di diritto o di un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale svolta in sede di legittimità (cfr. punto 8.1.) ed avendo la Corte territoriale rilevato che il patto prevedeva l’obbligo di erogazione delle somme (previste in caso di recesso/revoca senza giusta causa) ‘come se gli stessi con
avessero lavorato per tutto il quinquennio’ ossia immediati effetti (pag. 8 della sentenza impugnata).
11. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile.
11.1. La censura è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto dei rilievi avanzati alla Corte territ oriale con riferimento all’elaborato formulato dal CTU, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod.pro.civ.
Il settimo motivo non è fondato.
12.1. Il ricorrente fonda la propria censura sulla natura di clausola penale del patto stipulato tra le parti, accertamento che, peraltro, non è stato effettuato dalla Corte di appello, dovendo, per contro, rilevarsi che sulle somme riconosciute al lavoratore va sicuramente riconosciuto il cumulo tra interessi e risarcimento del danno da rivalutazione monetaria, previsto dall’art. 429, terzo comma, c.p.c., ove si tratti di crediti liquidati a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, in quanto rappresentano pur sempre l’utilità economica che da questa il lavoratore avrebbe tratto ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall’ingiustificato recesso della controparte, profilo concorrente -nel caso di specie -con quello della privazione dell’abitazione, e l’obbligazione di fornire una abitazione al lavoratore rappresentava un adempimento accessorio alla prestazione principale (dello svolgimento di attività subordinata).
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato -se dovuto – previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 8.000,00 per compensi professionali ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’8 maggio